Qualche tempo fa si è scritto in merito all’evoluzione storica dello sciopero e giova ricordarne in breve il contenuto, accompagnando l’interlocutore in questo ulteriore contributo.
Lo sciopero ha acquisito la nobile valenza di “diritto” con l’avvento della Costituzione dal 1948, dopo essere stato qualificato prima come “delitto” e poi come mera “libertà”.
Lo sciopero qualificato come “libertà” escludeva la repressione da parte dello Stato (cosa che accadeva, invece, quando era qualificato reato) ma lasciava l’illiceità del fatto sul piano dell’inadempimento contrattuale da parte del lavoratore che si asteneva dal servizio.
Il riconoscimento dello sciopero come “diritto”, dal 1948, determinò una fondamentale innovazione sul piano della responsabilità civile: venne, infatti, eliminato il profilo dell’inadempimento contrattuale. Il lavoratore scioperante può, pertanto, oggi, sospendere l’attività lavorativa senza incorrere nel rischio di un’azione risarcitoria datoriale per inadempimento contrattuale (Trattandosi, invece, di contratto a prestazioni corrispettive, l’astensione dal lavoro per ragioni di sciopero determina la perdita della retribuzione per il periodo non lavorato).
Secondo una data impostazione di dottrina, lo sciopero assumerebbe i caratteri di un diritto di eguaglianza (V. SIMI, Il diritto di sciopero) poiché tramite il suo esercizio si otterrebbe l'effetto di riequilibrare quella posizione di svantaggio in cui il lavoratore si trova nei confronti del datore di lavoro.
Altra autorevole dottrina ha, invece, sostenuto che il diritto di sciopero contiene in sé i caratteri propri di un diritto assoluto della persona, essendo strumento di sviluppo della personalità umana e di emancipazione della condizione di subordinazione ed inferiorità sociale dei lavoratori (L. MENGONI, Lo sciopero nel diritto civile).
Ad ogni modo, come già noto da maggioritaria dottrina, la titolarità del diritto di sciopero è riconosciuta al singolo lavoratore, unico legittimato a decidere se aderire o meno all’astensione collettiva dal lavoro, condividendone o meno le motivazioni.
A tal riguardo, sono da ritenersi altamente discriminatorie e anticostituzionali alcune misure contenute nella Delibera n. 18/95 della Commissione di Garanzia datata 21 marzo 2018. Tale deliberazione modifica la disciplina degli scioperi nel trasporto pubblico locale, incidendo in modo particolare sulla rarefazione (fissando un intervallo minimo di 10 giorni tra un’azione di sciopero e l’altra indipendentemente dalle motivazioni e dal livello sindacale che ha proclamato lo sciopero, sullo stesso bacino di utenza) ed interviene, poi, in via del tutto discutibile, sul Regolamento del Servizio, stabilendo una procedura paradossale e molto limitativa del diritto individuale di sciopero.
Nel dettaglio, viene stabilito che le aziende concorderanno con le RSA/RSU e, ove non presenti, con le articolazioni territoriali delle Organizzazioni sindacali stipulanti il CCNL Autoferrotranvieri, i servizi esclusi dall’ambito di applicazione della disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero.
Riflettendo su questa “esclusione”, la prima eccezione riguarda la silenziosa ma efficace violazione del diritto di sciopero, da qualificare come un diritto individuale del singolo lavoratore; diritto, che, in attuazione di questa delibera, proprio in forza di un futuro accordo aziendale, in base al comparto di appartenenza, non potrà più essere liberamente esercitato dal singolo lavoratore perché, secondo discrezionali apprezzamenti aziendali, quei comparti produttivi potrebbero essere ritenuti non più “degni” di essere autorizzati allo sciopero.
Altra eccezione che si muove contro questa disposizione è quella di svilire, ancora una volta, le storiche innate funzioni dei sindacati sia a livello aziendale che a livello territoriale decentrato. In fondo, la storia del diritto sindacale ci insegna che le grandi organizzazioni sindacali hanno conquistato libertà e diritti soprattutto attraverso forme di protesta e di astensione dal lavoro. Suona come un ossimoro l’idea che le RSA/RSU debbano concordare con l’azienda “i servizi”, alias i lavoratori, che non potranno più aderire allo sciopero in forza di questa nuova disposizione!
Si continuano ad erodere le fondamenta della protesta sindacale, addirittura rendendo il sindacato complice ed autore di un possibile accordo aziendale atto ad escludere specifiche categorie di lavoratori dall’esercizio del diritto di sciopero in quella azienda!
Altra precisazione è che la Commissione di Garanzia “delega” l’individuazione dei comparti esclusi dalla possibilità di scioperare ad un accordo aziendale. Ritenendo lo sciopero un diritto individuale, andrebbe considerato anche come diritto indisponibile in quanto esso viene esercitato per esternare la propria legittima ed irriducibile libertà di opinione anche su violazioni contrattuali gravi, come la violazione dell’articolo 2087 del codice civile, norma di chiusura del sistema obbligatorio sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, prevenzione e protezione sottesa alla salvaguardia della vita e salute del lavoratore. In sostanza, il diritto costituzionale di scioperare non può essere modificato nè limitato da una fonte pattizia, addirittura di secondo livello!
Per quanto concerne, invece, le causali che legittimano lo sciopero, esse
sono state via via riconosciute dalla giurisprudenza ed in particolare
dalla Corte Costituzionale. Si è tracciata una sorta di linea di
distinzione tra sciopero per motivi contrattuali e sciopero per motivi non
contrattuali.
