Jobs Act... Buona la prima... Ma sarà l’ultima?
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Nell’ultimo Consiglio dei Ministri, dello scorso 11 giugno 2015 l’argomento del Jobs Act ha rappresentato la “voce solista” del concerto titolato alla tanto sospirata riforma del mercato del lavoro, che ha visto la discussione di ben sei degli otto decreti complessivi previsti dalla legge quadro; due di essi hanno avuto il via definitivo dal CdM, gli altri quattro sono stati licenziati per il susseguente invio alle commissioni parlamentari al fine dell’espressione del previsto parere “non vincolante”. In sostanza, per l’esecutivo, regolare il sistema ha rappresentato l’obiettivo generale da voler perseguire.
Proviamo a fare un punto della situazione tentando di rimanere neutrali nelle considerazioni a seguire. Partendo dall’assunto, fondamentale, di considerare l’insieme delle decretazioni, fin qui proposte ed adottate dal Governo, certamente con connotati riformatori e necessari, per quanto riguarda l’assetto complessivo del mercato del lavoro, nel nostro Paese, esaminiamo la struttura d’insieme delle deleghe previste dalla legge quadro n.183/2014.
Oltre ai decreti già approvati e pubblicati, ovvero i decreti legislativi 22 e il 23 del 2015, in vigore dallo scorso 7 marzo, elenchiamo i seguenti:
- misure per la conciliazione delle esigenze di cura vita e lavoro (esame definitivo CdM);
- disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni (esame definitivo CdM);
- disposizioni per la realizzazione e semplificazione attività ispettiva (esame preliminare CdM);
- disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali (esame preliminare CdM);
- disposizioni per il riordino della normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive (esame preliminare CdM);
- disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e adempimenti di cittadini e imprese (esame preliminare CdM).
In primo luogo è corretto affermare che il “contratto a tempo indeterminato” ha assunto, nei fatti, la centralità che merita nell’ambito del mercato del lavoro. Tale è infatti, da intendersi, la scelta fatta con l’introduzione del contratto definito (forse però audacemente se consideriamo, ad esempio, il sostanziale superamento del diritto alla reintegra, di cui all’art.18 – statuto dei lavoratori) a “tutele crescenti” ma che ha la veste di contratto di lavoro a tempo indeterminato, e per il quale il Governo ha previsto, al fine di una sua reale “attrattività”, un primo periodo corrispondente a tre anni, per i quali è introdotta una decontribuzione massima di € 8.060 annui, quale strumento di concreta incentivazione, rivolto alle imprese.
Ebbene, se da un lato è facile immaginare, ma anche constatare con i fatti, il reale ricorso a tale nuova tipologia contrattuale in maniera particolarmente intensa, in questo primo periodo di vigenza della norma ( operativa dallo scorso 7 marzo 2015), dall’altro lato è giusto porsi il problema rispetto al forte incentivo pensato per un primo triennio, che però con l’eventuale sua eliminazione/mancato rifinanziamento, potrebbe cagionare un effetto marea, ossia una contrazione della tipologia lavorativa a tempo indeterminato e la corrispondente ripresa delle tipologie di contratti di lavoro comunemente definiti di natura precaria.
Da ciò è giusto porsi fin d’ora la domanda se sarà perseguita, almeno fino a quando la crisi economica in atto e la conseguente contrazione dei consumi, non vedrà finalmente il suo completo superamento, una scelta chiara di mantenimento degli incentivi all’occupazione, magari settoriali e più peculiari, facendo si che la stessa forza lavoro torni ad essere al centro dell’impresa, per quanto attiene in primo luogo la sua necessaria stabilità, anche per permettere all’imprenditore di ragionare su una possibile maggiore condivisione di traguardi, risultati, innovazione, specializzazione, con le risorse umane detenute facendo dell’investimento formativo permanente, un valore aggiunto per le nostre imprese e per il sistema Paese, nel suo insieme.
Tale scelta di fondo di privilegiare/agevolare contratti a tempo indeterminato si abbina alla più complessiva “riorganizzazione delle forme contrattuali” presenti. In vero le tipologie di co.co.pro. – collaborazioni coordinate a progetto - verranno a scomparire dal 2016, come anche la tipologia lavorativa della “associazione in partecipazione”.
