Decreto Madia sul lavoro pubblico - Parte seconda
Sistema disciplinare e stabilizzazione dei precari
di Marco Biagiotti [*]
Nella Gazzetta Ufficiale del 7 giugno scorso sono stati pubblicati i decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 74 e n. 75, attuativi dell’art. 17 della legge delega 7 agosto 2015, n. 124 e riguardanti, rispettivamente, la riforma del sistema di valutazione dei pubblici dipendenti ai fini della corresponsione del trattamento accessorio (modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150) e la riforma del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2011, n. 165). In questo numero di Lavoro@Confronto proseguiremo nell’illustrazione di alcune delle novità più significative contenute nei due provvedimenti (entrati in vigore il 22 giugno), dopo esserci già soffermati, nel numero precedente, sugli aspetti riguardanti la ridefinizione del rapporto tra legge e contratto e il parziale ampliamento degli spazi della contrattazione collettiva.
All’indomani dell’approvazione definitiva da parte del governo dei due provvedimenti, giornali e televisioni hanno diffuso con grande risalto la notizia dell’ennesimo gire di vite contro gli statali fannulloni e assenteisti, sottolineando come siano state introdotte norme più severe in materia di licenziamento disciplinare ed ampliato il novero delle fattispecie sanzionabili, accorciando notevolmente i termini del procedimento. In effetti, il decreto 75 modifica in più punti il ‘pacchetto’ a suo tempo introdotto dal decreto 27 ottobre 2009, n. 150, vale a dire gli articoli da 55-bis a 55-sexies del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Secondo tradizione, l’articolo 55-quater ha guadagnato il primo posto nell’attenzione dei media, soprattutto per via del fatto che in esso vengono enunciate le (vecchie e nuove) fattispecie di infrazioni che possono comportare l’irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare, con e senza preavviso. Curiosamente, però, molti commentatori hanno ‘dimenticato’ di dire che alcune delle modifiche introdotte nell’articolo 55-quater, in particolare quelle sui famigerati “furbetti del cartellino”, risalgono ad oltre un anno e mezzo fa, allorché il governo Renzi, sull’onda dell’indignazione popolare per le immagini di alcuni dipendenti pubblici sorpresi dalle telecamere di sorveglianza a falsificare la timbratura, presentò in fretta e furia uno schema di decreto ad hoc entrato in vigore qualche mese dopo (decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116). Non ci dilungheremo, pertanto, su questo aspetto della normativa sui licenziamenti disciplinari, ormai sin troppo nota agli addetti ai lavori per essere spacciata come novità, se non per ricordare che il citato decreto 116 non introduceva una nuova fattispecie di illecito disciplinare (il licenziamento senza preavviso per falsa attestazione della presenza in servizio esisteva già)[1], ma un sorta di rito abbreviato per permettere alle Amministrazioni di irrogare la sanzione in soli 30 giorni nei confronti dei dipendenti colti in flagranza, o la cui infrazione venga accertata “mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenza”, nonché nei confronti dei dipendenti che si rendano in qualunque modo complici dell’illecito altrui, anche per effetto di comportamenti omissivi[2].
A prescindere dalla circostanza di essere colti o meno in flagranza, comunque, il decreto legislativo 75/2017 amplia le tipologie di infrazione previste dall’art. 55-quater del d.lgs. 165/2001 che possono dare luogo alla sanzione del licenziamento disciplinare, introducendo quattro nuove fattispecie di illecito e precisamente:
- gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento;
- commissione dolosa, o gravemente colposa, di grave danno al normale funzionamento dell'ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate dall'amministrazione;
- reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato l’applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell’arco di un biennio;
- insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio.
Queste nuove fattispecie si aggiungono alle sei già esistenti ex riforma Brunetta del 2009, che, per buona memoria, ricordiamo:
a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia (senza preavviso);
b) assenza ingiustificata per tre giorni, anche non continuativi, nell'arco di un biennio o per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni; mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione;
c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio;
d) falsi documenti e/o false dichiarazioni ai fini dell’instaurazione del rapporto di lavoro o delle progressioni di carriera (senza preavviso);
e) reiterazione di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui nell’ambiente di lavoro (senza preavviso);
f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l'interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro (senza preavviso).
Per tutte le tipologie sopra elencate, il decreto 75 opera una sorta di aggancio con il decreto 116, stabilendo che il ‘rito abbreviato’ introdotto per i finti timbratori (commi da 3-bis a 3-quinquies dell’articolo 55-quater) si estenda a tutte le fattispecie di “condotte punibili con il licenziamento”, se accertate in flagranza.
