Le politiche di conciliazione vita-lavoro sono misure volte a facilitare le
esigenze di vita con il lavoro ed inizialmente erano rivolte, in via
esclusiva, alle donne perché queste ricoprivano (e ricoprono) il doppio
ruolo di lavoratrici all’esterno e di madre/moglie/figlia all’interno della
famiglia. Di recente, si è sviluppata l’idea, forse meno discriminatoria,
di non considerare più le politiche di conciliazione in un’ottica di genere
o di pari opportunità, sebbene sia ancora e soprattutto la donna – atteso
il secolare doppio ruolo – ad avere più ostacoli a svolgere attività
lavorativa soprattutto di fronte ad orari di lavori rigidi, non
modificabili ed in presenza di situazioni familiari che richiedono il
prendersi cura di una persona (figlio, genitori anziani, invalidi, etc.).
Questi impedimenti talora diventano insuperabili laddove c’è assenza o
carenza di servizi dedicati alla cura delle persone: dagli asili nido alle
case di cura e riabilitazione oppure se gli stessi risultano a pagamento di
fronte a una bassa remunerazione.
Le politiche di conciliazione possono agire su diversi livelli in relazione ai soggetti coinvolti: singoli individui (scelte, relazioni e bisogni familiari e personali differenziate); le aziende/organizzazioni del lavoro alle quali sono richieste politiche aziendali; la città e il territorio con il complesso dei servizi erogati dal pubblico dal privato e dal non profit. Anche gli ambiti di intervento possono essere diversi: dalla contrattazione e, quindi, condivisione di percorsi mirati a sostenere la conciliazione; dai servizi di cura e di assistenza alla persona.
Nel 2015 il legislatore, nel recepire tali esigenze, in attuazione alla
legge 183/2014 (cd. Jobs Act) ha emanato il Decreto Legislativo 80/2015
recante “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di
lavoro” dove vengono apportati correttivi per la tutela della maternità e
della paternità dedicando attenzione anche alle donne vittime della
violenza domestica. Gli artt. 25 e seguenti sono dedicati alla Destinazione
di risorse alle misure di conciliazione tra vita professionale e vita
privata e alle fonti di reperimento. Una quota pari al 10 per cento delle
risorse del Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi è destinata,
in via sperimentale, per incentivare la contrattazione di secondo livello
per incoraggiare misure di conciliazione.
Probabilmente è ancora presto per conoscere gli effetti del dettato normativo e l’analisi dell’impatto delle eventuali misure adottate richiede approfondimenti e ricerche “ad hoc” sul tema. Ma alcuni studi hanno dimostrato che circa il 66% delle donne non può modificare l’orario di entrata e di uscita dal lavoro e una quota molto modesta, se confrontata con il resto dei Paesi dell’Unione Europea, dispone di una banca delle ore con la quale può fronteggiare le necessità familiari, soprattutto quelle impreviste. Solo il 29% delle lavoratrici italiane utilizza il part time, a fronte della media europea del 32%, ma per la metà di loro non è una scelta volontaria; spesso questo contratto a orario ridotto nasconde il lavoro parzialmente non regolare. Solo poche aziende innovative italiane stanno sperimentando modelli organizzativi realmente flessibili che consentano, nonostante i picchi e le flessioni della domanda siano sempre meno prevedibili.
Il congedo parentale è poco utilizzato in Italia perché è
scarsamente retribuito (al massimo il 30% dell’ultima retribuzione),
diversamente da quanto accade nei paesi del Nord Europa. Cosa accade nel
lavoro pubblico? C’è da dire che quasi la totalità dei contratti ha
previsto forme di flessibilità dell’orario di lavoro sia in entrata che in
uscita; così come sono stati previsti permessi retribuiti e
tipologie/articolazione dell’orario di lavoro quali il part-time; la banca
delle ore e la possibilità di ricorrere al congedo. L’applicazione di
questi istituti varia da comparto a comparto e da amministrazione ad
amministrazione e sovente anche tra le diverse professionalità nell’ambito
della stessa organizzazione. Tipico esempio è la differenza applicativa che
si può registrare tra uffici territoriali della stessa amministrazione
allorquando l’accordo decentrato o di posto di lavoro, pur muovendosi in
riferimento alla contrattazione e all’accordo nazionale, porta a tener
conto di esigenze specifiche di quel posto e ad adottare in modo diverso lo
stesso istituto. È fuor di dubbio che l’orario di lavoro, nella sua
interezza, è una misura atta a favorire la conciliazione vita-lavoro e
sarebbe interessante, a tal proposito, effettuare un’analisi – magari
comparata- su quanto avviene nel pubblico impiego. Infatti, sebbene i
dipendenti pubblici, rispetto a quelli privati, hanno avuto ed hanno meno
difficoltà - almeno formalmente – a recepire norme in favore delle
politiche di conciliazione, è altrettanto vero che in alcuni uffici
pubblici spesso si esprime un malcontento piuttosto diffuso e malcelato tra
le lavoratrici ed i lavoratori proprio in riferimento alla mancata o
carente possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro. Perché? Di
risposte se ne possono dare tante anche in base alle proprie prospettive di
analisi.
