Un nuovo umanesimo nel lavoro

La tecnologia al servizio dei lavoratori
di Stefano Olivieri Pennesi [*]

Olivieri Pennesi 4“Nuovi orizzonti del lavoro in un avvenire, prossimo venturo, tra nuove tecnologie e nuovo umanesimo”
“Tecnologia, macchine, robotica, digitale, big data, social network information tecnology. L’essere uomo nella giungla della modernità”

Il lavoro e il futuro debbono poter rappresentare, simbioticamente, le gambe su cui le nostre giovani generazioni possano poter contare e sostanzialmente sorreggersi.

Negli attuali contesti, socio-economici, osserviamo il dipanarsi della seconda, terza o anche quarta “rivoluzione industriale”, a secondo delle declinazioni immaginate e attribuite, dalle diverse scuole di pensiero e da studiosi della fenomenologia sociale.

Ma un aspetto è di “comune asserzione” ossia che, con l’evoluzione della robotica, la socializzazione delle trasformazioni digitali, la capillarizzazione dei sistemi comunicativi, ma anche economici, trainati dalla permeazione dei social network, vale a dire la più comunemente definita informatizzazione dei sistemi, il “mondo del lavoro” e aggiungo anche delle società contemporanee, sta subendo un vero e proprio cataclisma.


Più specificamente i “processi produttivi” debbono fare necessariamente i conti con la sempre più stretta connessione tra le componenti endogene ed estrogene che, coesistono, negli stessi processi.

In particolare, assistiamo alle varie “intersecazioni” tra coloro che lavorano e i destinatari delle produzioni lavorative, entità che sono, a loro volta, oggetto di intermediazione ed interposizione.

Aggiungiamo, a questo, anche il fatto che, sempre più ineluttabilmente, con la diffusione di “piattaforme virtuali” sovente per svolgere “attività lavorative” non sempre si rendono necessari luoghi fisici per la loro realizzazione.

In sostanza, il tempo/luogo/spazio lavorativo sta subendo profonde trasformazioni/riconsiderazioni. Il lavoro è, nei fatti, divenuto sempre più “agile” non soltanto per la cosiddetta “new economy”, ma anche per la “old economy”, quale basata sui desueti stabilimenti produttivi, con orari di lavoro e sedi/ubicazioni, rigide e definite.

Oggi assistiamo sempre più al lavoro definibile di tipo “on demand”, vale a dire su richiesta, cioè produrre se e quando il mercato lo richiede, ma anche per quanto tempo e per quale intensità si è disposti a svolgerlo.

Da questo ne consegue, inoltre, che la fatica necessaria, come anche l’impegno della singola intelligenza, vengano a modellarsi ed espletarsi in maniera assolutamente differenziata e personale.

Quindi, eccoci catapultati, altresì, nella “fenomenologia dei mestieri” per così dire “smart” con una attenzione crescentemente maggiore (e questo ritengo è un aspetto tutto sommato positivo) alla conciliazione tra vita e lavoro, dove il rischio è però lo sbilanciamento verso ipotesi di lavorare “sempre” (in modalità pressoché continuativa) ricorrendo, però, quale ossimoro, a prestazioni di lavoro sostanzialmente “discontinue”.

In tale contesto, questi profondi cambiamenti, che stanno orientando il lavoro nel terzo millennio, ci proiettano nel bisogno assoluto di due componenti, vale a dire la personale capacità di cambiare/adattarsi, e la attitudine ad apprendere “permanentemente” e continuamente, al fine di risultare sempre “spendibili” in un mercato del lavoro in continua trasformazione ed evoluzione. Evolversi nelle proprie competenze/conoscenze diventerà, quindi, un imperativo per tutti, prestatori e datori di lavoro.

Big data e dintorni

Questo termine, troppo spesso, viene usato in maniera inconsapevole senza definirne i contorni/connotati primari e il vero significato, anche per quello che attiene alla nostra vita di tutti i giorni.

Purtroppo, la stessa sua definizione/traduzione letterale non aiuta, ossia “grandi dati”, in quanto, tale termine, ci porta, naturalmente, a pensare solamente ad una mole enorme di dati, oggi a disposizione, nei più variegati settori, tutti costantemente al servizio per lo scopo di “realizzare affari”.

Ciò detto rappresenta solamente una faccia della medaglia dei Big Data, l’altra, è bene dirlo, è consistente nella effettiva disponibilità, ma anche condivisione, di dati, e quindi di conoscenze.