Delle quattro nuove tipologie di illeciti che possono dar luogo alla sanzione del licenziamento, quella che ha maggiormente colpito la… fantasia popolare è sicuramente la quarta, concernente l’accertato insufficiente rendimento dei dipendenti pubblici per tre anni consecutivi[3]. In realtà, sia la vecchia che la nuova formulazione appaiono caratterizzate dallo stesso tratto di fumosa autoreferenzialità burocratica che, purtroppo, informa di sé gran parte delle disposizioni sul lavoro pubblico introdotte dai legislatori di tutti gli orientamenti politici negli ultimi 10 anni. A parte l’indeterminatezza del concetto di “reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa”, quel che più sorprende nella disposizione in esame è la disinvoltura con cui si opera il collegamento tra il sistema disciplinare e l’apparato valutativo dirigenziale che deriva dal cosiddetto ‘sistema della performance’, ovvero il meccanismo più ipertrofico, bizantino, dispersivo e confusionario che mai mente umana abbia saputo elaborare per distribuire – di solito con due o tre anni di ritardo e senza contare la parametrazione sui giorni di presenza in servizio – faraonici premi di incentivazione alla produttività che ammontano, in media, a circa 4-500 euro lordi pro-capite l’anno. Ma anche ammettendo (con fatica) che il tentativo di collegare i criteri di misurazione della performance con la valutazione degli “obblighi concernenti la prestazione lavorativa” fissati da “norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza” abbia un senso (e in attesa di comprendere chi e in base a quali criteri debba tracciare, in ciascuna amministrazione, la linea oltre la quale scatta la valutazione individuale di insufficiente rendimento), non si può fare a meno di osservare che, allo stato attuale dell’evoluzione normativa, la rilevazione della “violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa” è una procedura scritta sulla sabbia, al pari di quella sulla rilevazione della performance. In base alle disposizioni contenute nell’art. 9 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, infatti, la misurazione e la valutazione delle performance individuali spettano ai dirigenti responsabili di ciascuna unità organizzativa secondo parametri che, in parte, si sovrappongono a decisioni di competenza di altri soggetti coinvolti, a vario titolo, nel processo valutativo (gli Organismi Indipendenti di Valutazione, le associazioni dei cittadini e degli utenti dei servizi forniti dalle amministrazioni, le organizzazioni sindacali). Per di più, fra le nuove disposizioni introdotte con il decreto legislativo riguardante la misurazione e la valutazione della produttività ai fini dell’erogazione del salario accessorio vi è anche la previsione che il Dipartimento della Funzione Pubblica fornisca alle amministrazioni opportuni “indirizzi” in base ai quali adottare il sistema della performance, nell’ambito del quale andranno anche definite le “procedure di conciliazione a garanzia dei valutati”, vale a dire la possibilità per i dipendenti di attivare una fase formale di contraddittorio con la propria amministrazione rispetto alla valutazione ottenuta[4]. Passaggio assolutamente cruciale, quest’ultimo, per scongiurare – o, almeno, ridurre – la possibilità che, in considerazione del loro rilievo ai fini disciplinari, le valutazioni di insufficiente rendimento possano configurarsi come strumenti impropri di pressione e di condizionamento nei confronti dei dipendenti, magari per finalità che nulla hanno a che vedere con il buon funzionamento degli uffici o con il miglioramento della qualità dei servizi forniti a cittadini e imprese.
Le modifiche introdotte dal decreto 75/2017 nel sistema disciplinare dei dipendenti pubblici intervengono anche sulla procedura e sulla durata dei termini previsti per la conclusione dei procedimenti, come definiti dall’art. 55-bis del d.lgs. 165/2001 riguardante “Forme e termini del procedimento disciplinare”. Rispetto alla versione brunettiana, il nuovo art. 55-bis sposta il baricentro dell’azione disciplinare maggiormente sull’Ufficio Procedimenti Disciplinari e meno sul dirigente responsabile della struttura nella quale opera il dipendente sottoposto ad addebito[5], ad eccezione delle infrazioni di minore gravità per le quali è prevista la sanzione del rimprovero verbale. Per tutte le altre tipologie di infrazione, al dirigente responsabile spetta il compito di segnalare entro 10 giorni all’UpD i fatti di rilevanza disciplinare di cui sia venuto a conoscenza, dopo di che l’iniziativa passa nelle mani dello stesso UpD secondo la seguente tempistica:
- entro 30 giorni, contestazione scritta dell’addebito e convocazione dell’interessato, con preavviso di almeno 20 giorni, per l’audizione in contraddittorio[6];
- possibilità per il dipendente convocato di chiedere il differimento dell’audizione per grave ed oggettivo impedimento, per una sola volta e con corrispondente proroga del termine per la conclusione del procedimento[7];
- conclusione del procedimento entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito.
