Torniamo a parlare da queste colonne, a distanza di oltre un anno dall’uscita del n. 17 di questa rivista della Fondazione D’Antona, dell’argomento Caporalato, anche in ragione dei recentissimi accadimenti luttuosi di questo agosto 2018, che hanno riguardato la perdita di molte vite umane di lavoratori immigrati.
Ci riferiamo a quanto avvenute sulle strade del meridione, in provincia di Foggia, durante il trasporto da e per i campi di raccolta dei pomodori, a causa di gravissimi incidenti stradali che ha visto coinvolti furgoni scarsamente sicuri all’uopo utilizzati da caporali, ed anzi appositamente adattati dagli stessi per aumentare la capacità numerica di trasporto, collocandovi panche di seduta al posto dei regolari e omologati spazi con sedili.
Automezzi vetusti in uso, manutenuti approssimativamente nella quasi totalità in assenza di coperture assicurative e di documenti di proprietà e di circolazione regolari, frequentemente con targhe estere della Bulgaria, Romania, Albania, Macedonia, e altri Paesi dell’Est Europa e quindi al di fuori e non censiti nei nostri registri automobilistici.
Lo sfruttamento del lavoro immigrato, ma non solo, in ambito del settore agricolo, come pure in quello dell’edilizia e della logistica, sotto forma del cosiddetto fenomeno del caporalato, sta evidentemente assumendo connotati di vera e propria emergenza nazionale. Ciò è in parte spiegabile con il fatto che alcune attività lavorative, particolarmente faticose e scarsamente gratificanti, vengono svolte utilizzando, sempre più, manodopera immigrata, sia regolare che irregolare, presente nel nostro Paese, grazie pure ad un costante flusso di immigrazione proveniente sia dai Paesi dell’Africa nord e sud sahariana, che dall’est europeo, come pure dai Paesi orientali, che ormai da oltre un ventennio rappresenta una costante capace di fornire quel bacino di forza lavoro utilizzato da imprese ed aziende dell’occidente sviluppato e quindi anche dall’Italia.
Per avere un quadro più dettagliato del fenomeno su cui stiamo argomentando, di grande aiuto risulta essere il contributo offerto dall’Osservatorio “Placido Rizzotto” della Flai-Cgil che periodicamente presenta un proprio rapporto scientifico su questo tema, vale a dire anche su Agromafie e Caporalato, nonché svolgimenti e approfondimenti con focus sull’economia illegale nel settore agro-alimentare.
Preliminarmente è bene sottolineare come questo 4° ultimo rapporto confermi, sostanzialmente, scenari simili ai precedenti rapporti, tenendo conto anche di quanto fin qui prodotto dalla nuova normativa di settore, approvata da quasi due anni, vale a dire la legge n. 199/2016, contro i fenomeni del lavoro nero e dello sfruttamento del lavoro in agricoltura. Il giro di affari stimato in questo ultimo anno ammonterebbe a circa 5 miliardi di euro.
Secondo il dossier in questione i lavoratori agricoli oggetto di “ingaggio” irregolare e quindi sotto caporale sarebbero tra i 400 e 430 mila; più di 130 mila vivono in condizioni di vulnerabilità sociale.
Ammonterebbero a più di 300 mila lavoratori agricoli, circa 1/3 del totale degli addetti, che lavorerebbero meno di 50 giornate all’anno.
Dato allarmante che emerge dal rapporto riguarda la stima che quantifica in oltre 30 mila il numero di imprese che ricorrerebbero alla intermediazione illecita di manodopera tramite le figure dei caporali, ossia ¼ del totale delle aziende del territorio nazionale.
E sottolineo nazionale in quanto la piaga del Caporalato, è ormai appalesato, non vede esclusa nessuna parte del nostro Paese, anche se forse nel meridione d’Italia questa pratica di illecita intermediazione del lavoro si data più lontano del tempo e con ramificazioni più articolate e profonde.
