Diritti disponibili e indisponibili del lavoratore
di Giuseppe Patania [*] e Luigi Oppedisano [**]
Introduzione
Come mai le controversie tra lavoratore e datore di lavoro aumentano in tempo di crisi economica? C’è un nesso di causalità tra le due problematiche?
Le controversie in materia di lavoro riguardano i contrasti che nascono tra lavoratori e datori di lavoro in ordine a taluni aspetti derivanti dal rapporto di lavoro, qualora si ritengano lesi diritti sanciti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sia di natura economica che normativa.
Il tema è posto in discussione non al fine di risolvere problematiche così complesse e difficili, per certi versi, ma per stimolare una riflessione intorno all’istituto delle rinunce e transazioni che negli ultimi tempi, soprattutto a causa della nota crisi economica, ha assunto una grandezza considerevole per il numero dei ricorsi che quotidianamente vengono presentati dai lavoratori e trattati dinanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro.
Il delicato istituto delle rinunce e transizioni ci porta a fare un equo distinguo fra diritti disponibili e indisponibili, poiché per l’una e l’altra categoria non valgono le stesse regole.
I diritti disponibili della persona sono quei diritti soggettivi che possono essere trasferiti ad altri, gratuitamente o dietro il giusto compenso in denaro, come per esempio lo è il diritto di proprietà sulle cose poiché il proprietario è libero di vendere le stesse, donarle o addirittura lasciarle in eredità. In tal caso non ci sono dubbi nell’affermare che la proprietà è un diritto disponibile.
I diritti indisponibili della persona sono, in genere, quei diritti che tutelano alcuni valori umani e sociali previsti dalla Costituzione. Tra questi, a titolo di esempio possiamo ricordare i diritti politici (non si può certamente pensare di cedere ad altri l’espressione del proprio diritto di voto), i diritti riguardanti la personalità, come il diritto alla vita, al nome, all’integrità fisica. Non è possibile cedere organi del proprio corpo, salvo per le parti riproducibili e che sono previsti da leggi speciali come reni, sangue, ecc. Inoltre, vi rientrano anche i diritti di natura familiare come il diritto dei figli all’educazione ed al mantenimento. Risulta chiaro e senza alcuna ombra di dubbi che la natura dei predetti diritti rientri tra i diritti indisponibili.
La ricerca è finalizzata ad esaminare i principali diritti, sia essi disponibili che indisponibili del lavoratore, poiché la normativa, in questo campo, solo in presenza dei sindacati o delle autorità amministrative, c.d. sedi protette, come l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, consente di cedere o transigere alcuni diritti.
Nel campo del diritto del lavoro, secondo l’articolo 2113 del Codice Civile[1], il lavoratore non ha la facoltà di sottoscrivere rinunzie e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro scaturenti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi.
La disposizione contenuta dal comma 1 dell’articolo 2113 del c.c. non trova applicazione nel caso in cui le rinunce e le transazioni vengano concluse e firmate in sede c.d. protetta, in ambito giudiziale, sindacale ed amministrativa, dove le stesse sono valutate come tombali, ovvero non più impugnabili.
L’eccezione trova il suo fondamento nel fatto che il lavoratore, per come già evidenziato, è ben protetto nei confronti del datore di lavoro per effetto della presenza di un terzo rappresentato dall’autorità giudiziaria, dal sindacato ovvero dall’autorità amministrativa.
Le rinunce e le transazioni
Diversi possono essere i casi in cui le rinunce e le transazioni di taluni diritti, anche se gli stessi formalmente sono parte di normali verbali di accordo ex articolo 2113 del c.c., non sono validi e quindi soggetti ad essere impugnati ai sensi e nei termini previsti dal secondo comma della suddetta norma.
L’approfondimento oggetto della ricerca riguarda quelle rinunce e transazioni di diritti totalmente indisponibili del lavoratore, perché tutelati costituzionalmente, come il diritto a percepire una retribuzione dignitosa, il diritto al riposo giornaliero, settimanale ed annuale per ferie, ritenuti irrinunciabili ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione. I suddetti diritti, con esclusione del diritto a percepire una retribuzione, sono tutti finalizzati al recupero psico-fisico del lavoratore e, in quanto tali, non possono essere oggetto di rinuncia. La retribuzione minima prevista dai contratti collettivi di lavoro è ugualmente considerata un diritto inderogabile, poiché come già detto, è tutelata dall’art. 36 della Costituzione e come tale non può essere oggetto di rinuncia. Secondo la giurisprudenza qualche lieve dubbio rimane sulla disponibilità a rinuncia del TFR. Ad avviso degli scriventi anche il TFR rientra tra i diritti irrinunciabili poiché tale competenza economica è espressamente prevista e sufficientemente regolamentata dall’art. 2120 del c.c.[2].