Con riguardo alla tempistica, la vecchia procedura operava una distinzione fra due categorie di illeciti: quelli che prevedono una sanzione superiore al rimprovero verbale, fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a un massimo di 10 giorni; e quelli di gravità superiore, che possono arrivare sino al licenziamento. Nel primo caso, i termini per la conclusione del procedimento disciplinare erano fissati in 60 giorni dal momento della contestazione dell’addebito (da effettuare al massimo entro 20 giorni dalla conoscenza del fatto da parte dell’amministrazione), con possibile prolungamento per gravi e motivate esigenze del dipendente accusato, da richiedere una sola volta; nel secondo caso, tutti i termini di cui sopra venivano raddoppiati. Nella nuova versione, invece, scompare la differenza fra le due tipologie di infrazione e, per tutte quelle che prevedono una sanzione superiore al rimprovero verbale, i termini di conclusione del procedimento risultano ora fissati in 120 giorni dalla contestazione dell’addebito da parte dell’UpD, che deve avvenire al massimo entro 30 giorni dalla conoscenza dei fatti. Anche in questo caso, peraltro, la durata del procedimento può essere prolungata, per una sola volta, a richiesta del dipendente accusato, per grave ed oggettivo impedimento che non gli consenta di partecipare all’audizione in sua difesa.
A ben vedere, quindi, il decreto 75/2017 ha operato una riunificazione al rialzo dei termini del procedimento disciplinare, prevedendo che tutte le tipologie di illecito disciplinare (tranne quelle più lievi che prevedono la sanzione del solo rimprovero verbale e tranne quelle che prevedono la sanzione del licenziamento e sono caratterizzate dal requisito della flagranza) si concludano entro 120 giorni dall’atto di formale contestazione di addebito. Per contro, la riforma Madia tenta di eliminare tutte le possibili cause di rallentamento della procedura dovute a fattori esterni all’illecito commesso e, a tal fine, agisce lungo tre direttrici principali: a) la violazione dei termini; b) la sovrapposizione del procedimento disciplinare con il procedimento penale per il medesimo illecito; c) il trasferimento del dipendente presso un’altra amministrazione.
Nel primo caso, il decreto 75/2017 provvede, da un lato, a cassare i riferimenti (contenuti nei commi 2 e 4 del vecchio art. 55-bis) alla decadenza dell’azione disciplinare per violazione dei termini del procedimento, sostituendoli con un comma 9-ter nuovo di zecca che testualmente recita:
“La violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall'azione disciplinare né l'invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell'azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. (…)”
Nel secondo caso, disciplinato dall’articolo 55-ter del d.lgs. 165/2001, la novità è rappresentata dal fatto che qualora un procedimento disciplinare per grave infrazione (con sanzione superiore alla sospensione dal servizio senza retribuzione per 10 giorni), nei casi “di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente”, venga sospeso in attesa dell’esito del procedimento penale, l’amministrazione può decidere di riattivarlo in qualunque momento, anche senza attendere la sentenza definitiva del tribunale, qualora ritenga di aver acquisito nuovi elementi sufficienti per concluderlo. Restano confermate le disposizioni già esistenti (art. 55-ter, comma 2) per i casi in cui il dipendente che abbia già subito una sanzione disciplinare venga poi assolto in sede penale con sentenza irrevocabile che riconosce che il fatto addebitato non sussiste o che il dipendente non lo ha commesso o non costituisce illecito penale; ovvero quelle (art. 55-ter, comma 3) relative ai casi in cui l’archiviazione del procedimento disciplinare sia seguito da una sentenza irrevocabile di condanna in sede penale. A fattor comune per le situazioni di cui sopra, il rinnovato comma 4 dell’art. 55-ter prevede che l’amministrazione riprenda o riapra il procedimento disciplinare entro 60 giorni dalla comunicazione della sentenza da parte della cancelleria del giudice, rinnovando la contestazione di addebito, con integrale nuova decorrenza dei termini per la sua conclusione.
Quanto alla terza fattispecie, il decreto Madia interviene sul comma 8 dell’art. 55-bis del d.lgs. 165/2001, inserendovi la previsione che qualora un dipendente sia trasferito presso un’altra amministrazione in pendenza di procedimento disciplinare, il procedimento stesso venga interrotto presso l’amministrazione di partenza e riparta dall’inizio, con nuova decorrenza dei termini, presso l’amministrazione di arrivo, non appena l’ente di provenienza abbia provveduto (obbligatoriamente e con tempestività) alla trasmissione degli atti[8]. Nello stesso passaggio, inoltre, la nuova disposizione stabilisce che qualora l’amministrazione di provenienza venga a conoscenza di un illecito disciplinare commesso dal dipendente prima del trasferimento, provvede a darne segnalazione entro 20 giorni all’Ufficio per i procedimenti disciplinari dell’amministrazione presso cui il dipendente è stato trasferito e dalla data di ricezione della segnalazione decorrono i termini per la contestazione dell'addebito e per la conclusione del procedimento.
