Lavoro in carcere, caposaldo della redenzione e del reinserimento sociale
di Tiziano Argazzi [*]
Premessa
In un precedente numero di questo periodico[1] è stato affrontato il tema del lavoro delle persone detenute, approfondendo la posizione del carcerato nell’ambito del sistema penitenziario e la sua collocazione - a seguito della emanazione della legge 26.07.1975 n. 354 di approvazione delle “Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” - al centro dell’esecuzione penale.
La situazione però, come emerge dal XII Rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di lavoro nelle carceri italiane, è molto critica. Lavora appena il 29,73% dei detenuti. Di questi solo una piccola parte (circa il 15%) con datore di lavoro privato. Sono appena 612 i detenuti impiegati in attività di tipo manifatturiero, 208 in attività agricole.
Da questo si capisce come la gran parte lavora per l’Amministrazione penitenziaria in attività domestiche che comportano impegni lavorativi molto limitati (per poche ore settimanali) con un guadagno medio mensile di 200 euro. Fra tali attività rientrano ad esempio quelle di cuoco ed aiuto cuoco, addetto alla lavanderia, porta vitto, magazziniere, scrivano (cioè addetto alla compilazione di istanze e alla distribuzione di moduli), piantone (che identifica l’assistente di un compagno ammalato o non autosufficiente) e spesino (cioè incaricato di raccogliere gli ordini di acquisti dei compagni e alla loro distribuzione).
Nel secondo semestre 2015 erano 2.376 i detenuti iscritti in corsi professionali, pari al 4,55% dei presenti contro i 3.864 dello stesso periodo del 2009 pari al 6,07% dell’intera popolazione carceraria.
“Il lavoro dà un senso al tempo” si legge nel sito di “Freedhome – creativi dentro” un raggruppamento di imprese cooperative sociali italiane che lavorano all’interno di istituti di pena, portando dentro lavoro vero, valore, professionalità e portando fuori prodotti artigianali e alimentari di alta qualità. Un marchio nato con l’intento di ribadire che l’economia carceraria è la chiave di volta per ripensare in modo più efficace il sistema penitenziario italiano. Anche perché un detenuto che lavora, sperimenta relazioni sane, impara, ricostruisce un ponte con il mondo che c’è fuori. Ma soprattutto, concretamente, quando esce ha meno probabilità di tornare a sbagliare.
Sul tema del lavoro in carcere è intervenuto anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella il quale - nel suo recente messaggio al Corpo della polizia penitenziaria - ha ribadito con forza che “occorre proseguire sulla strada di un modello organizzativo e di gestione che, sappia unire l'opportunità dell'istruzione, del lavoro, l'apertura alla società esterna, per offrire ai detenuti la scelta del recupero e dell'integrazione. Fermo restando che ciò deve avvenire con la garanzia di sicurezza della comunità e il libero svolgimento delle relazioni sociali”. Ma procediamo con ordine.
Il carattere educativo del lavoro in carcere
È da tempo assodato che la creazione di lavoro all’interno del carcere è strumento prioritario per favorire il reinserimento nella società, abbattere la recidiva e trasformare i detenuti da peso a risorsa sociale.
In via preliminare occorre ricordare che il lavoro carcerario non può avere carattere afflittivo, come era invece in origine. Infatti il R.D. 18.06.1931 n. 787 (Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena) stabiliva, all’art.1, che per il carcerato il lavoro aveva una funzione essenzialmente punitiva sancendo che “in ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l’obbligo del lavoro”. Dunque il lavoro in carcere era considerato un elemento diretto ad inasprire la pena in ciò ispirato ad una filosofia di applicazione della sanzione in cui le privazioni e le sofferenze fisiche imposte dalla detenzione sembravano dover servire come mezzo per favorire l'educazione ed il riconoscimento dell'errore da parte del reo, e per determinare, attraverso il ravvedimento, un miglioramento personale[2].
Tale impianto normativo penalistico rimase in vigore fino alla metà degli anni 70 quando venne approvata la riforma, frutto di un processo di revisione del sistema penitenziario lungo, difficile e faticoso che però fu fatto in piena sintonia con i principi ed i valori della Carta Costituzionale, con le leggi e le convenzioni internazionali, con i deliberati dell’ONU ed anche con il contesto socio – politico e culturale molto diverso da quello che aveva ispirato il legislatore fascista.