Non trascurabile, però, è al contempo, la riflessione da doversi fare circa la questione attinente alla “trasformazione” di svariate centinaia di migliaia di rapporti lavorativi sorti con l’abito di collaborazioni coordinate e continuative (stimate dall’Istat in circa 1 milione di rapporti) che, alla luce delle nuove regole riconducibili al Jobs Act, e segnatamente agli incentivi previsti per “nuove assunzioni”, potranno concretizzarsi nel corso dell’anno 2015.
L’Inps, al riguardo, ha rilasciato dei dati che ci dicono che nel primo trimestre di quest’anno si sono registrati oltre i 2 milioni e ½ di nuovi occupati e una corrispondente “riduzione” nella misura del 15% del numero di collaborazioni censite, testimonianza della probabile progressiva trasformazione di contratti “probabilmente camuffati” in collaborazioni, in veri e propri rapporti di lavoro dipendente.
Il primo articolo del decreto emanato sulla disciplina organica dei rapporti di lavoro (ovvero tipologie contrattuali) ci dice che: “il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la forma *comune* di rapporti di lavoro”.
A seguire l’art.2 stabilisce che le finte collaborazioni dal 1° gennaio 2016 si trasformeranno, automaticamente, in contratti di lavoro subordinato. Ovviamente sono state escluse, da tale prospettiva, le collaborazioni effettivamente tali, salvaguardando le attività quali: professioni ordinistiche, amministratori, revisori, sindaci, nonché casi specifici contemplati nei contratti collettivi di lavoro. Eccezione è stata prevista proprio per le collaborazioni esercitate a vantaggio della PA che vengono ammesse dal Legislatore fino al termine del 2016.
Come sopra accennato viene abolita, in toto, la tipologia dei contratti a progetto, tipologia in gran parte usata per occultare il vero lavoro dipendente. Altresì, si rappresenta una notevole riduzione del perimetro per l’uso di specifiche forme di collaborazioni, contratti a tempo determinato, contratti part time, contratti di apprendistato, altro. Il tutto, come si è tentato di argomentare, per spingere verso nuove assunzioni in applicazione al contratto a tutele crescenti che però al suo interno esclude i limiti di licenziamento (obbligo di reintegra) così come conosciuti in vigenza dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Per quanto riguarda gli aspetti della riforma che hanno riguardato gli “ammortizzatori sociali” il dato saliente è certamente quello che riguarda la sua durata. Fino ad oggi tale strumento di “politica passiva” veniva usato anche al fine di sostenere economicamente i lavoratori per periodi molto lunghi, fino ad arrivare a 48 mesi complessivi, trattando di lavoratori appartenenti anche ad aziende solo formalmente attive ma diverse volte sostanzialmente “decotte”.
Con la riforma si è voluto imprimere un cambio reale, ma al tempo stesso culturale, vale a dire oltre alla riduzione del periodo massimo concedibile, limitato a 24 mesi, non continuativi in un quinquennio, estendibile a 36 mesi qualora le maestranze si accordino sull’utilizzo dello strumento dei cosiddetti “contratti di solidarietà”, si è pervenuti alla scelta di contemplare una nuova categoria di imprese beneficiarie dell’istituto “ammortizzatori” quelle di piccole e medie dimensioni – pmi – con un organico tra 6 e 15 dipendenti, fino ad oggi escluse, come anche l’inserimento degli studi professionali e delle categorie degli apprendisti, ciò alla luce di un contributo, a carico dell’azienda, pari all’aliquota del 0,45% della retribuzione fino ad una certa soglio e del 0,65% oltre questa soglia, nonché il contributo a carico dei lavoratori pari ad 1/3 di dette percentuali. Ciò a partire dall’anno 2016. Si è di fatto quindi estesa la platea dei beneficiari teorici di cassa integrazione, per quasi 1.500.000 di lavoratori, fino ad oggi esclusi da tale strumento di sostegno al reddito.