Si è accennato in precedenza (cfr. nota 1) al fatto che l’articolo 55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (“False attestazioni o certificazioni”) già prevedesse una responsabilità ben più grave di quella esclusivamente disciplinare nei confronti dei dipendenti che producano false attestazioni della presenza in servizio “mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente”, o falsi attestati di malattia, per giustificare l’assenza dal servizio. In casi del genere, ai sensi della norma del 2009 scatta (in aggiunta al procedimento per illecito disciplinare e alla denuncia al pubblico ministero, su segnalazione dell’ufficio procedimenti disciplinari dell’amministrazione interessata[9]) l’azione di responsabilità, da parte della Corte dei Conti, per danno patrimoniale relativa al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché per danno d’immagine. Il passaggio sulla responsabilità per danno d’immagine, che nella disposizione del 2009 era formulato in modo un po’ generico, viene ora ripreso e rafforzato, agganciandolo alla procedura introdotta dal ricordato decreto 116/2016 per gli assenteisti sorpresi in flagranza e che, nel labirinto dei rimandi normativi, si colloca all’interno del d.lgs. 165/2001 sotto forma di comma 3-quater dell’art. 55-quater: “L’ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia”. In altre parole, la multa per danno erariale comminata dalla Corte dei Conti (oltre al licenziamento disciplinare e oltre alla denuncia al pubblico ministero) a carico del dipendente dovrà essere commisurata al clamore giornalistico dell’illecito commesso, discrezionalmente valutato dai giudici contabili[10]. Un criterio che sarebbe eufemistico definire poco oggettivo (curiosamente, nel caso del lavoro pubblico gli strombazzamenti giornalistici spesso sono inversamente proporzionali alla gravità delle mancanze commesse e le malefatte più gravi, a volte, vengono ‘rivelate’ all’opinione pubblica dopo anni) e che comunque, a voler essere schietti, ci piacerebbe venisse esteso anche al danno d’immagine prodotto al Paese da buona parte della sua classe dirigente nazionale. Pubblici dipendenti e non.
In generale, la riforma Madia mantiene saldamente in mano al datore di lavoro pubblico la gestione del sistema disciplinare. Vengono anche confermate in blocco le disposizioni, a suo tempo introdotte dalla riforma Brunetta, concernenti il divieto per i contratti collettivi di istituire procedure di impugnazione dei procedimenti disciplinari e, correlativamente, è confermata la possibilità per i dipendenti a cui sia stata irrogata una sanzione disciplinare di ricorrere al tribunale ordinario o adire alle procedure di conciliazione non obbligatoria eventualmente fissate dagli accordi collettivi (tranne che per la sanzione del licenziamento), le quali, in ogni caso, non potranno essere “di specie diversa” da quella prevista per l’infrazione in oggetto e, comunque, non potranno più essere successivamente impugnate. Gli spazi di apertura nei confronti della contrattazione sono ridotti al minimo e si riducono, in buona sostanza, alla competenza dei contratti collettivi sulla disciplina relativa alle infrazioni di minore gravità, punibili con la sanzione del rimprovero verbale (nuovo comma 1 dell’art. 55-bis, peraltro già prevista, seppure con parole diverse, nella versione originaria del 2009) e all’introduzione di un inedito comma 3-bis nel corpo dell’articolo 55-quinquies del d.lgs. 165/2001 (quello, appunto, concernente “False attestazioni o certificazioni”), nel quale si affida ai contratti collettivi nazionali il compito di definire le “condotte” e fissare le “corrispondenti sanzioni disciplinari” per i casi di ripetute e anomale assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché di “anomale assenze collettive” in periodi critici nei quali è necessario assicurare la continuità dei servizi[11].
