La strategia di riforma delle politiche del lavoro del governo scaturito dalle elezioni politiche dello scorso 4 marzo ha, quale elemento cardine la realizzazione del cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Il testo presentato al Senato dal Movimento 5 stelle nella scorsa legislatura (Disegno di Legge n. 1148) prevedrebbe in realtà l’introduzione nel nostro ordinamento non tanto di un “reddito di cittadinanza”, ma bensì di quello che viene in generale definito “reddito minimo garantito”, attraverso un meccanismo finalizzato – grazie a l’integrazione del reddito esistente o l’erogazione di un reddito tout court – a garantire a tutti i nuclei famigliari il superamento della “soglia di povertà”.
A prescindere da quali saranno i contenuti dell’eventuale futura proposta di legge della maggioranza, uno degli aspetti di principale rilevanza riguarda gli enti a cui la legge dovrà demandare le funzioni la cui esplicazione è necessaria per il raggiungimento delle finalità previste in materia di politiche attive. Nella “visione” del M5S, un ruolo strategico è assegnato al centro per l’impiego, definito dall’articolo 5 del Disegno di Legge n. 1148 “la struttura che ha il ruolo di regia”, al quale verrebbero attribuiti i seguenti compiti:
La norma proposta riconosce ulteriori compiti – ad integrazione e supporto del ruolo dei Cpi – a differenti enti, nello specifico:
La tematica dei sistemi informativi viene affrontata nell’’art. 6 del Disegno di Legge n. 1148, nel quale si individua nella “struttura informativa centralizzata” lo strumento attraverso il quale i soggetti sopra descritti dovrebbero condividere le loro banche dati al fine di rendere possibile l’implementazione del reddito di cittadinanza.
I compiti assegnati ai centri per l’impiego nella visione del M5S – a prescindere dalle specificità indicate nella proposta di legge sopra descritta - non sono, allo stato attuale, assolvibili, e per essere resi tali richiederebbero una serie di interventi, tesi a superare innanzitutto due principali criticità.
La prima di carattere organizzativo e strutturale: nel nostro paese il personale dei centri per l’impiego è di poco superiore alle seimila unità (solo per avere un termine di paragone, in Francia sono poco meno di trentamila, nel Regno Unito sessantasettemila e in Germania settantaquattromila), con un rapporto tra disoccupati registrati e operatori di 228 a 1. È evidente che senza un forte investimento in risorse umane o in innovazione tecnologica (con strumenti che rendano davvero più agevole e veloce l’attività degli operatori) gli obiettivi indicati nella proposta del reddito di cittadinanza siano difficilmente raggiungibili: tali interventi richiedono non solo risorse finanziarie considerevoli, ma anche una trasformazione organizzativa che necessita di tempistiche non brevi.
Il secondo ostacolo attiene invece alla governance dei centri per l’impiego, i quali sono di competenza regionale: qualsiasi percorso riformatore necessita, di conseguenza, di un accordo tra tutte le regioni. In base al Titolo V della Costituzione – la cui revisione fu approvata con la Legge Costituzionale n° 3 del 2001 – le Regioni hanno infatti una competenza concorrente con lo Stato in materia di mercato di lavoro: sul piano operativo, tuttavia, le Regioni esercitano una competenza pressoché esclusiva, in virtù del D.Lgs. 23 dicembre 1997, n. 469, il quale attribuisce alle stesse ampie funzioni in materia di organizzazione dei servizi per l’impiego, di collocamento e di politica attiva del lavoro.
Di fatto, nel nostro paese esistono ventuno sistemi pubblici per l’impiego, con politiche del lavoro e sistemi informativi caratterizzati da notevoli differenze e spesso non dialoganti tra di loro.
Negli ultimi vent’anni, successivamente all’approvazione della Legge n. 469/1997, si sono susseguite una serie di riforme del lavoro, le quali hanno “lambito” ma non cambiato l’organizzazione e le funzioni dei servizi pubblici per il lavoro e l’incisività delle politiche attive: in questo lasso di tempo sono state realizzate riforme che ci restituiscono un quadro costituito da diverse trasformazioni – apertura del mercato agli intermediari privati, modernizzazione del sistema dei contratti di lavoro, realizzazione del SIL – ma anche da notevoli ritardi.
Da ultima, la Legge delega 183/2014 aveva, tra le proprie finalità principali, l’obiettivo di ridefinire le modalità di gestione delle politiche del lavoro, ma la mancata approvazione della riforma costituzionale, nel cui ambito era prevista la modifica del Titolo V, ha restituito una riforma del mercato del lavoro depotenziata.
Alla luce della bocciatura della riforma costituzionale, anche il ruolo dell’Anpal resta di difficile collocazione, tra un dettato normativo che – in via teorica – attribuisce all’agenzia ampie funzioni di coordinamento sui servizi per il lavoro, e una realtà la quale, anche a causa della mancata attuazione di quanto previsto dal Jobs Act in materia di politiche attive del lavoro, relega l’agenzia ad un ruolo di marginalità.
Il mantenimento della distinzione organizzativa tra l’Anpal e i servizi per l’impiego territoriali, i quali restano di competenza regionale, non consente la realizzazione di quelle funzioni di coordinamento e di valutazione sui livelli di servizio dei centri per l’impiego che la norma ha attribuito all’Agenzia nazionale.