Oggi certamente deteniamo e generiamo, nelle nostre società, una mole enorme di dati provenienti da una miriade di fonti: dalle carte di credito, agli smartphone, dalle applicazioni per computer, tablet, palmari, alle infrastrutture intelligenti e dialoganti delle metropoli (telecamere, sensori di traffico, ambientali, climatici, fibre ottiche, satelliti, droni, ecc.)

Dalla quantità, esponenzialmente crescente, di dati, per cui impropriamente si identificano i cosiddetti Big Data, è necessario fare un ulteriore passo evolutivo e descrittivo, vale a dire, la capacità di gestire e governare una miriade di informazioni per elaborare ed analizzare eventi, tendenze, bisogni, nei più disparati campi.

Per fare questo è necessario che tutta questa quantità di elementi venga trasformata in “algoritmi”, in grado di elaborare, quindi, una vastità di variabili materiali e immateriali, ma riconducibili ad atteggiamenti comportamentali delle persone.

È questo, cioè, il recondito significato del Big Data, ossia la capacità di “collegare, fra loro, informazioni e dati, per fornire modalità di interrelazione anche e soprattutto dei fenomeni economici.

Gli algoritmi, desunti dalla strutturazione, interpolazione dei dati, rendono utilizzabili, ai fini delle implicazioni in ambito marketing e non solo, quei dati da analizzare e quindi usare proficuamente e aggiungo legalmente.

Tutto ciò può condurci ad una evidente rivoluzione del Big Data, che inferisce nella vita delle singole persone, ma anche delle comunità conseguenti. Concretamente, pensiamo a quanto sta facendo, ad esempio, il colosso delle vendite “Amazon”, che propone acquisti sulla scorta di evidenti e reali interessi dei clienti, desunti, in buona parte, dalla conoscenza, parcellizzata, ricavata dalla navigazione individuale su internet; come anche dalla tipologia e frequenza di acquisti che si fanno con carte di credito. Ma altro ancora, il fatto di rendersi conoscibile, insito dei Big Data e di essere anche oggetto, effettivo, di condivisione delle informazioni, seppur con una coesistente impalpabile resistenza offerta dai centri di ricerca, scienziati, università, ecc. ad accedere a propri dati.

Il traguardo deve essere quindi, per un maggior uso e diffusione dei Big data, migliorare la raccolta, la classificazione, l’analisi e sintesi dei dati, di ogni determinato settore, oltre e al di la dei semplici dati grezzi.

Pennesi 14 1Parlando ancora di big data

L’enorme mole di informazioni oggi disponibile, anche grazie alla “rete” e più precisamente la loro concreta “interpretazione” in tempo reale, si definisce appunto Big data.

Svariati economisti stanno studiando, attentamente, il fenomeno, le sue concrete ricadute sul “mercato mondiale”, come anche, al contempo, le ricadute sul cosiddetto “mercato glocale”.

È possibile analizzare e interpretare tipi di domande/ricerche e la loro frequenza, che si effettuano sui principali “motori di ricerca” per fare proiezioni e previsioni sugli indirizzi dei bisogni e quindi dei beni per soddisfarli. Da qui è immaginabile proiettare nelle analisi il lavoro necessario per dotare il mercato di beni sufficienti e variegati per il suo pieno soddisfacimento. Per queste ragioni i maggiori vettori di informazioni, oggi presenti, quali: Google, Facebook, Twitter, Likedin, Amazon, rappresentano dei veri e propri “giacimenti” di inestimabile valore per gli Stati, le multinazionali, l’alta finanza, i gruppi politici, le istituzioni culturali, ecc.

In una parola passare al setaccio flussi di informazione che transitano per le reti, create dalla attuale tecnologia, ci permette di proiettare l’umanità nel terzo millennio con la naturale incognita, però, della sottoposizione consapevole, ma anche inconsapevole, all’azione di un “Grande Fratello”.

Molto della nostra economia e della nostra politica si basa sulla interpretazione e lettura della realtà in cui viviamo. Esistono al riguardo svariati indicatori: stime della fiducia dei consumatori, propensione agli acquisti, i tassi di disoccupazione e sottoccupazione, i livelli inflazionistici, gli ordinativi e fatturati dell’industria, la bilancia dei pagamenti, ecc.