L’ultimo intervento del decreto 75/2017 sul corpus del sistema disciplinare del pubblico impiego che si ritiene utile segnalare, a conclusione di questa breve rassegna, è quello che riguarda le modifiche introdotte all’art. 63 del d.lgs. 165/2001, concernente le “Controversie relative ai rapporti di lavoro”. Ferma restando la devoluzione al giudice ordinario di tutte le controversie di lavoro, il decreto Madia riscrive quasi integralmente il comma 2 dell’art. 63 citato, specie nella parte in cui si definisce la procedura da adottare nel caso che il giudice stesso dichiari nullo il licenziamento di un dipendente pubblico. La questione, com’è noto, è assai dibattuta, poiché chiama in causa l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori dopo l’introduzione delle nuove norme in materia di licenziamenti illegittimi da parte del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23. Com’è noto, per i lavoratori del settore privato assunti dopo l’entrata in vigore del decreto 23/2015, il riconoscimento da parte del giudice della mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel licenziamento non comporta più l’obbligo di reintegrazione da parte del datore di lavoro, che permane invece nel caso di licenziamento discriminatorio. Peraltro, la legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. riforma Fornero del lavoro) aveva già fortemente ridotto il campo di applicazione dell’istituto della reintegrazione, affiancandolo (e, in larga misura, sostituendolo) con un articolato sistema di indennità alternative. Questo tema, già di per sé incandescente, divide da tempo gli esperti di diritto del lavoro in due fazioni: coloro che sostengono che il Jobs Act vada applicato integralmente anche al pubblico impiego, anche in materia di licenziamenti, e coloro che, invece, ritengono che ai dipendenti della P.A. debba continuare ad applicarsi l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella versione riveduta e corretta dalla riforma Fornero del 2012. Il nuovo testo del comma 2 dell’art. 63 del d.lgs. 165/2001 sembra chiudere (almeno per adesso) la discussione, stabilendo che il giudice, nella sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione “alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria” non superiore all’equivalente di 24 mensilità, decurtate di una somma pari agli importi che il lavoratore abbia nel frattempo percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative.
L’altra vecchia conoscenza di (quasi) tutte le riforme della P.A. degli ultimi anni che torna ancora una volta a trovarci, è quella che riguarda l’eterna promessa della stabilizzazione dei precari di lungo corso. L’articolo 20 (“Superamento del precariato nelle pubbliche amministrazioni”) del d.lgs. 75/2017 trasforma in norma giuridica un impegno politico che il governo pre-referendario aveva sottoscritto con le organizzazioni sindacali nell’ambito del protocollo d’intesa del 30 novembre 2016, che, al riguardo, così recitava (Parte 4, lettera c): “Il governo si impegna ad assicurare il rinnovo dei contratti precari con la pubblica amministrazione, attualmente in essere e di prossima scadenza, in vista di una definitiva regolamentazione da realizzarsi con la riforma del testo unico del pubblico impiego”. Al netto del personale precario della Scuola (docente, amministrativo e tecnico-ausiliario) e di quello delle Istituzioni di alta formazione artistico-musicale, categorie esplicitamente escluse dall’applicazione dell’art. 20, c’è in ballo il destino di qualche decina di migliaia di dipendenti sparsi in varie amministrazioni, oltre l’80% dei quali impegnato nei comparti delle Regioni ed autonomie locali e della Sanità. Molti di loro avrebbero già dovuto essere stabilizzati grazie alle ‘risolutive’ procedure varate dal governo Letta con il decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (poi legge 30 ottobre 2013, n. 125); le quali, in realtà, hanno risolto ben poco, anche a causa del sovrapporsi di altre priorità politiche che ne hanno fortemente rallentato l’attuazione (come, ad esempio, la necessità di riempire i posti liberi di molte amministrazioni con il personale delle Province in mobilità obbligatoria). Secondo i dati del Conto Annuale della Ragioneria Generale dello Stato aggiornati al 31 dicembre 2015, i dipendenti pubblici con contratto di lavoro a tempo determinato o assunti con altre forme di lavoro flessibile sono – non considerando Scuola e AFAM – circa 105.000, ma secondo il governo attuale i potenziali destinatari delle misure contenute nel nuovo decreto Madia ammonterebbero a circa 50.000. Sul perché di questa discrasia si potrebbe disquisire a lungo, ma forse non è questa la sede più opportuna. Mette conto soltanto ricordare che il decreto 75/2017 circoscrive le nuove procedure di stabilizzazione agli intestatari di un contratto a termine, cui si aggiunge un certo numero di Lavoratori Socialmente Utili, presenti specialmente nelle regioni del sud-Italia, e qualche centinaio di contratti di formazione-lavoro attivi nel settore degli enti locali.
Poiché le norme sul pubblico impiego escludono la possibilità di effettuare assunzioni di personale a tempo indeterminato senza passare attraverso un concorso, l’art. 20 del d.lgs. 75/2017 ha suddiviso i precari in due gruppi: quelli che per accedere al rapporto a termine hanno già dovuto superare una “procedura concorsuale” (anche presso amministrazioni diverse da quella che provvede a stabilizzarli) e quelli che invece non l’hanno effettuata.