La mappa delle Regioni del nostro Paese dove lo strumento del caporalato assume indici di rilevante gravità risulta sempre più vasta. Come detto sopra, non solo quindi le storiche Regioni del meridione come: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, ma anche e sempre più diffusamente è presente in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Toscana; territori tutti accomunati da uno sfruttamento selvaggio, dove i lavoratori non hanno nessuna tutela, nessun diritto garantito da contratti e da leggi, nessun welfare. Dove la paga varia tra 2 e 4 euro l’ora, vale a dire 20/30 euro al giorno svolgendo dalle 8 alle 12 ore di lavoro continuativo giornaliero. Situazione questa se possibile ulteriormente negativa per le lavoratrici donne, anch’esse oggetto di sfruttamento da parte dei caporali, ma penalizzate maggiormente, da paghe inferiori anche del 20% rispetto agli importi già inadeguati corrisposti agli uomini.
Non secondario, rispetto ad uno sfruttamento immorale, il fatto che vengano sottratti a questi lavoratori il costo del trasporto da e per i terreni agricoli, in media 5 euro al dì. Come pure il costo che i lavoratori si vedono decurtare dalle paghe percepite, già da fame, relativo all’acqua 1,5 euro o per un panino circa 3 euro.
Altro dato significativo emerso nel rapporto annuale risulta che nel 2017 a fronte di circa 1.000.000 di addetti in agricoltura, regolari, i cittadini immigrati lavoratori sono complessivamente oltre 280.000 vale a dire quasi 1/3, ripartiti sostanzialmente al 50% tra comunitari e non comunitari.
Con questi dati è di tutta evidenza come in questo comparto produttivo il lavoro immigrato risulti essere elemento fondamentale e irrinunciabile, almeno quello bracciantile. Ovviamente tale situazione non deve confondersi come il bisogno altrettanto indispensabile di disporre di forza lavoro “regolare” sia essa autoctona che immigrata.
Lo Stato di diritto non può e non deve consentire lo sfruttamento di uomini al limite della schiavitù, con l’aggravante dello stato di bisogno e principalmente coloro che soggiacciono in quanto presenti irregolarmente nel nostro Paese.
In primo luogo si dovrebbe quindi comprimere, alla radice, quel bacino di forza lavoro irregolare immigrata, attuando politiche chiare di contrasto alla malavita, contestualmente al deciso e legale controllo delle frontiere marittime e terrestri, limitando in tal modo un uso indiscriminato di uomini e donne in stato di bisogno, facile preda di organizzazioni criminose, come pure di imprenditori unicamente asserviti al mero guadagno e agli utili basati principalmente sullo sfruttamento lavorativo.
Sempre la ricerca qui menzionata si sofferma sull’economia illegale di settore, successivamente all’applicazione della già citata legge 199/2016 contro il caporalato.
Nel Paese l’economia “non osservata” è stimata in oltre 200 miliardi di euro, il lavoro irregolare vale circa 77 miliardi e incide per il 15% circa sul valore di comparto agricolo. Come detto sopra il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura assommerebbe a circa 5 miliardi. L’evasione contributiva si avvicina a circa 2 miliardi di euro.
Un discorso a se stante va fatto relativamente al contesto dove si inserisce agevolmente e si ramifica il fenomeno qui trattato del caporalato. L’ambiente naturale è rappresentato da quelle masse di lavoratori immigrati e specialmente quelle irregolari soggiogate da violenze, minacce, intimidazioni, e se donne spesso anche vittime di ricatti sessuali e ogni sorta di vessazioni.
Uomini e donne che vivono in stato di assoluto degrado assiepati in baraccopoli o tendopoli in assenza di servizi igienici, corrente elettrica, acqua potabile, in definitiva vere e proprie condizioni disumane.