Altro elemento caratterizzante ed innovativo dei rinnovati ammortizzatori sociali, è la modalità ed entità del finanziamento della Cig, in quanto il decreto relativo prevede anche l’introduzione, rispetto ai contributi pagati dalle imprese, di un meccanismo che possiamo accostare al sistema in uso nell’ambito assicurativo e comunemente definito del bonus-malus, ovvero il caso in cui l’azienda utilizza maggiormente l’istituto pagherà con una aliquota maggiore, nel caso di minor uso o non uso è previsto uno sconto del 10% sulle aliquote di base.
Sempre percorrendo un’analisi, parzialissima, dell’intero impianto della riforma sul lavoro in atto, proviamo a tratteggiare le evidenze che maggiormente stanno innescando confronti, critiche, discussioni, circa le ricadute sul sistema complessivo.
Come prima accennato, le tipologie di lavoro che hanno preso spazio, sotto forma di collaborazioni, ovvero quelle relative al d.lgs. n.276/2003 attuative della delega di cui alla legge n.30/2003 (riforma Biagi) sono state sostanzialmente ridotte/sfoltite. Cessano quindi le collaborazioni a progetto ovvero senza progetto, le mini collaborazioni, ecc. rivedendo quindi, nella sostanza, l’esplicarsi dei rapporti parasubordinati “atipici” con l’idea di fondo di “smascherare” una pletora di contratti di collaborazioni che hanno, nella sostanza, tutti i “connotati della subordinazione” e per tale ragione potrebbero “confluire” in forme contrattuali di lavoro dipendente a tempo indeterminato, previa trasformazione, lasciando in piedi solamente i rapporti di collaborazione “realmente genuini”, ovvero quelle non inficiate da prestazioni lavorative esclusivamente personali, che si esplicano continuativamente e che vengono organizzate dal datore di lavoro/committente, discrezionalmente, con tempi, modalità e margini di effettuazione stabiliti, da chi fornisce lavoro.
In sostanza la norma di riforma non sembra consentire spazi e zone grigie talché rimarranno in piedi soltanto quei rapporti di collaborazione dove si palesino aspetti di “marcata e reale autonomia”.
Da tale contesto la norma in discussione “espunge” le collaborazioni sottoscritte per la Pubblica Amministrazione. A questo punto è anche opportuno evidenziare l’iniziativa del Ministero del Lavoro che, con una propria specifica Circolare, ha inteso, in tale ambito, allertare i propri uffici del territorio circa il fenomeno dell’attivazione di nuove assunzioni, con contratto di lavoro a tempo indeterminato, durante questo primo anno, allorquando, le stesse, beneficiano dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, per il primo triennio. Ebbene, nel sottolineare che tale fiscalizzazione è prevista per i lavoratori che nei sei mesi antecedenti non siano risultati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro, bene ha fatto il Ministero a porre questa tematica/criticità nella giusta evidenza, con la citata lettera circolare dello scorso 17/6/2015.
Il Dicastero in sostanza ha rilevato “comportamenti elusivi” volti alla “precostituzione artificiosa delle condizioni per poter godere del beneficio in questione”. Per tali comportamenti impropri/illeciti potrebbero intendersi anche rapporti di collaborazione che così, nei fatti, non possono qualificarsi, e che con la loro “trasformazione” andrebbero comunque a beneficiare delle agevolazioni contemplate dalla norma di recente vigenza.
Da qui una riflessione duplice in quanto se da un lato si potrà assistere ad un incremento della occupazione “buona e stabile” (anche se facilitata/dopata da agevolazioni triennali sul versante costo del lavoro), dall’altro lato ciò non consisterà, in sostanza, in assoluta “nuova occupazione” che potrà esprimersi sulla qualificazione puntuale dei rapporti di collaborazione, ossia confermare l’assenza o meno dei requisiti caratteristici del lavoro dipendente/subordinato.
Rimarranno, altresì, in piedi le collaborazioni frutto di accordi collettivi nazionali stipulati con i sindacati maggiormente rappresentativi in ragione di peculiari esigenze produttive/organizzative settoriali. Dal 1° gennaio 2016 è prevista la possibilità di salvaguardare precedenti rapporti di lavoro “impropri” con specifiche procedure che tuteleranno le aziende da azioni fiscali, contributive, amministrative.