Nel primo caso, le amministrazioni potranno procedere direttamente con l’immissione in ruolo a tempo indeterminato dei precari in servizio, entro il triennio 2018-2020, alle seguenti condizioni:
- che l’amministrazione abbia provveduto a definire il piano triennale dei fabbisogni di personale secondo la procedura coniata nel rinnovato art. 6 del d.lgs. 165/2001, in ‘combinato disposto’ con il successivo inedito art. 6-ter, introdotto dal d.lgs. 75/2017, concernente le (immancabili) linee di indirizzo della Funzione Pubblica alle amministrazioni per la predisposizione dei piani stessi;
- che sia indicata la necessaria copertura finanziaria;
- che il personale interessato si trovasse in servizio con contratto a tempo determinato successivamente al 28.8.2015 (data di entrata in vigore della legge n. 124 del 2015) presso l’amministrazione che procede all’assunzione;
- che alla data del 31 dicembre 2017 il personale interessato abbia maturato almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni, alle dipendenze dell'amministrazione che procede all'assunzione[12].
Nel secondo caso, le amministrazioni potranno bandire, durante il triennio 2018-2020, concorsi riservati fino a un massimo del 50% dei posti disponibili (e purché sia stato definito il piano triennale dei fabbisogni, con indicazione della relativa copertura finanziaria) in favore del personale che:
- sia stato assunto con “contratto di lavoro flessibile” dopo il 28-8-2015 presso l’amministrazione che bandisce il concorso;
- abbia maturato, alla data del 31 dicembre 2017, almeno tre anni di contratto (anche non continuativi) negli ultimi otto anni, presso l'amministrazione che bandisce il concorso.
Ce n’è abbastanza per escludere la prospettiva di una sanatoria generalizzata. I paletti sono molti (del resto, assomigliano a quelli fissati nella precedente ‘sanatoria’ del 2013, rimasta in larga parte inutilizzata) e, fra essi, il più arduo da superare, oggi come in passato, è quello che riguarda le compatibilità con i vincoli di bilancio delle amministrazioni; né si può dire che la lettura del comma 3 dell’art. 20 alimenti un particolare ottimismo in tal senso. Vi si stabilisce infatti che “ferme restando le norme di contenimento della spesa di personale” (e come inizio non c’è male…), al fine di attivare le procedure di stabilizzazione di cui sopra, nel triennio 2018-2020 le pubbliche amministrazioni “possono elevare gli ordinari limiti finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato previsti dalle norme vigenti, al netto delle risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato per reclutamento tramite concorso pubblico, utilizzando a tal fine le risorse previste per i contratti di lavoro
flessibile, nei limiti di spesa di cui all'articolo 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge 20 luglio 2010, n. 122, calcolate in misura corrispondente al loro ammontare medio nel triennio 2015-2017 a condizione che le medesime amministrazioni siano in grado di sostenere a regime la relativa spesa di personale previa certificazione della sussistenza delle correlate risorse finanziarie da parte dell'organo di controllo interno di cui all'articolo 40-bis, comma 1, e che prevedano nei propri bilanci la contestuale e definitiva riduzione di tale valore di spesa utilizzato per le assunzioni a tempo indeterminato dal tetto di cui al predetto articolo 9, comma 28”. Abbiamo riportato integralmente la suddetta lunga citazione, che fa parte di un unico mostruoso illeggibile periodo di 18 righe consecutive, nella speranza che qualche lettore più preparato e intuitivo di noi riesca a capire di preciso che cosa ci sia scritto e che cosa abbia voluto dire il legislatore semplificante che l’ha elaborato, supponiamo, per rendere più facile l’attuazione delle procedure stabilizzatrici. Per esempio: che significa che si possono elevare gli ordinari limiti finanziari per le assunzioni a tempo indeterminato, al netto delle risorse destinate alle assunzioni a tempo indeterminato? E quali sono le risorse finanziarie la cui sussistenza va previamente certificata da parte dell’organo di controllo, stante che, normalmente, tutte le risorse finanziarie di un’amministrazione passano sotto la lente dell’organo di controllo in sede previsionale e a consuntivo? Infine: sarà mai possibile in Italia scrivere una legge che per essere compresa (e applicata) non necessiti della consulenza di qualche esperto di diritto amministrativo o di finanza pubblica?
Per fortuna dei precari in attesa, la norma concede tre anni di tempo alle amministrazioni, a decorrere dall’1.1.2018, per ridefinire i fabbisogni di personale e risolvere al proprio interno il rompicapo delle risorse. Inoltre, il comma 8 dell’art. 20 consente alle amministrazioni di prorogare i rapporti di lavoro già in essere con tutti coloro che partecipano alle procedure di cui sopra, sino al termine delle stesse.