Ma questioni parallelamente rilevanti possono evincersi anche dalla eccessiva diffusione dei sodalizi cooperativi non propriamente genuini, mi riferisco alle cosiddette “cooperative spurie”, dove il criterio fondamentale della “mutualità” diffusa viene declinato impropriamente in gestione aziendalistica dove la partecipazione alle scelte aziendali e alla condivisione dei risultati economici è assente, da parte appunto di tutti i soci, e anzi questi pur essendo figurativamente appartenenti al corpo sociale risultano svolgere di fatto funzioni da puri lavoratori dipendenti. Come pure i componenti dell’organo direttivo o CdA, così come il presidente, solo fittiziamente risultano soci di queste Coop. definibili spurie, ma di fatto assurgono a ruoli decisori e quindi di effettivi imprenditori e titolari di azienda.
Molto frequentemente queste cooperative (non cooperative) alle loro azioni illecite assommano anche la fornitura di manodopera, in maniera illegittima, usando proprio il sistema della “somministrazione” illecita e non consentita.
Altro punto caldo, rispetto alla pervasività del sistema caporalato, è rappresentato dalla capacità di infiltrazione delle varie mafie, interne ed esterne, (quali Bulgara, Rumena, Albanese) che allungano i loro tentacoli fin dentro il circuito dei “centri di accoglienza” o anche centri di identificazione ed espulsione, dove reperire stranieri privi di permesso di soggiorno, ovvero immigrati in attesa dello status di rifugiati o anche richiedenti asilo, è gioco facile, soprattutto per la loro evidente disponibilità e ricattabilità.
È proprio una attenta riflessione su questi aspetti che dovrebbe condurci alla consapevolezza che una efficace lotta al caporalato deve poter essere condotta sul campo. Bisogna poter incidere, per così dire, sulle relazioni umane che si creano sul lavoro e per il lavoro.
Esiste anche una oggettiva stratificazione culturale che in un certo senso “giustifica” il caporalato (bianco), quand’anche non connotato da intollerabili e ingiustificabili comportamenti vessatori, violenti, oppressivi, inumani, che però sempre più frequentemente emergono dai report sulle azioni condotte dagli uomini delle forze dell’ordine e delle istituzioni che contrastano questa piaga.
I maggiori risultati che si ottengono, è facile immaginarlo, sono strettamente connessi con la capacità di ribellarsi allo sfruttamento selvaggio, attuato con metodi schiavistici nei confronti di uomini e di donne utilizzati nelle nostre campagne, e quindi fare denunce presso l’Ispettorato del lavoro ovvero presso le stazioni dell’Arma dei Carabinieri o comandi della Guardia di Finanza o uffici della Polizia di Stato.
Esiste anche, è bene dirlo, tra chi fa impresa agricola, un approccio di tolleranza al fenomeno, che ha evidenti radici culturali, dove sovente il caporalato (quello sopra indicato coraggiosamente e forse impropriamente bianco) si giustifica nella misura in cui lo stesso riesce ad incardinarsi nelle organizzazioni della filiera di settore, come elemento necessario.
Reperire manodopera alla bisogna, a secondo degli andamenti climatici, produttivi, economici, risulta essere elemento determinante per le imprese agricole. Organizzare il lavoro nei campi, controllare le squadre di raccolta, governare i quantitativi di produzione, e altro, possono risultare tutti incarichi che si delegano inopportunamente alle cosiddette “figure di riferimento” quali proprio i caporali.
In questo contesto una possibile “emancipazione” da parte delle sottostanti masse di braccianti agricoli (quando sfruttati all’inverosimile) deve rappresentare obiettivo comune per tutti gli attori in campo.