Altro aspetto delicato, che è emerso prepotentemente nel dibattito aperto sulla qualità/pervasività dei singoli decreti attuativi del Jobs Act e che ha ingenerato grandi perplessità tra giuristi e tra gli addetti ai lavori, ha riguardato il decreto sulle diposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure. In particolare ci riferiamo al possibile “controllo a distanza” dei lavoratori e ai contorni poco chiari emersi dalla prima lettura del provvedimento inviato alle camere, per il previsto parere non vincolante, unitamente agli altri ultimi decreti attuativi della delega.
Ebbene, su tale vicenda i sindacati e parte degli esperti e giuslavoristi hanno aperto un fuoco di fila consapevoli della materia sdrucciolevole del controllo sui lavoratori, con impianti audiovisivi e altri strumenti, di cui all’art.4 dello Statuto dei lavoratori.
Il timore, lecito, è quello di aprire varchi ad usi impropri delle strumentazioni più moderne, assegnate dalle imprese, ai propri addetti, quale dotazione tecnologica, al fine dello svolgimento delle relative mansioni lavorative. La problematica impatta, in tema di Privacy, ma principalmente sulla sostanziale modifica del divieto sancito dalla legge 300/1970, comunemente denominata Statuto dei lavoratori, per quanto attiene il “necessario accordo” con le OO.SS. per poter procedere con controlli sulla produttività, con il solo mantenimento delle situazioni in violazione, appunto, della Privacy del lavoratore, o che possono ledere la sua dignità.
Nel decreto in questione, applicativo del Jobs Act, parrebbe invece che, tali limiti, vengano circoscritti al solo avviso da dare alle maestranze dei possibili controlli e della politica adottata delle aziende, tramite “apposita comunicazione”. Proprio in corrispondenza di tali aspre polemiche prodotte dalle rappresentanze sindacali, e non solo, il Ministero del Lavoro si è sentito, pertanto, in dovere di far conoscere la propria posizione ufficiale e aggiungerei l’interpretazione autentica, sul provvedimento governativo in questione.
In primis si è voluto affermare che la norma dibattuta, contenuta nello schema di decreto legislativo in tema di semplificazione, “adegua” (e sottolineo questa parola) il contenuto dell’art.4 dello Statuto dei lavoratori risalente al 1970, alle “innovazioni tecnologiche” nel tempo intervenute. La norma, secondo il Dicastero, “non liberalizza” i controlli, ma chiarisce il concetto di strumenti di controllo a distanza e i limiti nell’utilizzo sempre, però, in aderenza con le indicazioni fornite, nel recente passato, dal Garante della Privacy e specificamente con le linee guida del 2007 per l’utilizzo, da parte dei lavoratori, in particolare di mail/posta elettronica ed internet.
Si è anche precisato, nell’intervento chiarificatore del Ministero, che la nuova disposizione, considerata, dallo stesso, in linea con la norma originaria dello Statuto, prevede che gli strumenti di controllo a distanza possono essere installati: a) esclusivamente per esigenze organizzative e produttive per la sicurezza del lavoro e per tutelare il patrimonio aziendale; b) esclusivamente previo “accordo sindacale” ovvero in assenza tramite autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o del Ministero stesso. Ancora, non possono essere considerati “strumenti di controllo a distanza” gli strumenti che oggi vengono normalmente assegnati ai lavoratori (quale moderni attrezzi di lavoro) “per rendere la prestazione lavorativa” come pc, tablet, smart phone/cellulari, palmari, ecc.
Il Ministero afferma, al riguardo, che proprio in quanto tali strumenti non si identificherebbero quali atti al controllo a distanza, la loro assegnazione/affidamento non è assoggettabile ad accordo o autorizzazione fino a quando, tale supporto tecnologico, non viene modificato/integrato da particolari software di localizzazione o filtraggio.