È da notare, infine, che la procedura più diretta, prevista dal comma 1 dell’art. 20 e riservata a chi abbia già sostenuto una selezione pubblica di accesso, riguarderà soltanto il personale con rapporto a tempo determinato, mentre i concorsi riservati saranno rivolti ai titolari di contratti di “lavoro flessibile”: espressione nella quale rientrano anche i Lavoratori Socialmente Utili e i contrattisti in rapporto di formazione-lavoro. Nessuna possibilità di stabilizzazione nella p.a., invece, per i lavoratori con contratto di somministrazione lavoro (dal momento che il loro rapporto non risulta instaurato con la pubblica amministrazione, bensì con l’agenzia fornitrice), né per il personale assunto a termine presso gli uffici di diretta collaborazione degli organismi politici dei Ministeri e delle Regioni.
La prima parte di questo articolo è stata pubblicata nel numero 21 di Lavoro@Confronto.
[*] Marco Biagiotti, ex dipendente del Ministero del Lavoro, attualmente presta servizio presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. In passato ha collaborato alla realizzazione, per la UIL Pubblica Amministrazione, della collana di volumi su “Lavoro e contratti nel pubblico impiego”. Dal 1996 al 2009 è stato responsabile del periodico di informazione e cultura sindacale “Il Corriere del Lavoro”.
Note
[1] La lettera a) del comma 1 dell’art. 55-quater, introdotto dall’art. 69 del d.lgs. 150/2009, annovera infatti fra le cause di licenziamento disciplinare la “falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”. Detta previsione era ulteriormente rafforzata dalle norme del successivo articolo 55-quinquies sulle “False attestazioni o certificazioni” e concernenti il rilievo penale a carico dei pubblici dipendenti per l’illecito di falsa attestazione della presenza in servizio, nonché del connesso rilievo per danno erariale e d’immagine, poi ripreso con più enfasi dal decreto 116/2016: aspetti su cui torneremo più avanti.
[2] Al riguardo è bene ricordare che le modifiche introdotte dal citato decreto 116 alla preesistente norma sui licenziamenti disciplinari hanno conservato la loro efficacia anche dopo che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 251 del 25 novembre 2016 e accogliendo un ricorso presentato dalla Regione Veneto, aveva dichiarato la parziale illegittimità della legge-delega n. 124/2015 a causa dell’insufficiente coinvolgimento delle Regioni nel processo di attuazione della riforma previsto dall’art. 18 della stessa legge 124/2015. Nel Consiglio dei Ministri del 17 febbraio scorso, peraltro, il governo ha approvato una norma correttiva del decreto legislativo 116/2016 (e, quindi, di quella parte dell’art. 55-quater del d.lgs. 165/2001 modificata dal decreto 116) volta a recepire i rilievi tecnici formulati dalla Suprema Corte, senza tuttavia modificarne i contenuti.
[3] Per la cronaca, il testo originario dell’art. 55-quater, comma 2, ora abrogato dal decreto 75, prevedeva che “Il licenziamento in sede disciplinare è disposto (…) nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l’amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza e dai codici di comportamento (…)”.
[4] L’articolo 5 del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 74, al comma 1, lettera c) introduce il seguente nuovo comma nel testo dell’art. 7 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150: “2-bis. Il Sistema di misurazione e valutazione della performance, di cui al comma 1 è adottato in coerenza con gli indirizzi impartiti dal Dipartimento della funzione pubblica ai sensi dell'articolo 3, comma 2, e in esso sono previste, altresì, le procedure di conciliazione, a garanzia dei valutati, relative all'applicazione del sistema di misurazione e valutazione della performance e le modalità di raccordo e integrazione con i documenti di programmazione finanziaria e di bilancio.” Previsione nell’ambito della quale, ad essere sinceri, ci si sarebbe attesi, piuttosto, una sottolineatura della necessità del “raccordo” e dell’“integrazione” fra il sistema di misurazione e valutazione delle performance e i documenti di programmazione delle attività di ciascuna amministrazione.