In questo considererei cruciale il nesso tra legalità diffusa e lotta al fenomeno caporalato. Queste forme di sfruttamento hanno avuto la capacità di far perpetuare ed amalgamare sistemi “arcaici” di procacciamento di forza lavoro, ricorrendo alla figura dei cosiddetti storici “mediatori-sensali” da parte dei proprietari terrieri latifondisti, principalmente presenti fin dall’800, e in epoca moderna con un sistema incrementatosi dopo il secondo dopoguerra, in particolare nel mezzogiorno d’Italia, con nuove forme di intermediazione illecita di manodopera. Ciò è avvenuto mettendo in atto “attività” con organizzazioni e metodi criminali che hanno saputo infiltrare, in maniera globale, le grandi produzioni e filiere agro-alimentari, pervadendo in tal modo, nel nostro caso l’intero territorio nazionale, canalizzando e gemellando, saldandosi, sodalizi malavitosi interni ed esterni.
Per tali ragioni osserviamo, avendone diretta conoscenza, che le varie Direzioni distrettuali antimafia, come pure la stessa Direzione nazionale, siano impegnate in una strenua e capillare lotta sempre più concentrata a debellare il fenomeno caporalato, ma più in generale il sistema connesso delle così definite “Agromafie”.
Da questo osservatorio previlegiato della Direzione antimafia è facile quindi esaminare come il sistema articolato di sfruttamento della forza lavoro in agricoltura, nel nostro Paese, si sia profondamente ramificato ed anzi in più casi si è potuto accertare che sempre più spesso opera un “sistema multiplo di caporali” in stretta connessione tra loro e con connessioni e contaminazioni con clan e famiglie mafiose, dove si canalizzano intese per attuare una sorta di “transumanza” stagionale e settoriale di braccia, al fine di sfruttare forza lavoro a prezzi irrisori, ricorrendo senza remore anche a sistemi di vero e proprio neo schiavismo.
È quindi in questo ambito che vanno concentrati ogni utile sforzo promuovendo sistemi di “tutela e protezione” per coloro (ancora troppo pochi siano lavoratori che imprenditori) che trovano il coraggio per denunciare presso le Istituzioni tali forme estreme di sfruttamento e oppressione dei lavoratori.
Continuando nelle nostre riflessioni giusto rilievo deve destinarsi alla consapevolezza delle istituzioni che il fenomeno caporalato muove nel nostro paese centinaia di migliaia di braccianti sia uomini che donne. Lavoratori per lo più stranieri sia comunitari che extracomunitari, ma anche autoctoni, molto spesso provenienti come detto dall’Africa, da est europeo e oriente. Tutti sono accomunati da un estremo stato di bisogno e per questo costretti a vivere (soprattutto gli stranieri) in condizioni disumane presso accampamenti di fortuna quali veri e propri ghetti ma anche casolari fatiscenti e abbandonati disseminati nelle campagne.
È opportuno anche rammentare come a livello di Prefetture, al fine di attivare efficaci politiche territoriali di contrasto al caporalato, si siano costituite apposite “cabine di regia” necessarie in primo luogo proprio per monitorare i flussi migratori della manodopera presenti in ambiti provinciali e regionali.
Tali cabine vedono operare insieme le organizzazioni sindacali, le parti datoriali e di rappresentanza di categorie, l’ispettorato del lavoro, le aziende sindacali, le associazioni di volontariato, le Caritas, la Croce Rossa, le forze dell’ordine, le istituzioni locali, e ovviamente con il coordinamento dei Prefetti.
Esempi in tal senso, quali buone pratiche, sono proprio le Prefetture maggiormente interessate dal fenomeno ossia: Foggia, Potenza, Taranto, Reggio Calabria, Lecce, Caserta, solo per citarne alcune.
Giusto sarebbe quindi un più stretto collegamento tra le varie realtà operanti con queste “cabine di regia” territoriali, al fine di condividere con un proficuo scambio di notizie, in funzione di buone pratiche attuate, tali esperienze.