A mio avviso la risposta è piuttosto semplice: non si usano
adeguatamente gli strumenti previsti dalla contrattazione e dalla Leggi di
riferimento o, ancor più semplicemente, non si è in condizione di usarli..
Il Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali e di riflesso anche
l’Ispettorato Nazionale del Lavoro con le sue diramazioni territoriali, ad
esempio, non utilizzano appieno tutti gli istituti previsti in materia di
tipologia oraria. Si pensi, ad esempio, al multi periodale che è rimasto
solo sulla carta. In materia di flessibilità di entrata ed uscita in alcune
città, anche metropolitane, è di portata ridotta, poco estesa. Ma la chicca
sulla torta è rappresentata dalla tipologia di orario articolata su 7 ore e
12 minuti giornalieri con 5 rientri settimanali. Per motivi di “costi”,
soltanto il 30% del personale in servizio in un dato ufficio potrà
svolgere, su richiesta, questo orario Per potervi accedere, il dipendente
dovrà dunque presentare una domanda scritta. Se il numero dei richiedenti è
superiore al 30% del numero totale dei lavoratori in organico,
l’amministrazione locale redigerà una graduatoria basandosi su criteri
individuati da un accordo integrativo di amministrazione, nel 2002. Detti
criteri sono ormai obsoleti e, in alcuni casi, anche inappropriati in
considerazione del fatto che proprio chi ha difficoltà di vita riesce ad
essere tra i primi in questa graduatoria rimanendo invero 1 ora e 30 minuti
in più in ufficio rispetto a chi fa soltanto 2 rientri. Questa
differenziazione pone le basi per una disparità di trattamento con
ripercussioni anche sull’organizzazione del lavoro e sugli orari di
apertura al pubblico nelle ore pomeridiane. Ma perché non fare l’esatto
contrario? Cioè prevedere, per questi uffici, un orario per tutti
articolato su 7 ore e 12 minuti con 5 rientri settimanali e chi ha serie
difficoltà, potrà fare richiesta per un orario di lavoro articolato con 2
rientri pomeridiani? In tal caso si garantirebbero i diritti di quanti
hanno necessità personali e/o familiari o svolgono attività di volontariato
e, nel contempo, l’amministrazione potrebbe garantire l’apertura al
pubblico tutti i giorni della settimana. È circolata, recentemente
l’ipotesi di una proposta di orario di lavoro per il personale
amministrativo che – in riferimento alla tipologia articolata su 5 rientri
settimanale- aumenta la soglia massima di personale che potrà usufruirne
(dal 30 al 50%), mentre tutto il resto appare invariato. Sempre in materia
di orario si fa riferimento a 4 orari di lavoro a seconda dell’area
professionale di appartenenza. Personale amministrativo, personale
ispettivo che svolge attività esterna, personale dell’area legale e del
contenzioso che svolge attività esterna. Pur consapevole che ci sono
specificità professionali, come quella degli ispettori del lavoro, che
vanno riconosciute e supportate a garanzia del servizio che rendono, non
bisogna trascurare l’esigenza di conciliare vita-lavoro per tutto il
personale ivi compreso quello ispettivo. È altrettanto necessario porre un
freno alle disparità di trattamento che si rinvengono sia tra il personale
afferente agli uffici dell’INL (la ormai annosa dicotomia
ispettore/amministrativo) che quelli che si rinvengono tra il personale
afferente all’INL con quelli afferenti all’INPS e all’INAIL che svolgono
attività ispettive.
Il sussistere di un clima competitivo malsano in luogo
di un clima collaborativo cozza con l’obiettivo di svolgere il migliore dei
servizi possibili all’utenza e con un adeguato raggiungimento degli
obiettivi conseguibili (contrasto a forme illecite ed illegali del mercato
del lavoro e tutela dei lavoratori) dall’Ispettorato del Lavoro. Anche
nelle contrattazioni di amministrazione va evitato, per quanto possibile,
di inserire elementi di disparità di trattamento che oltre ad essere
inutili potrebbero aggravare la sensazione di malessere perdurante nei
nostri uffici dove ancora oggi, per il personale non ispettivo, non si
riesce a tracciare un percorso di valorizzazione magari prevedendo, per chi
ne ha i requisiti, la possibilità di svolgere attività ispettive anche
senza l’accesso aziendale (tipo verifiche a tavolino). Negli uffici di INPS
ed INAIL, che non sono certo privi di problemi, la valorizzazione passa
attraverso la possibilità di ricollocazione professionale e di progressione
economica propri lavoratori senza attendere tempi biblici, ma anche e
attraverso un orario di lavoro che viene definito, non a caso, europeo
proprio a rimarcare le esigenze organizzative con quelle di vita di chi vi
lavora. Ebbene sarebbe giunta l’ora che anche per l’agenzia voluta dal
Legislatore con il D.Lgs 149/2015 e operativa dal gennaio 2017 faccia
intravedere effetti positivi anche in materia di benessere organizzativo
del personale tutto.
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona
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