Tutte queste informazioni, in passato, per venire compiutamente elaborate, richiedevano periodi consistenti. Oggi, di contro, l’uso massivo della rete e di internet, abbattono radicalmente i tempi della diffusione di conoscenze, come anche quelle fornite dall’uso stesso che facciamo degli smartphone, delle carte di credito, dei palmari, ecc.

Questa massa di dati, nella loro continua “rilevazione ed interpretazione”, vanno a vivificare l’esistenza, appunto, dei Big Data. È sulla base di questo sapere che la società, ora, e maggiormente nel futuro prossimo, deciderà le proprie strategie economiche e commerciali.

In una parola assisteremo, passivamente, allo studio sempre più capillare delle nostre azioni, delle nostre tendenze, oggi, quale momento d’inizio della cosiddetta “era digitale”.

Ecco quindi che il nostro futuro verrà identificato, come sorretto, da una “Economia delle conoscenze” basata, in misura dominante, sulle informazioni e soltanto in via succedanea, sui capitali finanziari e sul lavoro fisico, umano.

Pennesi 14 2Robottiamoci…
Nuovo inizio o fine del lavoro?

Competitività, innovazione, sviluppo, evoluzione economica, inducono il mercato e quindi le imprese e lavoratori, che ne sono i principali interpreti, unitamente ai capitali impiegati e ai loro detentori, ad una trasformazione orientata verso nuove strade e strategie tese a ridurre, da una parte, i costi complessivi, da l’altra parte, i quantitativi di lavoro necessari alla produzione.

Il tutto ruoterà anche e sostanzialmente su un uso massivo delle macchine (robot), in senso ampio del termine, ciò deve però significare anche la capacità di agire con interventi di riequilibrio, per evitare possibili impatti distruttivi sul mondo del lavoro, come lo conosciamo attualmente.

Risulta facilmente prevedibile, nei prossimi decenni, il passaggio esteso e globale da lavoro umano a lavoro meccanizzato, principalmente nei settori dell’industria manifatturiera ed agricola, ma non solo. Con l’automazione deve intendersi l’uso dei sistemi di controllo e tecnologie dell’informazione, che vanno però ad impattare in una conseguente riduzione delle necessità di “lavoro umano”, tesa alla produzione di beni e servizi, causando, inevitabilmente, perdita di posti di lavoro.

Ciò anche alla luce di non illimitate espansioni/evoluzioni di mercato, per incrementare beni disponibili per crescenti categorie di popolazioni mondiali, in sostanza, non si potrà confidare in una crescita globale senza soluzioni di continuità.

Allo stato i sistemi robotizzati e gli andamenti tecnologici presenti, ci offrono una realtà che ci dice che qualsiasi sistema, in grado di sostituire l’uomo, detterà nuovi tempi ed esigenze per lo svolgimento delle vite quotidiane degli esseri umani, ne diventeranno, anzi, una componente imprescindibile.

Già oggi si stanno sperimentando Robot che esprimono emozioni umane e capacità di ragionamento complesse. Anche la ricerca e realizzazione di sembianze umanoidi, di questi robot-androidi, vanno in questa direzione.

Diventano sempre più efficienti e precisi nelle azioni, nel mantenere equilibrio in terreni sconnessi, Robot applicati alla manifattura, ricerca, industria, ecc. Lo stesso ambito delle biotecnologie ha fatto e farà passi da gigante, con la comparsa ed applicazione di elementi robotizzati che possono sostituire parti del corpo umano, offrendo nuove chances ad esempio alle persone diversamente abili, o anche in età avanzata con difficoltà articolari e/o di deambulazione.

È bene quindi porsi domande su cosa sarà nel futuro il “lavoro umano”. Se e come si innesterà una competizione, nei fatti, tra macchine e uomini, comunque sarà le società moderne avranno necessità di ridefinire il mercato del lavoro. Osservando, allo stato, le tipologie di lavoro presenti, si nota come per alcune fattispecie, rispetto al passato, il loro contenuto è rimasto sostanzialmente intatto. Ci riferiamo ai settori della ristorazione, del commercio, della cultura, del turismo e svago, della cura alla persona, ecc. ossia quelle attività dove “l’uso sensoriale” quale: il vedere, sentire, comprendere, esprimere, ha un ruolo fondamentale nell’esplicarsi dell’attività.