Uno dei punti critici comunque emersi nelle sopra menzionate cabine di regia prefettizie, è sicuramente il fattore “trasporto” della forza lavoro per raggiungere gli appezzamenti di terreni coltivati. Gli ultimi tragici accadimenti avvenuti nello scorso mese di agosto, sulle strade del territorio Foggiano, dove hanno perso la vita, in due distinti incidenti, ben 16 braccianti, ne sono l’esempio plastico.
Furgoni, autovetture, van, pulmini, vengono usati in modo massivo nel trasporto delle persone da parte dei caporali. Mezzi inadeguati, fatiscenti, riempiti all’inverosimile, con adattamenti che ne aumentano la capienza di fatto. Non dotati evidentemente di polizze assicurative come pure di regolari documenti di proprietà e circolazione. Insomma, delle vere e proprie trappole mortali che si aggirano soprattutto in strade secondarie sterrate di campagna, per eludere appositamente i controlli da parte delle forze dell’ordine. Quelli che si riescono ad intercettare e fermare e sovente a requisire sono di fatto una minima parte; qui si dovrebbero pertanto intensificare e concentrare tutti gli sforzi possibili per i sequestri conseguenti.
Sempre per menzionare delle buone pratiche, presenti tra le Istituzioni pubbliche, finalizzate al contrasto efficace del Caporalato, mi preme menzionare, essendone stato, chi scrive, uno dei protagonisti, il Protocollo d’intesa sottoscritto lo scorso luglio 2018, voluto dalla Procura della Repubblica di Matera, approvato unitamente con: Ispettorato del lavoro di Potenza e Matera, Inps, Inail, Comandi Provinciali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.
Con tale Protocollo si intende contrastare, in maniera più cogente, il fenomeno del Caporalato, particolarmente diffuso nella provincia di Matera, nel settore agricolo e che vede quindi molto esteso anche il fenomeno dell’utilizzo dei lavoratori extracomunitari spesso occupati irregolarmente e/o sfruttati.
Data la gravità della situazione è apparso indispensabile, con tale atto di intesa, uniformare la condotta da assumere da parte dei funzionari di vigilanza civili e militari, nonché assicurare il coinvolgimento costante e metodico, per specifici profili di competenza, Carabinieri, Guardia di Finanza, Istituto Previdenziale e Assicurativo, nonché Ispettorato del lavoro, segnalando tempestivamente, ed in maniera puntuale, alla medesima Procura della Repubblica, i possibili risvolti di natura penale riscontrati durante le attività di Polizia Giudiziaria svolte.
Altro aspetto di rilevante impatto per contrastare efficacemente la piaga caporalato è rappresentato da un più accorto e reale governo della “rete dei centri di accoglienza” migranti, ovvero i centri di ospitalità per rifugiati richiedenti asilo.
Questi luoghi rappresentano evidentemente, un bacino di riferimento per poter attingere a quella forza lavoro, a bassissimo costo, (necessaria comunque per il nostro sistema agricolo) sfruttando lo stato di reale bisogno e quindi anche la conseguente ricattabilità degli immigrati in attesa di regolarizzare le loro posizioni col rilascio di documenti di soggiorno.
È qui il caso ricordare che specificamente per i richiedenti asilo, comunque è prevista la loro “occupabilità” trascorsi almeno 60 giorni dalla relativa istanza presentata alle nostre autorità.
Riterrei ora azzardare una affermazione forte, ossia che il Caporalato e il suo contrasto, in senso ampio, non può legarsi esclusivamente alla coesistente emergenza immigrazione, che vive da alcuni anni il nostro Paese, anche se il tema immigrazione e controllo delle frontiere assurge a fondamentale elemento politico, sociale ed economico per il governo della nazione.
Si tratta infatti, altresì, di affrontare le questioni legate al salario o più precisamente al sotto salario ossia ai trattamenti retributivi minimi previsti dai contratti collettivi di lavoro di settore, nazionali come pure provinciali. Ciò ovviamente senza distinzioni tra lavoratori stranieri o autoctoni.
