L’urlo di una generazione perduta
La lettera testamento di un giovane suicida
di Fabrizio Di Lalla [*]
La lettera denuncia del trentenne senza lavoro che si è tolto la vita qualche tempo fa, è come un urlo di dolore di una generazione perduta, che mette sotto accusa senz’appello una classe dirigente che ha consentito, purtroppo, tutto questo. Da tempo avevamo affrontato questo tema, consapevoli della sua drammaticità e ora cominciano a verificarsi gli effetti nefasti di una situazione che dura ormai da troppo tempo e che sta togliendo ogni speranza per un futuro migliore. Al dolore per la perdita di una giovane vita si è aggiunto tutto lo sdegno per come la notizia è stata presentata e trattata. Un tragico evento di grande impatto politico e sociale che andava evidenziato in prima pagina è stato ridotto a mero fatto di cronaca e accompagnato dal commento dello psichiatra che si è affrettato a chiarire che il gesto era la conseguenza di una mente debole e insicura.
Tutto ciò conferma l’indifferenza e il cinismo delle attuali classi dirigenti di cui la stampa ne è portavoce. Mentre le altre grandi nazioni hanno superato la crisi che ha colpito il mondo da un decennio, restituendo le speranze per il futuro alle loro nuove generazioni e anche a tanti nostri giovani, da noi la disoccupazione giovanile viaggia ancora intorno al quaranta per cento né i piccoli segnali di ripresa sono in grado di modificare sostanzialmente tale situazione.
D’altra parte questa che stiamo attraversando non è la prima né, è prevedibile, sarà l’ultima. Altre ancor più drammatiche si sono verificate come quella del ventinove del secolo scorso che sembrò rappresentare la fine dell’età dell’oro derivante dal progresso tecnologia. Fu contrastata e superata grazie all’impegno delle classi dirigenti dell’epoca che con audacia attuarono un programma di pubblici interventi di keynesiana memoria per far ripartire la locomotiva dello sviluppo e ci riuscirono. Da noi crearono un modello copiato in tutto il mondo, l’IRI, che per decenni svolse egregiamente il suo ruolo.
Ora invece, la nostra società non riesce più a ripartire e a trovare la sua strada; in crisi da tempo e priva, oltretutto, dei valori necessari per tenere insieme il corpo sociale, dove i ricchi si riducono, ma aumentano il loro potere, mentre l’area della povertà si sta allargando sempre più. E pensare che solo qualche decennio fa questo era un Paese prospero e fiducioso del suo futuro che sbalordiva anche gli osservatori stranieri. Ho tirato fuori dal mio archivio un reportage sull’Italia del luglio del 1990 effettuato dall’Economist, un giornale oltretutto mai troppo tenero con noi e voglio citarvi un brano che ben descrive il contenuto dell’articolo: “Questa nazione un tempo di gondolieri, camerieri estroversi, contadine del sud vestite di nero in groppa alle loro bestie da soma, è ora la quinta potenza del mondo. Il suo popolo è più ricco degli inglesi e non è difficile immaginare che a tempo debito supererà il tenore di vita dei tedeschi e degli scandinavi”.
Una presa d’atto incredibile per un giornalista inglese, ma mai previsione per il futuro prossimo fu più sbagliata perché proprio in quel periodo era cominciata una sorda lotta all’interno del gruppo dirigente che avrebbe portato, con tangentopoli, alla decapitazione di un’intera classe politica che con tutte le colpe che poteva avere, era comunque dotata di capacità e senso del bene comune, secondo i dettami delle grandi ideologie che avevano accompagnato l’umanità del mondo contemporaneo. Da allora, purtroppo l’Italia guidata da politici di terzo e quarto livello o addirittura improvvisati, ha intrapreso un lento ma graduale cammino verso un declino non solo economico ma anche morale e qui c’è tutta la responsabilità dei gruppi dirigenti che hanno perso il senso del bene comune mentre il loro cinismo è aumentato a dismisura di pari passo con la loro incompetenza. Altrimenti non si spiegherebbe come mai un paese che in Europa è secondo solo alla Germania nel campo manifatturiero, primato conquistato negli anni del boom economico non sia in grado di adottare gli strumenti idonei per ridare speranza se non certezze, alle generazioni che più dovrebbe curare per il futuro dell’Italia.
La realtà è che chi gestisce il potere si sente al sicuro nel suo egoismo perché il diffuso individualismo, che ha preso piede con la fine delle ideologie, la scomparsa dei partiti che le rappresentavano e la decadenza dei gruppi intermedi che avevano come stella polare il benessere collettivo, impedisce ogni valido strumento di lotta.
Se c’è una cosa che mi sento di rimproverare ai giovani è proprio il loro voluto isolamento perché con esso non andranno da nessuna parte. È l’unione, invece, come dice il vecchio motto, che fa la forza. Si uniscano prima che sia troppo tardi e se non hanno fiducia delle organizzazioni esistenti ne creino delle nuove. Sono tanti e hanno il massimo delle energie fisiche, intellettuali e morali. Con tali requisiti possono ambire alla guida del nostro Paese e intanto costringere le attuali classi dirigenti, avide e vili, a pensare oltre i propri interessi, affrontando e risolvendo i problemi che oggi abbiamo e che non sono insuperabili. Ce la possono fare solo che lo vogliano, altrimenti continueranno a essere come ora abbandonati a se stessi o tutt’al più destinatari di qualche elemosina, la si chiami come si voglia.
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona
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