Nella stesura della legge n. 354/1975 di riforma del sistema penitenziario (nel seguito O.P.) il legislatore repubblicano si è attenuto precipuamente al dettato costituzionale che, all’art. 27 co.3, stabilisce in modo perentorio che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”[3].
Oltre all’O.P. il legislatore varò l’anno successivo il regolamento attuativo, approvato con D.P.R. 29.04.1976 n. 431. L’O.P. approvato nel 1975, nonostante integrazioni e modifiche, significative e profonde, intervenute negli anni (fra cui la novella del 1986, la c.d. Legge Gozzini), è tuttora in vigore mentre il regolamento è stato integralmente sostituito dal D.P.R. 30.06.2000 n. 230.
Dalla normativa sopra descritta emergono i caratteri ancora oggi caratterizzanti il lavoro in carcere che sono:
- Obbligatorietà;
- Funzione rieducativa;
- Tutele previdenziali ed assistenziali.
Per quanto concerne l’obbligatorietà, l’art. 20 O.P. dopo avere sancito che nelle carceri debbono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale stabilisce al comma 3, che “Il lavoro è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro”. Tale obbligo trova pacifica conferma nell’art. 50 del Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà (nel seguito R.O.P) in base al quale “I condannati ed i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, che non siano stati ammessi al regime di semilibertà o al lavoro all'esterno o non siano stati autorizzati a svolgere attività artigianali, intellettuali o artistiche o lavoro a domicilio, per i quali non sia disponibile un lavoro rispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell'articolo 20 della legge n. 354/1975, sono tenuti a svolgere un'altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell'istituto”.
È anche evidente la sua funzione rieducativa in ragione del fatto che il lavoro negli istituti penitenziari è uno dei principali strumenti mirati alla riabilitazione e reintegrazione sociale del detenuto. Infatti abituando il detenuto a svolgere un'attività produttiva, non solo contribuisce al suo sostentamento ed eventualmente fornisce una fonte di sostegno economico alla famiglia, ma soprattutto favorisce l'acquisizione da parte dello stesso di una maggiore consapevolezza delle proprie capacità e della coscienza del proprio ruolo sociale. A tal fine è necessario che si tratti di un lavoro produttivo, gratificante e in particolare remunerato. Va da sé che il lavoro anche se svolto in carcere deve essere accompagnato da una serie di tutele (previdenziali ed assistenziali) a favore del prestatore, che di fatto sono equiparate (art. 20 co.17 O.P.) a quelle di ogni altro lavoratore subordinato[4].
Il lavoro del detenuto lavoratore
Come detto in precedenza uno dei capisaldi dell’O.P. e del regolamento attuativo è rappresentato dal lavoro. Lo stesso trova una puntuale regolamentazione negli art. 15 e 20 – 25 bis dell’O.P. nonché negli artt. 47 – 53 del DPR n. 230/2000.
Le norme indicate non delineano in modo chiaro le regole del lavoro penitenziario sempre in bilico tra diritti dei lavoratori ed ordinamento carcerario. Queste contraddizioni sono ben sintetizzabili dalla dicotomia: detenuti-lavoratori o lavoratori-detenuti[5].
A ben vedere comunque l’intera materia è particolarmente complessa e delicata. Ciò in quanto risultano coinvolti da un lato i due elementi fondanti della Repubblica (che come è noto sono la libertà personale ed il lavoro) e dall’altro vi è un continuo intersecarsi tra situazioni giuridiche nascenti dal rapporto di lavoro e quelle connesse con l’obbligo della espiazione della pena.
L’art. 15 O.P. prevede al co.1 che il trattamento penitenziario “del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. Inoltre, salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato è assicurato il lavoro. Infine l’ultimo comma del citato articolo prevede che “gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell'autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica”.
Da ciò appare evidente che il lavoro in carcere è uno dei “tasselli” più importanti del complesso di attività, misure ed interventi destinati alla rieducazione del condannato.