Il rispetto dei contratti per tutti, rimane l’unico presidio a garanzia per le tutele individuali e collettive. Lo sfruttamento del lavoro, sovente, non ha distinzioni di nazionalità, razza, colore, genere, religione, è solamente “atitolato” e privo di qualsivoglia etica o moralità.
A puro scopo divulgativo e conoscitivo si ritiene utile citare l’importante iniziativa, (prima in Italia) assunta alcuni mesi orsono dai Prefetti di Potenza e di Matera e dal Direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro della Basilicata, che concerne la stipula di uno specifico “Protocollo di intesa” avente lo scopo di monitorare i centri di accoglienza permanenti e temporanei della Regione, attivando giuste sinergie tra le diverse Amministrazioni pubbliche coinvolte a vario titolo nella gestione del fenomeno immigrazione.
Le attività si esplicano mediante controlli congiunti da svolgersi con personale delle Prefetture, Ispettori del lavoro e uomini del Nil nuclei ispettivi dell’Arma dei Carabinieri, coadiuvati da personale delle aziende sanitarie e altre Amministrazioni.
Altro aspetto significativo, che merita giusta attenzione, è certamente quello che riguarda il funzionamento dei Centri per l’Impiego pubblici, di fatto non trascurabile in quanto rappresenta l’humus ideale dove si innesta agevolmente, a causa di evidenti carenze ed inefficienze, la cosiddetta intermediazione illecita di manodopera messa in atto soprattutto dai caporali.
È un fatto che il nostro sistema paese difetta gravemente per quanto attiene l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Gli attuali circa 550 Centri per l’Impiego (un dato numerico dinamico a causa di chiusure e/o accorpamenti causati da pensionamenti e mancati turn over di personale) intermediano soggetti occupabili in una percentuale che oscilla tra il 3% e il 5% per posti di lavoro reperiti. Questo evidentemente rappresenta un territorio di conquista non solo per le Agenzie di somministrazione private e riconosciute dal sistema accrediti dell’Anpal (e prima ancora dal Ministero del lavoro), ma anche e soprattutto, in maniera preoccupante, da chi svolge illecitamente tale mediazione sul lavoro.
È certamente più agevole, da parte di chi fa impresa, (in assenza di etica) soprattutto nel settore agricolo, rivolgersi a figure terze (i caporali) al fine di procacciarsi braccianti in maniera estremamente flessibile a seconda degli andamenti della produzione, pagare questo servizio “disinteressandosi” di chi a valle esegue giornate bracciantili, al di fuori di ogni regola e liceità.
Per tali ragioni però proprio le istituzioni con gli uffici preposti, dovrebbero migliorare le prestazioni del servizio pubblico, garantendo efficienza della propria azione. Avendo la necessità, ad esempio, di istituire degli uffici o sportelli temporanei, magari nei maggiori centri agricoli del Paese, in maniera più capillare con mediatori culturali e personale “adeguatamente formato”, con banche dati aggiornate, con l’implementazione di “liste di prenotazione” formate anche grazie all’ausilio delle associazioni di rappresentanza, dotate anch’esse di elenchi e banche dati aggiornati, come Coldiretti, Confagricoltura, Cia, con i nominativi censiti di lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel Paese, anche stagionali; con verifiche circa gli assolvimenti prevenzionistici e controlli su certificazioni e visite mediche assolte valevoli per congrui periodi.
Il grande banco di prova per chi attualmente ha la responsabilità di Governo nel nostro Paese, è certamente legato al prendere provvedimenti di contrasto al Caporalato, che siano al contempo in linea con il bisogno di ripristinare in primo luogo la “dignità umana” che in troppe zone rurali di questo Paese da sud a nord come da est a ovest, si è dimenticata o peggio accantonata.