Negli anni, infatti, la tutela concessa non è rimasta circoscritta alle sole rivendicazioni di indole meramente salariale-economica ma si è estesa anche a quelle riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori che trovano disciplina anche nelle norme racchiuse sotto il titolo “Rapporti Economici” della Costituzione italiana.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 290 del 1974 sancì che «la punizione dello sciopero, quale che sia la sua finalità, trova la sua più profonda, più vera motivazione, nella logica di un assetto costituzionale repressivo di ogni libertà e in una concezione del rapporto di lavoro non conciliabile con quella che risulta da vari articoli della Costituzione».
Pertanto, nel diritto di sciopero tutelato costituzionalmente “rientrano sicuramente gli scioperi proclamati in funzione di tutte le rivendicazioni riguardanti il complesso degli interessi dei lavoratori, che trovano disciplina nelle norme poste sotto il titolo terzo della parte prima della Costituzione. Vi rientrano, dunque, anche gli scioperi che, caratterizzati dal fine di tutelare interessi che possono essere soddisfatti solo da atti di governo o da atti legislativi”, per questo definiti scioperi politici.
Va ricordato che il Titolo III, Costituzione, tra tanti, menziona i sacrosanti nobilissimi principi secondo cui
Nell'ambito dello sciopero per motivi economici e politici è stato
affermato, in relazione all'intervento militare italiano nella regione del
Kosovo, che «lo sciopero per fini non contrattuali consistenti nel
contrasto e nell'opposizione all'invio di un contingente militare dello
Stato italiano sul territorio di altri popoli è legittimo e lecito sul
piano non solo penale, ma anche civile», rappresentando esercizio del
diritto sancito dall'art. 40 della Carta Costituzionale (Cass. 21 agosto 2004, n. 16515
, confermativa di App. Torino,
16 luglio 2001).
L’unico limite posto dalla Corte Costituzionale è che lo sciopero non debba essere diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale, nel qual caso, quindi, la punizione dello sciopero sarebbe chiaramente legittima.
Inequivocabile che lo sciopero dei lavoratori è legittimo se realizza un’astensione dal lavoro intesa a tutelare un interesse professionale collettivo dei lavoratori e non se persegue finalità pretestuose e il soddisfacimento di contingenti esigenze di singoli dipendenti.
Bisogna ritenere che le violazioni dello Statuto dei Lavoratori che minano la libertà di un rappresentante sindacale possano fondare una idonea causale per aprire le procedure di sciopero, riflettendosi sulla collettività dei lavoratori gli effetti limitativi dell’azione sindacale del singolo, considerando anche che ai sensi dell’articolo 15, Statuto dei Lavoratori, è nullo qualsiasi patto o atto diretto a (...) : B) licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione a uno sciopero.
Il rappresentante sindacale che nell’esercizio delle sue funzioni denuncia pubblicamente la scarsa sicurezza nei luoghi di lavoro e i gravi rischi per la sua ed altrui incolumità non può essere sospeso nè licenziato. Quandanche ciò si verifichi, il sindacato di appartenenza legittimamente non solo ha tutte le ragioni per aprire vertenza sindacale collettiva per la sicurezza, non garantita ai sensi del d.lgs. n. 81/08, ma anche per le violazioni dello Statuto dei Lavoratori che determinano vera e propria condotta antisindacale, nel senso di avere impedito e limitato l’esercizio della libertà ed attività sindacale con l’allontanamento di un suo rappresentante.
Non deve sfuggire, infatti, che il legislatore scientemente non ha fissato nella norma gli elementi tipici per “identificare” la fattispecie della condotta antisindacale. Ha, invece, optato per la formula “aperta” e, pertanto, in essa è possibile inserire le più svariate casistiche fattuali. Per esempio, la giurisprudenza ha individuato casi di condotta antisindacale del datore di lavoro in simili azioni:
Ora benché la sospensione ovverosia il licenziamento del rappresentante
sindacale non siano configurabili come presunzioni di condotta
antisindacale, è chiaro che gli elementi fondanti queste misure datoriali
dovranno essere volta per volta esaminati e valutati alla stregua di una
interpretazione discriminatoria ovverosia alla stregua della effettiva
esistenza del giustificato motivo oggettivo/soggettivo della misura
adottata[1].
In linea generale la giurisprudenza è nel senso di confermare l’indirizzo secondo cui per giudicare antisindacale il licenziamento del rappresentante sindacale posto in essere dal datore di lavoro bisogna provare l'uso discriminatorio e strumentale del potere disciplinare da parte di quest’ultimo, che avrebbe lo scopo di ostacolare l'attività sindacale del lavoratore all'interno dell'azienda (Trib. Milano, 27 settembre 2001). Prova dell’intento discriminatorio che può essere ricavata anche sulla base di presunzioni – gravi e concordanti – in conformità della previsione dell’art. 2729 cod. civ. che regola il valore probatorio delle presunzioni semplici (Cass. 1° settembre 2000, n. 11487).
[1] Il licenziamento di una RSA non costituisce di per sé condotta antisindacale, nemmeno in caso di pretesa insussistenza del GMO addotto – Tribunale di Catania, decreto 24 dicembre 2016. Nel caso di specie, il Tribunale ha respinto il ricorso del sindacato di appartenenza di una RSA, licenziata per soppressione della posizione lavorativa, non essendo stata offerta la prova di alcun preteso intento discriminatorio ai danni del sindacalista e, men che meno, di un pregiudizio subito dal sindacato ricorrente alla propria attività in azienda. I pretesi motivi di illegittimità del licenziamento, sotto il profilo della asserita insussistenza del giustificato motivo oggettivo, sono stati ritenuti ininfluenti potendo al più comportare l'applicazione della tutela ex art. 18 St. Lav. riconosciuta al singolo lavoratore licenziato.
[*] Consulente del Lavoro, www.sibillaconsulting.com. La Dr.ssa Gianna Elena De Filippis ha vinto nel 2012 il Premio Massimo D’Antona.
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