Altri settori, quali: la manifattura, le costruzioni, l’agricoltura, hanno visto fortemente trasformata la presenza dell’uomo e la sua utilizzazione lavorativa, rispetto alle nuove applicazioni della Robotica e della automazione, riducendone al contempo le necessità numeriche dei lavoratori in carne e ossa.

Secondo una recente ricerca “The future of Employment”, di studiosi di Oxford - Osborne e Frey - nel prossimo ventennio circa il 47% dei posti di lavoro attuali potranno veder la sostituzione dell’uomo con le macchine.

Pensiamo, ad esempio, allo svilupparsi dell’e-commerce, alle piattaforme multimediali, alle piazze virtuali, dove poter comprare, autonomamente, senza il bisogno di avvalersi di negozi uffici, presidiati da persone umane.

E proprio queste figure classiche, ad esempio di lavoratori del commercio e logistica, quali: commessi, addetti alle vendite, magazzinieri, cassieri, ecc. che risulteranno sempre più a rischio estinzione.

Andando a ritroso, nella storia moderna, la contrapposizione dell’uomo alle “macchine” è stato un accadimento già verificatosi, anche se con connotati nettamente diversi, come anche presupposti economici diversi.

Agli inizi del 1800, infatti, in Inghilterra, patria della prima industrializzazione, dell’epoca moderna, prese corpo e forma un movimento operaio denominato “Luddismo” che aveva, tra i suoi scopi, l’obiettivo di sabotare l’introduzione delle macchine, che si stavano espandendo nelle produzioni industriali e specificamente nel settore tessile, cosa questa ritenuta direttamente responsabile quale causa, di crescente disoccupazione, ma anche di contrazione di salari corrisposti.

Il tutto, però, all’epoca, connesso con una oggettiva crisi economica, in essere, subita dalla Gran Bretagna, in stretta correlazione con le guerre Napoleoniche ed in particolare dai blocchi commerciali del continente europeo, come anche motivata dalla scarsità, per il territorio britannico, dei raccolti agricoli riscontrati agli inizi dell’800.

Ebbene, possiamo affermare con margini di accettabile approssimazione, che l’introduzione di tecnologie, sempre più sofisticate, nel futuro, condurrà certamente, anche alla creazione di nuove e/o diverse professioni, come per altro evidentemente riscontrabile dall’uso globale che si sta facendo di “internet”.

Forse la rivisitazione di numerosi processi produttivi tradizionali rappresenta il presupposto, necessario, per la formazione di nuovi ambienti/contesti, che porta alla immaginazione di nuovi percorsi professionali.

Avremo quindi anche una nuova organizzazione sociale del lavoro, in un perimetro economico di “precarietà più intensa” con frequenti stati di disoccupazione (che non significherà comunque inattività sociale).

I nostri giovani corrono già oggi il rischio, per quanto detto, dell’inadeguatezza della loro formazione scolastica e universitaria, dovremo ripensare, probabilmente, i programmi soprattutto quelli universitari, vigenti.

Essere pronti ad offrire competenze, indispensabili, per interagire, efficacemente, con le infrastrutture tecnologiche presenti e future. Saper immaginare, pertanto, prospettive professionali maggiormente indipendenti dall’uso totalizzante delle meccanizzazioni, per migliorare le nostre economie.

Pennesi 14 4Pensare a un nuovo
umanesimo del lavoro

Prendendo spunto dalle recenti parole pronunciate dal Santo Padre, in occasione degli incontri tenutisi a Gennaio 2016 con il Movimento Cristiano Lavoratori e a Febbraio con gli imprenditori della Confindustria, tentiamo di indagare il significato che è possibile attribuire al cosiddetto “umanesimo del lavoro”.

Partiamo da una affermazione che ritengo inconfutabile e cioè che l’uomo è naturalmente “vocato” al lavoro, o per meglio dire questa attività umana, che si traduce nello svolgimento di un lavoro che sia anche libero, nella sua scelta, come anche creativo, partecipativo, e aggiungiamo frequentemente solidale, pone il soggetto uomo ad esprimere con esso, accrescendola, la dignità della propria vita.