Serve una decisa e sicura “abiura” da parte delle migliaia di imprese ed aziende agricole che devono essere chiamate responsabilmente ad inibire complicità con un sistema che favorisca il caporalato quale strada semplice in uso anche per abbassare il costo del lavoro aumentando il proprio profitto. E in questo determinante potrebbe essere di certo il ruolo pedagogico delle associazioni di rappresentanza del mondo agricolo (come in parte sta avvenendo).
Questo però in un’ottica globale del mercato influenza in modo palese l’intera filiera agro alimentare, sostanziando pratiche sleali a tutti i livelli che incidono, inevitabilmente, sulla legittima concorrenza nel mercato.
Non da meno, però, è il comportamento scarsamente etico dei grandi marchi e gruppi della filiera della grande distribuzione, che anch’essa condizionata dal bisogno spasmodico di abbassare i prezzi all’inverosimile costringe i produttori a comprimere il costo dei fattori della produzione e in primo luogo quello della manodopera (esemplificativo il fatto che per alcuni marchi che distribuiscono la passata di pomodoro costi di più il contenitore bottiglia di vetro che non il medesimo prodotto contenuto il pomodoro); come anche rispetto alla stessa qualità e genuinità del prodotto finale.
In questo quadro assume notevole valenza la consapevolezza dell’utente acquirente che dovrebbe poter scegliere prodotti “tracciabili” magari beneficiando di una etichetta con indicazioni puntuali obbligatorie, del prezzo medio all’origine riconosciuto prima delle fasi di trasformazione e distribuzione.
Un altro elemento qualificante e indispensabile al tempo stesso, per una efficace lotta al caporalato e contro lo sfruttamento dei lavoratori, è la disponibilità e gestione di Fondi Europei esplicitamente stanziati e destinati a tale scopo.
Bene però sarebbe anche utilizzare parte di tali fondi per programmi di formazione professionale, per nuove professioni e recupero di antichi mestieri, come pure per il sostegno scolastico, progetti di alfabetizzazione e cultura civica rivolto ai migranti lavorativi.
Detti finanziamenti europei hanno assunto varie denominazioni: Fondi Fami emergenziale, Pon Legalità, Pon Inclusione, Fami nazionale, programma Pasim Ministero Interni, Progetto Su.Pre.Me ecc.. Giusto sarebbe, ritengo, mettere a sistema e razionalizzare queste quantità di denari comunitari (frutto, è importante dirlo, del contributo di tutti i Paesi Comunitari ma in particolare proprio del nostro Paese), monitorando attentamente la platea progettuale rappresentata da Ministeri, Regioni, Enti locali, Prefetture, ecc. ed evitando ovviamente usi distorti se non illeciti, o anche scarsamente significativi, al solo scopo di alimentare sodalizi cooperativi o imprenditoriali che hanno fatto dell’immigrazione, dell’accoglienza, dell’emergenza umana, una vera e propria terra di conquista e speculazione, quand’anche zona franca, spesso sodale con organizzazioni di malaffare e malavita, come ci hanno insegnato recenti indagini e azioni della magistratura in questo ambito.
Per concludere il caporalato è certamente qualche cosa di antico e di moderno al tempo stesso, con i suoi primi palesamenti nell’Italia postunitaria. Periodicamente l’argomento torna all’attenzione e in auge grazie a gravi fatti di cronaca che risvegliano le nostre coscienze ed il sentimento comune.
Il punto è che troppo superficialmente si tende a sovrapporre tale problema con quello dell’immigrazione. Il caporalato, come già abbiamo detto, non ha nazionalità, colore, genere, è semplicemente sfruttamento iniquo della vita umana allo stato puro, e perciò anche se fenomeno antico, necessita di essere combattuto con mezzi moderni e soprattutto basandosi su un diritto di tutti di godere della dignità di uomini liberi, non oppressi, non asserviti, detentori di una civile autodeterminazione quale valore inestimabile per la nostra società moderna.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei processi economici e del lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del lavoro”. Dirigente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, Capo dell’Ispettorato territoriale di Potenza-Matera.
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