L’art. 20 O.P. , dedicato al lavoro dei detenuti, sancisce in maniera puntuale che:
- Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Questo sta a significare che non può comportare un inasprimento della pena, ma è considerato una forma di organizzazione necessaria alla vita della comunità carceraria. Carattere che ricalca i contenuti dell'art. 71 delle regole minime Onu ed è confermato dell’articolo 26 commi 1, 2 e 3 delle norme penitenziarie europee - adottate con la raccomandazione R 2006 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che considerano il lavoro elemento positivo del trattamento[6];
- L’attività lavorativa prestata è remunerata. Il compenso è calcolato in base alla quantità e qualità di lavoro svolto, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dai contratti collettivi nazionali. Sono riconosciute, inoltre, le medesime garanzie assicurative, contributive e previdenziali di quelle previste in un rapporto di lavoro subordinato. La retribuzione del detenuto lavoratore è definita dalla legge come mercede: l’art. 22 O.P. stabilisce che “Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi";
- Esso è obbligatorio per i detenuti condannati e per i sottoposti alla misura di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro. I metodi di lavoro negli istituti di pena debbono riflettere e ricalcare quelli della società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale. A tal fine, possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o private e possono essere istituiti corsi di formazione professionale organizzati e svolti da aziende pubbliche, o anche da aziende private convenzionate con la regione.
Che il lavoro sia un elemento portante del trattamento penitenziario lo si rinviene anche nel Cod. Pen. il quale - relativamente alle pene detentive (ergastolo, reclusione ed arresto) – stabilisce che[7]:
- Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto (art.22);
- Il condannato alla reclusione che ha scontato almeno un anno della pena, può essere ammesso al lavoro all'aperto (art.23);
- Il condannato all'arresto può essere addetto a lavori anche diversi da quelli organizzati nello stabilimento, avuto riguardo alle sue attitudini e alle sue precedenti occupazioni (art. 25).
Il lavoro intramurario ed extramurario
Due sono le tipologie lavorative in carcere quella intramuraria e quella all’esterno della struttura penale. Relativamente all’attività intramuraria la stessa può riguardare attività:
- domestiche cioè quelle indispensabili per il funzionamento del carcere oppure alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria[8];
- produttive alle dipendenze di Aziende pubbliche e private, principalmente cooperative sociali, che operano all’interno del carcere in ragione di specifiche convenzioni. L’organizzazione e la gestione di tali attività sono di competenza delle direzioni dei singoli Istituti penitenziari secondo linee programmatiche stabilite dai competenti Provveditorati. In quest’ultimo caso il rapporto di lavoro intercorre tra il detenuto e le imprese che gestiscono l’attività lavorativa mentre il rapporto di queste ultime con le direzioni è definito tramite convenzioni. I datori di lavoro devono versare alla direzione dell’istituto la retribuzione dovuta al lavoratore, al netto delle ritenute di legge, e l’importo di eventuali assegni familiari.
Relativamente all’attività lavorativa all’esterno dell’istituto penitenziario, l’art. 21 O.P. stabilisce che possono essere ammessi a svolgere attività lavorativa all’esterno condannati, internati ed imputati sin dall’inizio della detenzione; quando si tratta di imprese private, il lavoro deve svolgersi sotto il controllo della direzione dell'istituto a cui il detenuto o l'internato[9] è assegnato, la quale può avvalersi a tal fine del personale dipendente e del servizio sociale. Detenuti ed internati possono altresì essere autorizzati a prestare attività di volontariato, in forma assolutamente gratuita, in progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali, o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. I detenuti e gli internati possono essere altresì assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle famiglie delle vittime dei reati da loro commessi. L'attività è in ogni caso svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dei detenuti e degli internati.
In ogni caso non possono essere assegnati al lavoro all’esterno per svolgere lavori a titolo di volontariato i detenuti e gli internati per il delitto di associazione di stampo mafioso (articolo 416 bis c.p.) e per reati commessi per favorire le attività di stampo mafioso.