Papa Francesco sottolinea che oggi, forse più che nel passato, viviamo un tempo di “sfruttamento latente” dei lavoratori. Il lavoro non appare essere anche al servizio della dignità della persona; ci circondiamo di una sorta di consapevole “lavoro schiavo” in quanto l’Economia si serve egoisticamente dei contributi fondamentali dell’uomo e non l’inverso. Si dovrebbe avere al centro degli “interessi primari” della società, l’uomo e non il profitto, formando ed educando le nuove, ma anche le vecchie generazioni, ad un rinnovato umanesimo del lavoro.

Bisogna poter credere che il lavoro, l’azione quotidiana, l’impegno di se stessi, abbiano un valore tangibile. È giusto percorrere le strade dell’onestà, non avvalendosi di favoritismi e raccomandazioni, rifuggendo dalla evidente convenzione delle “compravendite morali”. Il rischio che corriamo, ogni giorno, afferma Papa Francesco, è quello di assistere e partecipare, colpevolmente, ad un sistema di “illegalità diffusa” che conduce alla sostanziale corruzione della persona e della società. Per questo bisogna aiutare, in particolare, le giovani generazioni a scoprire o ricoprire la “bellezza del lavoro” veramente umano.

Sempre il Pontefice parlando all’udienza generale con il MCL ribadisce che il lavoro non rappresenta soltanto la vocazione naturale delle singole persone, ma consiste anche nella opportunità di “entrare in relazione con gli altri”. Il lavoro stesso presuppone l’idea di relazione con il contesto umano, possibilmente unire le persone, proprio in quanto vengono impegnate molte ore delle nostre giornate, condividendo il quotidiano, anche ovviamente interessandosi per questo agli altri sodali del lavoro.

Tornando al bisogno del lavoro oggi si assiste ad una crescente “fame “ di lavoro, in molte parti del mondo questo infatti scarseggia. Le persone che vorrebbero lavorare non ci riescono, hanno anche difficoltà per guadagnarsi il cibo, parliamo in questo caso dei “nuovi esclusi del nostro tempo”.

La stessa ricca Europa rileva, in diversi suoi Stati, percentuali di disoccupati giovani, nell’ordine del 40-50% e la negatività sta anche nel fatto che queste categorie di persone non occupate incorrono, con maggiore frequenza, ad emarginazioni, malattie psicologiche, depressioni, suicidi, delinquenza, droga, ecc. tutti aspetti legati anche alla contestuale “perdita di dignità”.

È innegabile, quindi, che la disoccupazione genera inevitabilmente frustrazione ed angoscia, spingendo le persone verso la emarginazione sociale, le nostre comunità tendono ad espungere chi non ha un lavoro emarginando. È necessario però agire diversamente considerando il valore umano e il portato dei singoli soggetti, valorizzando le loro esperienze passate, promuovere quindi la cultura della solidarietà e dell’incontro.

Serve l’allontanamento dalla dominante ideologia capitalistica rigida, a vantaggio di crescenti attenzioni alle aspirazioni umane e ai più alti ideali di convivenza solidale. Una maggiore attenzione rivolta di conseguenza ai “nuovi poveri” coloro cioè che hanno perso un lavoro o non lo trovano, ma anche chi, pur avendone uno, è mal retribuito, o peggio gravemente sfruttato.

Rammentando le parole, illuminate, del Santo Padre, emerge la visione umanizzata della nostra società. In particolare destano rispetto le considerazioni circa:

“… il voler riflettere insieme, agli imprenditori di Confindustria, sull’etica del fare impresa… rafforzando l’attenzione ai valori ossia la ‘spina dorsale’ dei progetti di formazione, di valorizzazione del territorio e per la promozione delle relazioni sociali… che permettono una concreta alternativa al modello consumistico del profitto a tutti i costi…”.

Il concetto fondamentale di impresa e lavoro, anche per il futuro prossimo è: “fare insieme” cioè:

“collaborare e condividere preparando la strada a rapporti regolati da un comune senso di responsabilità. Questa via apre il campo a nuove strategie, nuovi stili, nuovi atteggiamenti. Come sarebbe diversa la nostra vita se imparassimo davvero, giorno per giorno, a lavorare, a pensare, a costruire insieme!”