A questo punto preme, però, evidenziare che proprio le nuove tecnologie ed apparecchiature hanno di “default” automatici sistemi di geolocalizzazione, agganci spontanei per wi-fi, interconnessioni gestite digitalmente, in remoto, da server centrali, programmi antivirus, filtri di sistema centralizzati, interconnessioni tra supporti digitali, ecc. in una parola, automatismi di controllo tecnologico, precostituito/installato dalle aziende produttrici delle apparecchiature, di nuova generazione. Viene con se, quindi, “nutrire perplessità” su attività, involontarie, di controllo sui lavoratori, ancorché, essi stessi, essere oggetto di adeguate “formazioni/informazioni” sull’uso corretto e conoscenze approfondite delle caratteristiche detenute dalle dotazioni tecnologiche assegnate, tali da garantire, costantemente, i giusti limiti per la garanzia della Privacy personale e il rispetto del relativo codice.
Un ambito fondamentale del decreto contemplato nella disciplina organica dei contratti di lavoro è rappresentato dal tema “mansioni” e specificamente l’aspetto più dirimente e divisivo ossia la previsione del cosiddetto “demansionamento”.
La norma in questione, certamente di portata generale, quale “jus variandi”, vedrà esplicarsi, nei confronti della generalità dei lavoratori subordinati, siano essi vecchi contrattualizzati che nuovi contrattualizzati.
Un ulteriore problema aperto è rappresentato dalla applicabilità o meno della norma non solo al settore privato, ma eventualmente anche al settore pubblico, sarà comunque una vicenda, questa, che dovrà trovare delle risposte quanto prima.
L’esatta allocuzione della norma è la seguente: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello inferiore”. È proprio la definizione di “modifica assetti organizzativi” a far elevare il dibattito circa l’evidente discrezionalità unilaterale, in capo al solo imprenditore, della scelta in materia di organizzazione del lavoro e dei suoi specifici cicli produttivi, da adottare quando soprattutto le nuove metodiche di ingegneria gestionale, applicate alle aziende più innovative e all’avanguardia, nel panorama dei Paesi maggiormente industrializzati, ci conducono, sempre più spesso, invece, in una concezione di “condivisione” delle scelte manageriali gestionali, convissute con le proprie maestranze, in quanto investite rispetto al raggiungimento di ambiziosi traguardi economici, produttivi e di sviluppo/crescita complessiva dell’impresa.
Il decreto in parola, di contro, va verso il più semplice “declassamento dei lavoratori” rispetto al caso inverso di naturale classamento superiore del lavoratore (durante il naturale percorso di vita lavorativa) con il passaggio a mansioni superiori, quasi a voler rendere più facile la discesa professionale rispetto alla crescita.
Sempre il decreto tratta della possibilità di “stipula di accordi individuali” per andare a modificare le mansioni assegnate, inquadramento e ovviamente trattamenti retributivi corrispondenti. Anche questo aspetto evidenzia una “primazia” di fatto, del datore di lavoro rispetto al lavoratore che pone lo stesso in un rapporto di debolezza nel momento in cui la mancata accettazione di nuove ed inferiori mansioni potrebbero aprire le porte ad un possibile “licenziamento” che, con le nuove norme introdotte con il Jobs Act, potrebbe rappresentare un concreto rischio mitigato, esclusivamente, da indennizzi monetari non certamente eclatanti.
Facciamo a questo punto un escursus/riflessione sul decreto concernente il riordino della normativa in materia dei “servizi per il lavoro e le politiche attive”. Questo decreto ci conduce ad una sorta di rivalutazione per gli attuali servizi per l’impiego (svolti allo stato dai 556 centri per l’impiego pubblici) nel momento in cui si va verso la costituzione dell’ANPAL – Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro.
Fino ad oggi, in Italia, i servizi all’impiego sono risultati “sbilanciati” verso politiche passive del lavoro (pensiamo ad esempio al riconoscimento e funzionamento dei sussidi di disoccupazione) piuttosto che cimentarsi in ambiti di politiche attive/propositive e di supporto al lavoro/ai lavoratori.
Il nuovo decreto, oggetto dell’esame preliminare e approvato da parte del Governo, ha come aspetto qualificante ed innovativo, a parere di chi scrive, quello di modificare radicalmente ottica e strategia, per quanto riguarda sostegno/supporto alla ricerca di lavoro, da parte di chi lo perde e/o lo vuole. Infatti, l’innovazione radicale, introdotta, consiste nel concedere i pertinenti “sussidi di disoccupazione” solamente nel caso in cui il neo disoccupato si rende disponibile a svolgere iniziative, proposte, di formazione/riqualificazione/aggiornamento professionale, necessarie per una sua prossima ricollocazione.