Di particolare rilievo sono i diritti ed i doveri dei lavoratori in carcere che svolgono la propria attività alle dipendente di aziende (private e pubbliche) all’interno o all’esterno del carcere. Al riguardo si può pacificamente affermare che al lavoro dei detenuti alle dipendenze di soggetti terzi (diversi cioè dall’Amministrazione penitenziaria) si applicano le stesse norme (codice civile, diritto del lavoro ed istituti di tutela) che si applicano per la generalità dei lavoratori quali ad esempio la retribuzione, le ferie, i riposi ed il diritto di sciopero. In particolare in relazione alle ferie, la Corte Costituzionale con un importante pronunciamento (Sent. 10.05.2001 n. 158) ha riconosciuto ai lavoratori detenuti il diritto alle ferie retribuite in quanto il lavoro in carcere è un “elemento del trattamento rieducativo”. Inoltre, continua la Corte, la garanzia del riposo annuale – imposta in ogni rapporto di lavoro subordinato, per esplicita volontà del Costituente – non consente deroghe e va perciò assicurata "ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta" (Sentenza Corte Costituzionale n. 189 del 1980), dunque anche al detenuto, sia pure con differenziazione di modalità.
Ovviamente tali rapporti lavorativi rimangono contraddistinti da alcuni elementi di specialità che sono alla base delle attività lavorative dei detenuti. E cioè che tali rapporti di lavoro si caratterizzano in via principale per la specifica finalità rieducativa che deve contraddistinguere l’attività lavorativa di chi è in carcere.
Infine a favore delle aziende che assumono lavoratori detenuti vengono previsti sgravi contributivi e fiscali. Al riguardo di grande rilievo, è stata la legge 22 giugno 2000 n. 193, c.d. Legge Smuraglia, che ha tra l’altro integrato la definizione di persone svantaggiate contenuta nella disciplina sulle cooperative sociali, con l’aggiunta, alle categorie già contemplate dall’art. 4 legge 8 novembre 1991 n. 381, delle “persone detenute o internate negli istituti penitenziari”. La legge ha inoltre esteso il sistema di sgravi contributivi e fiscali, già previsto in favore delle cooperative sociali, alle aziende pubbliche o private che organizzano attività produttive o di servizio all’interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate.
Ma ecco a quanto ammontano gli sgravi contributivi ed il credito d’imposta previsti dalla legge Smuraglia. Questi ultimi sono attualmente pari a 520 euro mensili per ogni detenuto assunto per un periodo superiore a 30 giorni, per tutta la durata della detenzione e per un massimo di 18 mesi per detenuti che hanno beneficiato del lavoro all’esterno o semilibertà e per un massimo di 24 mesi per detenuti scarcerati per fine pena. Il credito di imposta spetta anche per i semiliberi nella misura di 300 euro mensili. Per gli assunti a tempo parziale, il credito d’imposta viene riproporzionato alle ore prestate[10].
Per accedere a tale agevolazione le aziende debbono assumere detenuti o internati all'interno degli istituti penitenziari, lavoranti all'esterno del carcere ai sensi dell'art. 21 O.P. o semiliberi con contratto di lavoro subordinato di durata non inferiore a 30 giorni, corrispondere un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai CCNL e stipulare un'apposita convenzione con la Direzione dell'istituto penitenziario dove si trovano i lavoratori assunti.
Invece in relazione agli sgravi contributivi si evidenzia che gli stessi possono essere usufruiti dai datori di lavoro privati e cooperative che assumono lavoratori detenuti per attività all’interno ed all’esterno del carcere. In tali ipotesi la riduzione delle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale è pari al 95 per cento. Gli sgravi di cui trattasi si applicano anche per i diciotto mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore assunto per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno a condizione che l'assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era ammesso alla semilibertà o al lavoro all'esterno e per i ventiquattro successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all'esterno a condizione che il rapporto di lavoro sia iniziato mentre il soggetto era ristretto.