[5] È bene tuttavia ricordare che la procedura speciale prevista dal già ricordato decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116 per falsa attestazione della presenza in servizio accertata in flagranza, ora (comma 3 dell’art. 55-quater del d.lgs. 165/2001, modificato dal d.lgs. 75/2017) estesa a tutte le fattispecie di condotte punibili con il licenziamento, se accertate anch’esse in flagranza, assegna al dirigente responsabile della struttura in cui lavora il dipendente responsabile dell’illecito l’obbligo di disporre, non appena venuto a conoscenza del fatto, la sospensione dal servizio del dipendente entro 48 ore, nonché di provvedere alla contestazione scritta dell’addebito e alla convocazione del dipendente stesso dinanzi all’Ufficio Procedimenti Disciplinari. Nelle fattispecie in questione, l’omessa attivazione senza giustificato motivo del procedimento disciplinare da parte del dirigente costituisce, a sua volta, illecito disciplinare punibile con il licenziamento e segnalazione all’autorità giudiziaria.
[6] Nella vecchia versione, per gli illeciti con sanzione massima pari alla sospensione dal servizio senza retribuzione fino a 10 giorni era il dirigente della struttura a condurre il procedimento, contestando l’illecito al dipendente entro 20 giorni, convocandolo per il contraddittorio con preavviso di almeno 10 giorni, acquisendo l’eventuale istanza motivata di rinvio (con proroga dei termini del procedimento, in caso di differimento superiore a 10 giorni per impedimento del dipendente) e concludendo l’istruttoria con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione. Per gli illeciti con sanzione superiore alla sospensione dal servizio senza retribuzione per più di 10 giorni, invece, la competenza del procedimento si spostava sull’Ufficio Procedimenti Disciplinari, cui il dirigente della struttura era tenuto a trasmettere gli atti entro 5 giorni dalla notizia del fatto.
[7] Nella precedente versione, come già accennato nella nota precedente, il differimento dei termini del procedimento scattava solo se il differimento dei termini a difesa per grave impedimento del dipendente fosse superiore a 10 giorni.
[8] La precedente versione della norma prevedeva che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, i termini per la contestazione dell’addebito o per la conclusione del procedimento, se ancora pendenti, venissero interrotti e riprendessero a decorrere dalla data del trasferimento.
[9] Così il comma 1 dell’art. 55-quinquies: “Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.”
[10] Un esempio recente in tal senso è rappresentato dalla sentenza n. 128 del 17/5/2017 con cui la Procura regionale della Corte dei Conti per la Toscana ha imposto a un dipendente del Comune di Firenze, condannato in via definitiva dal giudice penale per assenteismo (l’interessato era solito recarsi in palestra dopo aver timbrato la presenza in ufficio), un risarcimento per danno d’immagine nei confronti della stessa Amministrazione comunale ben superiore al danno patrimoniale calcolato dalla Procura stessa in base alla retribuzione percepita nelle giornate di ingiustificata assenza.
[11] Tipico esempio di come un Legislatore troppo mediaticamente condizionato si ritrovi poi costretto a scaricare sulla contrattazione la patata bollente della gestione di situazioni border-line che richiederebbero, per essere risolte (anzi per essere largamente e facilmente prevenute) soltanto un po’ di capacità organizzativa, magari suffragata da un minimo di buon senso relazionale. Buon senso del quale, a dire il vero, sembra ora di perdere le tracce di fronte al totem inespugnabile dell’ennesimo procedimento in rampa di lancio, stavolta finalizzato a governare le anomalie... ovviamente, dopo che si sono verificate. Non a caso, d’altronde, l’accordo del 30 novembre 2016 poneva tale problema in stretta relazione con la necessità di introdurre norme contrattuali sul miglioramento dell’ambiente organizzativo, nonché sulla rimozione di tutte le situazioni di disaffezione e demotivazione che, in qualunque ambiente di lavoro, sono alla radice dei comportamenti devianti. Resta da capire come sarà possibile procedimentalizzare attraverso i contratti collettivi nazionali i casi (quasi tutti, del resto) in cui le “anomale assenze” siano supportate da certificazioni mediche o da altri riferimenti legislativi di cui, in sede giudiziaria, non si riesca poi a dimostrare in modo inoppugnabile la falsità o l’applicazione a fini dolosi. Come dimostrano sin troppo chiaramente i recenti esiti giudiziari di taluni clamorosi casi di cronaca avvenuti qualche Capodanno fa.
[12] Peraltro, stando al testo dell’art. 20, i requisiti di cui sopra non implicano l’obbligo che i dipendenti interessati si trovino ancora in servizio nel momento in cui l’amministrazione avvia la procedura di stabilizzazione. Tuttavia, il comma 12 dell’art. 20 precisa (usando una di quelle formule ‘magiche’ che, nella loro indeterminatezza, sembrano già preparare la valanga di contenziosi e di polemiche che ne scaturirà, quando verrà il momento di applicarla) che il personale in servizio alla data di entrata in vigore del decreto 75 (cioè, alla data del 22 giugno 2017) avrà la “priorità” ai fini delle assunzioni.
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