Altro diritto indisponibile è quello riguardante il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e premi assicurativi. Il lavoratore, sia esso subordinato che autonomo, non può per nessun motivo rinunciarvi, né tantomeno può esonerare il datore o il committente dall’obbligo del versamento di quanto dovuto agli istituti previdenziali ed assicurativi. La ragione di tale inderogabilità scaturisce dal fatto che il titolare del rapporto assicurativo è un terzo che ha natura pubblicistica (INPS, INAIL o altri istituti) e che pertanto il lavoratore non può assolutamente disporne.
Anche i diritti futuri ed eventuali, secondo la Cassazione[3] fanno parte dei diritti indisponibili del lavoratore. La rinuncia del lavoratore subordinato a diritti futuri è decisamente nulla in base all’articolo 1418 del c.c.
I lavoratori possono fare ricorso allo speciale istituto per la rinuncia e la transazione previsto dall’articolo 2113 del c.c. per chiudere le controversie sorte nel corso di un rapporto di lavoro.
Le rinunce e transazioni sono sottratte al regime dell’impugnativa giudiziale, acquisendo il carattere di definitività, quando si realizzano in sede protetta al punto di garantire la totale assenza dello stato di soggezione da parte del lavoratore.
I diritti previsti da norme inderogabili si presumono garantiti quando gli interessi tra le parti (lavoratore e datore di lavoro) vengono discussi e definiti:
a) In sede giudiziaria – il giudice[4] tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa e, qualora venga accettata, il verbale di conciliazione assume valore di titolo esecutivo.
b) In sede amministrativa
– quando le parti si rivolgono alla Commissione di Conciliazione
istituita presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro[5]. Il legislatore ha messo a disposizione del lavoratore uno nuovo strumento di risoluzione alternativo al tradizionale processo del lavoro. Lo speciale istituto conciliativo è stato previsto per transigere in sede amministrativa questioni di natura retributiva inerenti al rapporto di lavoro. La particolare procedura conciliativa, dal titolo conciliazione monocratica,
è stata prevista dall’articolo 11 del D.Lgs. 23/04/2004, n.124 per dare una consistente risposta all’azione deflattiva delle controversie di lavoro che possono sorgere tra un datore di lavoro ed un lavoratore. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha puntato tanto su tale forma di conciliazione intravedendola come un utile e validissimo “strumento finalizzato alla rapida definizione dei conflitti di lavoro”
[6]. La procedura si svolge dinanzi ad un funzionario dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro che, in tempi abbastanza rapidi, provvede alla convocazione delle parti e fissa la data per la discussione della conciliazione. Nella fase conciliativa le parti possono farsi assistere anche da associazioni o organizzazioni sindacali oppure da professionisti muniti di specifico mandato. Il presupposto fondamentale per attivare la conciliazione monocratica è dato dalla connessione a diritti patrimoniali del lavoratore, siano essi di origine contrattuale o legale. Anche in tal caso il legislatore si è preoccupato di tutelare e garantire il rispetto dei diritti indisponibili del lavoratore, prevedendo la presenza dell’autorità amministrativa. La norma prevede che il verbale di accordo, su istanza del lavoratore, con decreto può essere dichiarato esecutivo dal giudice. Oggi si può certamente affermare che l’applicazione di tale istituto ha prodotto un duplice risultato: valido strumento deflattivo delle controversie individuali di lavoro e ottimo dispositivo deflattivo per i servizi ispettivi del lavoro.
Conciliazione a seguito di diffida accertativa per crediti patrimoniali
– si tratta di un istituto previsto dall’art. 11 del D.Lgs. n. 124/2004 e viene utilizzato dall’ispettore del lavoro ogni qualvolta si trova di fronte ad un datore di lavoro che non eroga la retribuzione ai propri dipendenti.
Conciliazione davanti alla commissione di certificazione
– si tratta di una speciale procedura obbligatoria prevista dall’art. 80 del D.Lgs. n.276/2003 per coloro che intendono impugnare un contratto certificato per erronea qualificazione, per difformità negoziale tra il programma certificato e la successiva attuazione o per vizi nel consenso.
Conciliazione davanti agli enti bilaterali
– lo strumento è stato previsto dall’art. 82 del D.Lgs. n. 276/2003 e fino ad oggi non ha ancora avuto successo.
c) In sede sindacale – quando le parti scelgono di rivolgersi alle strutture sindacali come previsto dal comma 3 dell’articolo 411 del c.p.c.[7].