Altresì, il lavoratore stesso, nel momento in cui non accetta rifiutando, per più di un svolta, immotivatamente, una offerta congrua di lavoro, perde il sussidio di disoccupazione, ad esso riconosciuto, che viene quindi revocato.
Da qui l’evidente cambio di rotta a 180° dove i beneficiari, del sostegno al reddito, svolgono attività proattiva per la loro ricollocazione.
Innovativa è anche la messa a regime, da parte della nascente Agenzia ANPAL, di un sistema informativo delle politiche del lavoro, nonché, del cosiddetto “fascicolo elettronico” del lavoratore, al fine di meglio gestire il mercato del lavoro e il monitoraggio delle prestazioni pubbliche erogate.
Ovviamente tutte le comunicazioni di assunzioni, cessazioni, trasformazioni dei rapporti di lavoro, dovranno avvenire, esclusivamente, per via telematica (come per il vero questo già avviene con il supporto del portale del Ministero del Lavoro - Cliclavoro).
Innovativo è anche il fatto che tutti i disoccupati, in base al decreto, saranno convocati per sottoscrivere un “patto di servizio personalizzato” per il quale si dichiara, formalmente, la disponibilità alla partecipazione a svolgere corsi di formazione e/o accettare “congrue” offerte di lavoro.
Torniamo quindi ad esaminare la “condizionalità” dell’offerta definibile congrua, per tale deve intendersi quella la cui retribuzione supera del 20% l’indennità di disoccupazione percepita. A regime, anche per le tipologie di ammortizzatori sociali che si suddividono come noto nelle nuove Aspi, Naspi e DisColl, ebbene, con la loro erogazione, ovvero con la domanda di concessione, si considera l’equivalenza alla “dichiarazione di immediata disponibilità del lavoratore” come sopra citata.
La sottoscrizione del “patto di servizio” è necessaria, come detto, per ottenere l’Asdi – il nuovo assegno di disoccupazione. Il non partecipare. Quindi, senza giustificato motivo, da parte dei beneficiari, alle iniziative finalizzate al reinserimento nel mondo del lavoro, saranno soggetti a sanzioni quali: decurtazione, sospensione, o decadenza dalle prestazioni.
Accenniamo, a questo punto, circa l’introduzione di uno strumento profondamente innovativo e fondamentale, per il nostro Paese (ma non per altre nazioni UE), quale è lo “assegno di ricollocazione” pensato a favore di chi è disoccupato da più di sei mesi, definibile una sorta di voucher, da poter spendere presso i centri per l’impiego pubblici o anche presso i centri accreditati per lo svolgimento di politiche attive e intermediazione lavorativa. Questa “dote” dovrebbe servire, secondo gli intendimenti del legislatore, per far si che ogni soggetto, cercatore di lavoro, possa, una volta “preso in carico” da una struttura pubblica o privata, di intermediazione lavorativa, ed effettivamente collocato utilmente, nel mercato del lavoro, destinare il suo bonus nominativo a beneficio delle strutture che hanno proficuamente adempiuto alla propria missione, di collocazione/ricollocazione al lavoro.
Per concludere questo mio contributo ritengo opportuno sottolineare che, con questi scritti, non si è inteso dotare connotati di esaustività all’intero ambito della innovata materia lavoristica, per quanto riguarda l’esame complessivo della decretazione, susseguente alla riforma complessiva tratteggiata dalla legge n.183/2014 e comunemente denominata Jobs Act, ma bensì addentrarsi in una iniziale/parziale disamina, per alcuni aspetti, dei singoli decreti attuativi della legge quadro, che hanno prodotto e ancora producono criticità, discussioni, interessi dottrinali e accademici, in una materia a fortissimo impatto sociale quale è il “lavoro”, nelle sue più recenti evoluzioni.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direttore della DTL di Prato. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
Seguiteci su Facebook
>