Gioventù senza lavoro, Paese senza futuro
di Fabrizio Di Lalla
Una società che non si cura dei giovani o che non è in grado di creare le condizioni per il loro avvio a un lavoro con le dovute protezioni sociali e normative é una società senza futuro. Questa triste similitudine, purtroppo, può ben sintetizzare lo stato di salute del nostro Paese, dove, nell’ambito di una disoccupazione senza precedenti sviluppatasi nell’ultimo lustro, quella giovanile, di un’entità più del doppio della media della UE, ha assunto un aspetto drammatico con ripercussioni negative sul rapporto individuo collettività. Le aspettative continuamente deluse, infatti, stanno creando nelle nuove generazioni un tasso di ostilità e un senso di sfiducia verso le istituzioni che dovrebbero destare viva preoccupazione alle nostre classi dirigenti.
Parafrasando un diffuso motto popolare del passato, i giovani possono toccare con mano che oggi il mondo e il futuro non è più il loro, almeno da noi. E le cause sono più d’una: la lunga crisi economica che non offre, ma toglie lavoro, né fa intravvedere prospettive rassicuranti; la riforma pensionistica che, con l’introduzione del sistema contributivo, crea inquietudine anche a coloro che un’occupazione ce l’hanno, per via della previsione di pensioni molto più basse di quelle percepite dalle precedenti generazioni cui essi attribuiscono la parte delle improvvide cicale che hanno dilapidato la ricchezza accumulata nel passato, creando l’attuale, immenso debito pubblico; la corruzione dilagante di quanti, a tutti i livelli, se ne infischiano del bene comune e pensano solo ai loro personali interessi; l’incapacità, infine, della politica di trovare rimedi efficaci a superare l’attuale crisi, stante la sua cronica debolezza.
Tutto ciò ha contribuito a istillare, come in un lento avvelenamento, un rancore sordo e progressivo di questa componente essenziale verso la classe dirigente della nostra comunità. A ciò si aggiunge un senso di frustrazione e sfiducia verso le proprie capacità, e l’una e l’altra cosa insieme li sta spingendo verso un mortificante qualunquismo.
Ritengono, spesso a ragione, che da noi non sia il merito o la professionalità a essere premiati, ma tutto sia sovrastato dalla raccomandazione a favore di chi ha le giuste conoscenze politiche o un potere contrattuale familiare. La diffusa mancanza di lavoro o un’umiliante sottoccupazione hanno allungato i loro tentacoli anche verso i giovani forniti di un titolo di studio d’ogni livello, anche accademico, il più delle volte fuori mercato. Questo perché nulla è stato fatto seriamente per ammodernare questo vitale settore con i dovuti investimenti per adeguarlo alle esigenze attuali. Esso, anzi, nell’ultimo quinquennio si è visto addirittura sottrarre parte delle già inadeguate risorse. Né traggano in inganno le varie riforme attuate dai vari governi; fatte a costo zero non hanno migliorato un bel niente.
A questo colpevole abbandono si unisce non raramente nelle nostre università l’opacità della gestione che provoca illegalità come quelle recentemente denunciate dai giornali sui concorsi a cattedre truccati per far posto a parenti e amici.
Questi elementi patologici hanno per la prima volta determinato in Italia, unico caso tra i Paesi sviluppati, una continua diminuzione dei laureati. La regressione nell’ultimo decennio è stata notevole; mentre altrove il loro numero è stato in crescita costante, da noi siamo passati dai 291.189 del 2005 ai 216.430 del 2014, con la corrispondente diminuzione percentuale sul totale dei giovani che attualmente è del 24,2 rispetto al 37, 3 della UE e al 45,8 dell’Inghilterra.
Il nostro impoverimento intellettuale, inoltre, trova un’ulteriore causa nella fuga dei cervelli verso l’estero in cerca di migliori condizioni occupazionali. Nel 2015 sono emigrati circa centomila laureati attratti da remunerazioni e garanzie da noi oggi impensabili. La cosa in sé non sarebbe un male, perché la circolazione di uomini e idee è stata sempre l’essenza dello sviluppo umano. Diventa un male incurabile quando assume l’aspetto di una fuga da un luogo di disperazione, che ha tradito ogni tua speranza.
C’è stato un momento ai piani alti della politica in cui grazie alla combinazione di una serie di fattori, interni e internazionali, e al massiccio ricorso a fondi pubblici si è sperato di invertire il trend negativo, ma dopo un inizio promettente i risultati attuali non sembrano incoraggianti.
I pur lodevoli incentivi alle aziende previsti nel Jobs Act, infatti, non hanno determinato un’inversione di tendenza significativa dell’occupazione, né potevano farlo senza la modificazione di altri fattori importanti come l’aumento della domanda interna. Così quando gli sgravi sono stati drasticamente ridotti, l’occupazione giovanile è tornata ai minimi termini.
Eppure bisognerà pur trovare il bandolo della matassa per risolvere il più grave problema della nostra società perché non è detto che qualunquismo e indifferenza non si trasformino in nichilismo, facile preda di chi potrebbe avere obiettivi distruttivi. Lo abbiamo già sperimentato nel recente passato, quando le nostre strade e le nostre piazze furono trasformate in scenari di violenza e troncate tante vite innocenti.
Noi della Fondazione da tempo abbiamo rivolto lo sguardo alle problematiche dei giovani e posto tra i nostri fini la loro valorizzazione. Ma vogliamo andare ancora oltre e per questo in occasione della prossima consegna dei premi dedicati a Massimo D’Antona, sarà organizzata una tavola rotonda su tale scottante argomento cui parteciperà il Ministro del Lavoro e i rappresentanti delle parti sociali. L’auspicio è che il dibattito sia senza veli o peli sulla lingua. Chi scrive farà di tutto perché ciò avvenga.
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