Note
[1] “Detenuti al lavoro da costo a risorsa” di Renato Nibbio (N. 3 Aprile Maggio 2014);
[2] Le relazioni familiari nella normativa penitenziaria tratto da www.altrodiritto.unifi.it;
[3] Arianna Bosco - Il Contesto istituzionale, la formazione professionale ed il lavoro: Il legislatore, nella stesura della legge de quo, ha dovuto attenersi al precetto costituzionale di cui all’art. 27, co. 3, nella sua duplice accezione: negativa (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e positiva (esse “devono tendere alla rieducazione del condannato”);
[4] Il lavoro nell'ordinamento penitenziario: finalità e caratteri tratto da www.altrodiritto.unifi.it;
[5] Il Lavoro penitenziario di Monica Vitali (Giudice del lavoro): Il tema del riconoscimento dei diritti di coloro che prestano una attività lavorativa durante la detenzione, infatti, può essere sintetizzato nella dicotomia tra "detenuti lavoratori" e "lavoratori detenuti" ed è stato affrontato, essenzialmente, in un’ottica penale e penitenziaria, così da privilegiare, rispetto ai diritti civili dei lavoratori detenuti, la pretesa punitiva dello Stato, subordinando permanentemente i primi alla seconda;
[6] Art. 26 Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee adottata dal Consiglio dei Ministri l’11 gennaio 2006, in occasione della 952esima riunione dei Delegati dei Ministri in base al quale “ Il lavoro deve essere considerato un elemento positivo del regime penitenziario e in nessun caso può essere imposto come punizione. Le autorità penitenziarie devono impegnarsi per fornire un lavoro sufficiente e utile. Tale lavoro deve permettere, per quanto possibile, di mantenere o aumentare le capacità del detenuto di guadagnarsi da vivere normalmente dopo la scarcerazione.
[7] Nell’ordinamento penale italiano le pene detentive sono ergastolo, reclusione ed arresto. Quest’ultima pena viene comminata a chi ha commesso una contravvenzione e consiste nella privazione della libertà personale per un periodo determinato di tempo; la reclusione consiste nella privazione della libertà personale per un periodo determinato di tempo per coloro che hanno commesso delitti; l’ergastolo infine viene inflitto a chi ha commesso delitti e consiste nella privazione della libertà personale per tutta la vita;
[8] Il DPR 30.06.2000 n. 230 di approvazione del “Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” prevede all’art. 47 che i lavori domestici sono quelli: (1) indispensabili all’ordinato funzionamento della vita interna dell’istituto (quali cuochi ed addetti alle cucine, alle lavanderie, i porta vitto ed i magazzinieri); (2) di manutenzione ordinaria dei fabbricati a cui sono assegnati i detenuti in possesso di competenze specifiche quali elettricisti, idraulici, falegnami, riparatori radio – tv , giardinieri ed imbianchini; (3) alcune mansioni esclusive dell’ambiente penitenziario quali lo spesino (l’incaricato di raccogliere gli ordini di acquisto dagli altri detenuti) il piantone (adibito all’assistenza di un compagno malato e non autosufficiente) e lo scrivano (addetto alla compilazione di istanze e alla distribuzione di moduli).
Mentre le attività alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria sono quelle necessarie per il funzionamento dei singoli Istituti di pena (quali ad esempio la fornitura di vestiario e corredo, di arredi e quant’altro destinato al fabbisogno di tutti gli istituti del territorio nazionale) e quelle delle colonie e dei tenimenti agricoli che occupano detenuti e internati con varie specializzazioni, come apicoltori, avicoltori, mungitori ed ortolani;
[9] Si definiscono "detenuti" coloro che si trovano in carcere o in stato di custodia cautelare o in stato di esecuzione penale; gli "internati" sono invece coloro che sono sottoposti all'esecuzione delle misure di sicurezza detentive presso colonie agricole, case di lavoro, case di cura e ospedali psichiatrici giudiziari.
[10] Ciò in ragione del Decreto Interministeriale del 24 luglio 2014. Sono previsti i medesimi benefici fiscali per le imprese che svolgano attività di formazione, a condizione che l’attività comporti, al termine del periodo di formazione, l'immediata assunzione dei formati per un periodo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione per il quale si sia fruito del beneficio. La stessa misura è prevista anche per le attività di formazione professionalizzanti rivolte ai detenuti o agli internati da impiegare in attività lavorative gestite in proprio dall'Amministrazione penitenziaria.
[*] Funzionario del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attualmente in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Rovigo.
Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero personale dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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