E ancora dalle parole del Papa:

“Nel complesso mondo dell’impresa ’agire insieme’ significa investire in progetti che sappiano coinvolgere soggetti spesso dimenticati o trascurati. Tra questi anzitutto le famiglie, focolari di umanità, in cui l’esperienza del lavoro, il sacrificio che lo alimenta e i frutti che ne derivano, trovano senso e valore. E insieme con le famiglie, non possiamo dimenticare le categorie più deboli e marginalizzate, come gli anziani, che potrebbero ancora esprimere risorse ed energie per una collaborazione attiva. Eppure vengono troppo spesso scartati come inutili e improduttivi. E che dire poi di tutti quei potenziali lavoratori, specialmente dei giovani, che, prigionieri della precarietà o di lunghi periodi di disoccupazione, non vengono interpellati da una richiesta di lavoro che da loro, oltre ad un onesto salario, anche quella dignità di cui a volte si sentono privati?”

Pennesi 14 3“Tutte queste forze, insieme, possono fare la differenza per un’impresa che mette al centro la persona, la qualità delle sue relazioni, la varietà del suo impegno a costruire un mondo più giusto, un mondo davvero per tutti. ‘Fare insieme’ vuol dire, infatti, impostare il lavoro non sul suo genio solitario di un individuo, ma sulla collaborazione di molti. Significa in altri termini ‘fare rete’ per valorizzare i doni di tutti, senza però trascurare l’unicità irripetibile di ciascuno. Al centro di ogni impresa vi è dunque l’uomo; non quello astratto, ideale, teorico, ma quello concreto, con i suoi sogni, le sue necessità, le sue speranze, le sue fatiche. Questa attenzione alla persona concreta, comporta una serie di scelte importanti: significa dare a ciascuno il suo, strappando madri e padri di famiglia dall’angoscia di non poter dare un futuro e nemmeno un presente, ai propri figli, significa saper dirigere, ma anche saper ascoltare, condividendo con umiltà e fiducia progetti e idee, significa fare in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabilità crei altra responsabilità, la speranza crei altra speranza, soprattutto per le giovani generazioni, che oggi ne hanno più che mai bisogno”.

Il Papa rivolto agli imprenditori confidustriali ancora illuminatamente dice:

”Cari amici voi avete una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti; siete perciò chiamati ad essere costruttori del bene comune e artefici di un nuovo ‘umanesimo del lavoro’. Siete chiamati a tutelare la professionalità e al tempo stesso a prestare attenzione alle condizioni in cui il lavoro si attua, perché non abbiano a verificarsi incidenti e situazioni di disagio. La vostra via maestra sia sempre la giustizia, che rifiuta le scorciatoie delle raccomandazioni e dei favoritismi e le deviazioni pericolose della disonestà e dei facili compromessi. Sia questo orizzonte di altruismo a contraddistinguere il vostro impegno: esso vi porterà a rifiutare categoricamente che la dignità della persona venga calpestata in nome di esigenze produttive, che mascherano miopie individualistiche, tristi egoismi e sete di guadagno. L’impresa che voi rappresentate sia invece sempre aperta a quel significato più ampio della vita’ che le permetterà di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo. Proprio il bene comune sia la bussola che orienta l’attività produttiva, perché cresca ‘un’economia di tutti e per tutti’ che non sia ‘insensibile allo sguardo dei bisognosi’. Essa è davvero possibile, a patto che la semplice proclamazione della libertà economica, non prevalga sulla concreta libertà dell’uomo e sui suoi diritti; che il mercato non sia un assoluto, ma onori la esigenza della giustizia e in ultima analisi, della dignità della persona, perché non c’è libertà senza giustizia e non c’è giustizia senza il rispetto della dignità di ciascuno”.

Queste lunghe citazioni, dei recenti interventi di Papa Francesco, sui temi del lavoro, non richiedono, evidentemente, ulteriori interpretazioni. Esse sono assolutamente inequivocabili. Un’unica affermazione, reputo pertinente, in conclusione, e cioè dotare di un cosiddetto “nuovo umanesimo” il mondo del lavoro, presente e futuro, ci permetterà di affrontare meglio e più consapevolmente le sfide della modernizzazione con un impegno reale nel governare gli eventi, le macchine, le loro attività, in un contesto di persistente bisogno dell’azione umana, “libera” e “creativa”. A questo punto mi piacerebbe concludere questo mio redazionale apportando, sommessamente, la seguente locuzione: forse una macchina non potrà mai sostituire e sostituirsi, all’uomo per quanto attiene agli aspetti creativi dell’intelligenza e alla capacità quindi dell’essere umano di inventare soluzioni, sempre nuove, ai problemi scaturenti dal contesto esterno. Quadrato Verde

[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direttore della DTL di Prato. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

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