Al riguardo si evidenzia che la Corte di Cassazione ha pronunciato la nullità delle rinunce e transazioni in caso di mancanza di effettiva assistenza sindacale del lavoratore all’atto della stipula della rinunzia o transazione, assistenza tesa a consentire al lavoratore di individuare coscientemente i diritti oggetto di rinuncia e i relativi vantaggi[8].
Sempre la Corte di Cassazione[9], intervenendo nuovamente sulla problematica ha dichiarato nullo il verbale di conciliazione, redatto in una sede “c.d. protetta” in base all’art. 2113 del c.c. nell’ambito di un licenziamento collettivo poiché il datore di lavoro procedeva all’assunzione di un nuovo lavoratore per svolgere le stesse prestazioni già espletate dal precedente dipendente.
Per la suprema Corte questa condotta del datore di lavoro integra un vero e proprio raggiro, messo in atto attraverso una “condotta di silenzio malizioso” che, insieme al complesso atteggiamento del datore, spinge in errore l’ex lavoratore, convincendolo a rinunciare al posto di lavoro ed a tutti i suoi diritti con un accordo conciliativo, configurandosi così il dolo omissivo previsto dall’articolo 1439 del Codice civile.
Diritti indisponibili del lavoratore
Come già detto, alcuni diritti sono indisponibili per il lavoratore e possono essere oggetto di rinuncia o di transazione. Essi possono essere così riassunti:
- Retribuzione minima tabellare;
- Concessione delle ferie annuali;
- Concessione del riposo giornaliero;
- Concessione del riposo settimanale;
- Contributi previdenziali, assistenziali e premi assicurativi;
- Diritti futuri ed eventuali.
Diritti disponibili del lavoratore
I casi in cui il lavoratore può rinunciare ai propri diritti non sono tanti e possono essere così riassunti:
- Indennità sostitutiva dei periodo di riposo;
- Trattamenti economici derivanti da pattuizioni individuali (c.d. superminimo);
- Periodo di preavviso;
- Retribuzione eccedente i minimi tabellari;
- Risoluzione consensuale;
- Dimissioni, con esclusione di quelle per matrimonio e per maternità;
- Precedenza di riassunzione, entro sei mesi a seguito di licenziamento collettivo per riduzione di personale o licenziamento per giustificato motivo oggettivo (L. n.223/1991);
- Diritto di precedenza entro dodici mesi in caso di cessione di azienda (L. n.428/1990);
- Diritto di precedenza alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale e tempo pieno (D.Lgs. n. 61/2000).
Conclusioni
Per come ampiamente rappresentato, nel panorama giuridico italiano una parte considerevole dei diritti del lavoratore sono a contenuto patrimoniale e, perciò, ascrivibili tra i diritti disponibili. Ne consegue, pertanto, che gli atti di disposizione non sono nulli, ma possono essere annullabili su iniziativa degli interessati che intendono fare valere l’inefficacia degli stessi nel termine di decadenza. Tali termini sono fissati dalla normativa in sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o della transazione.
Il lavoratore ha la facoltà di rinunciare ai diritti conferitogli da norme derogabili di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o dal contratto individuale di lavoro purché tali diritti non provengano da disposizioni inderogabili di legge e di contratti o accordi collettivi. Il problema, molto spesso, sorge perché il lavoratore non sempre è a conoscenza delle suddette disposizioni inderogabili. Proprio per questo la legge ha previsto la particolare tutela in favore del lavoratore riconoscendogli la possibilità di impugnare l’atto di rinuncia e transazione sebbene sottoscritto.
La legge ha previsto due tipi di atti possibili affinché il lavoratore possa svincolarsi dei propri diritti:
- la rinuncia – è un atto personale e consiste nella manifestazione della volontà del lavoratore di non esercitare più un suo diritto;
- la transazione – è un contratto dove le parti decidono di mettere fine ad una lite facendosi reciproche concessioni. In tal caso, i diritti oggetto dell’accordo transattivo devono risultare ben definiti in modo da non dare adito al lavoratore di potere agire in giudizio per fare valere tutti qui diritti che non possono formare oggetto della transazione.
In conclusione, volendo proprio semplificare la problematica affrontata, si può certamente affermare che la legislazione italiana in materia di lavoro presenta le seguenti discipline:
- le rinunzie e transazioni relative a diritti indisponibili che è sanzionata dalla nullità prevista dall’articolo 1966 c.c.[10];
- le rinunzie e transazioni attinenti a diritti inderogabili che, stabilendo un trattamento inferiore al minimo garantito, è caratterizzata dall'annullabilità prevista dal citato articolo 2113 c.c.;
- le rinunzie e transazioni riguardanti quote o porzioni derogabili di diritti inderogabili la cui dismissione non porta il trattamento inderogabile al disotto del minimo garantito è caratterizzata da una validità incondizionata.
Non c’è alcun dubbio, per considerare buona una rinuncia o transazione, che nel corso dello svolgimento delle varie fasi della particolare procedura, il lavoratore sia stato sufficientemente informato e rimasto pienamente consapevole del contenuto e della portata dei diritti di cui dispone e lo stesso deve essere pienamente convinto dell’intenzione di rinunciarvi e tale volontà deve risultare chiaramente dal contenuto dell’accordo transattivo.
Note
[1]
L’articolo 2313 del C.C. prevede: “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide.
L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.
Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile.”
[2] L’articolo 2120 del C.C. prevede: “In ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.
Salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del comma precedente, comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese.
In caso di sospensione della prestazione di lavoro nel corso dell'anno per una delle cause di cui all'articolo 2110, nonché in caso di sospensione totale o parziale per la quale sia prevista l'integrazione salariale, deve essere computato nella retribuzione di cui al primo comma l'equivalente della retribuzione a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro.
Il trattamento di cui al precedente primo comma, con esclusione della quota maturata nell'anno, è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ogni anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5 per cento in misura fissa e dal 75 per cento dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente.
Ai fini dell'applicazione del tasso di rivalutazione di cui al comma precedente per frazioni di anno, l'incremento dell'indice ISTAT è quello risultante nel mese di cessazione del rapporto di lavoro rispetto a quello di dicembre dell'anno precedente. Le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.
[3] Corte di Cassazione – Sezione Lavoro - Sentenza n. 12548 del 14 dicembre 1998.
[4] L’articolo 420 c.p.c. – dal titolo: Udienza di discussione della causa – prevede: “Nell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice.
Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. La mancata conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini della decisione.
Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo.
Se la conciliazione non riesce e il giudice ritiene la causa matura per la decisione, o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione o alla competenza o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio, il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva dando lettura del dispositivo.
[5] L’articolo 410 c.p.c. – dal titolo: tentativo di conciliazione – prevede: “Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall'articolo 409 può promuovere, anche tramite l'associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, un previo tentativo di conciliazione presso la commissione di conciliazione individuata secondo i criteri di cui all'articolo 413.
La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Le commissioni di conciliazione sono istituite presso la Direzione provinciale del lavoro. La commissione è composta dal direttore dell'ufficio stesso o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale.
Le commissioni, quando se ne ravvisi la necessità, affidano il tentativo di conciliazione a proprie sottocommissioni, presiedute dal direttore della Direzione provinciale del lavoro o da un suo delegato, che rispecchino la composizione prevista dal terzo comma. In ogni caso per la validità della riunione è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e almeno un rappresentante dei lavoratori.
La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall'istante, è consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta del tentativo di conciliazione deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante alla controparte.
La richiesta deve precisare:
1) nome, cognome e residenza dell'istante e del convenuto; se l'istante o il convenuto sono una persona giuridica, un'associazione non riconosciuta o un comitato, l'istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede;
2) il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l'azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;
3) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
4) l'esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.
Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale. Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l'autorità giudiziaria. Entro i dieci giorni successivi al deposito, la commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un'organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.
La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai sensi dell'articolo 420, commi primo, secondo e terzo, non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave.
[6] MLPS, circolare 26/11/2009, n. 36.
[7] L’articolo 411 c.p.c. – dal titolo - Processo verbale di conciliazione – stabilisce:
Se la conciliazione esperita ai sensi dell'articolo 410 riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione. Il giudice, su istanza della parte interessata, lo dichiara esecutivo con decreto.
Se non si raggiunge l'accordo tra le parti, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti. Delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio.
Ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso depositato ai sensi dell'articolo 415 devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all'articolo 410. Il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accertatane l'autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.
[8] Corte di Cassazione – Sezione Lavoro - Sentenza n. 24014 del 23 ottobre 2013.
[9] Corte di Cassazione – Sezione Lavoro - Sentenza n. 8260 del 30 marzo 2017.
[10] L’articolo 1966 del c.c. – dal titolo: Capacità a transigere e disponibilità dei diritti – stabilisce: “Per transigere le parti devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite. La transazione è nulla se tali diritti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti”.
[*] Il dott. Giuseppe Patania è Dirigente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro - capo dell’I.T.L. di Reggio Calabria e interim dell’I.T.L. di Cosenza.
[**] Il dott. Luigi Oppedisano è Ispettore del lavoro - responsabile Area operativa vigilanza ordinaria n. 5 dell’I.T.L. di Cosenza.
Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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