È evidente che i ritardi nella modernizzazione dei centri per l’impiego non possono, quindi, essere ricondotti esclusivamente a una spesa insufficiente o al limitato apporto di personale; esistono problematiche “strutturali” – di seguito descritte – che se affrontate e superate possono consentire un notevole miglioramento qualitativo dei servizi offerti a lavoratori e aziende:
Le misure previste nel Jobs Act avrebbero dovuto consentire, nelle intenzioni del legislatore, il superamento dei ritardi sopra descritti: il disegno complessivo di rafforzamento delle politiche attive del lavoro, che costituiva parte essenziale di tale riforma, è però rimasto privo degli strumenti che avrebbero dovuto darne pienamente corso.
È evidente che senza un forte investimento in risorse umane e in innovazione tecnologica (con strumenti che rendano più agevole e veloce l’attività degli operatori) i centri per l’impiego non saranno in grado di rispondere efficacemente a tali sfide. Queste ultime però possono essere il punto di svolta da cui fare iniziare un ripensamento del ruolo dei servizi pubblici, e della loro mission, in particolare con riferimento a quei contesti nei quali gli operatori privati non sono in grado o non vogliono intervenire perché estranei al loro business (come ad esempio l’alternanza scuola lavoro).
L’attribuzione di nuove funzioni ai centri per l’impiego in assenza di nuovi investimenti rischia di aumentarne la marginalità: è necessario che il legislatore operi in tempo rapidi una ridefinizione del loro ruolo strategico – che è mancata nel Jobs Act – scegliendo se questi ultimi debbano agire su un piano di competizione con le agenzie per il lavoro, oppure se la scelta debba essere quella della collaborazione e dell’integrazione tra pubblico e privato. Nel primo caso occorrerebbe costruire un percorso progressivo di fuoriuscita dei servizi per l’impiego dalla Pubblica Amministrazione, nel secondo caso i Spi dovrebbero invece trasformarsi in un’infrastruttura di servizi con compiti distinti da quelli attuali e dalle funzioni delle agenzie private.
Per consentire il pieno dispiegamento delle politiche attive occorre una rete di servizi per il lavoro, pubblici e privati, in grado di garantire ai soggetti privi di occupazione un sostegno qualificato, e questo obiettivo non si raggiunge soltanto inserendo nuove risorse più qualificate nei Cpi, ma anche con un mutato approccio degli operatori e con la capacità di questi ultimi di dialogare e di “fare rete” con i soggetti del territorio (scuole, università, aziende, associazioni di categoria).
È possibile migliorare le performance dei servizi pubblici per l’impiego - e metterli in grado di gestire efficacemente le politiche attive e, eventualmente, il reddito di cittadinanza – soltanto con immissioni di nuovo personale e ingenti investimenti finanziari?
No, se non si ha la capacità di coniugare due percorsi, uno di carattere organizzativo, l’altro di natura tecnologica.
Con riferimento all’organizzazione dei servizi, si potrebbe valutare la possibilità di trasferire all’Inps le funzioni amministrative dei Cpi, rispondendo in tale modo all’esigenza di una razionalizzazione dei compiti dei servizi pubblici per l’impiego, i quali – nel contesto di tale prospettiva – verrebbero ri-orientati verso una mission esclusiva di promozione e gestione delle politiche attive del lavoro. Prima di qualsiasi intervento, è però necessario risolvere “preventivamente” il nodo della dualità tra Stato e regioni: la Conferenza Stato, regioni e province autonome in questi anni non ha dato prova di essere un organismo capace di scelte rapide ed efficaci – né sembra idoneo a realizzare una ripartizione di competenze chiaramente definita.
Una simile ipotesi però può funzionare in modo efficace soltanto se si realizza una trasformazione culturale e organizzativa dei Spi e se si realizza una piena integrazione, nell’ottica della completa interoperabilità, tra i sistemi informativi di tutti i soggetti pubblici che operano nel mercato del lavoro, fino a prospettare la realizzazione di una vera e propria “piattaforma 4.0”. L’efficace utilizzo delle moderne tecnologie informatiche è il secondo nodo da cui passa la modernizzazione dei servizi per l’impiego.
Il Sistema informativo unico delle politiche del lavoro, previsto nel Jobs Act, è rimasto sulla carta, e l’analoga “struttura informativa centralizzata” indicata dalla proposta normativa del M5S, attualmente non è stata né implementata, né progettata, e richiede percorsi e soluzioni organizzative particolarmente complessi.
L’obiettivo della realizzazione del portale nazionale delle politiche del lavoro previsto dal D.Lgs. 150/2015 è lungi dall’essere realizzato, e il Portale Anpal sembra ancora un contenitore destinato a restare estraneo alle reali esigenze del mercato del lavoro. A tale proposito, un ulteriore elemento di forte criticità è rappresentato dalla mancata previsione dei meccanismi che consentirebbero ai SIL oggi, e domani al sistema informativo unico delle politiche del lavoro, di dialogare pienamente con i sistemi web di incontro tra domanda e offerta di lavoro pubblici: nella situazione attuale vi è infatti una netta separazione tra i sistemi informatici deputati alla gestione amministrativa delle attività dei servizi per l’impiego e i portali di intermediazione tra lavoratori e aziende, e lo stesso portale Anpal, così come Cliclavoro – sebbene quest’ultimo preveda nel suo funzionamento il conferimento allo stesso delle richieste di lavoro dei centri per l’impiego – costituisce un’entità separata, “altra” rispetto alla rete territoriale dei servizi per il lavoro pubblici. I quali, guarda caso, sono i soggetti che concretamente gestiscono le politiche attive.
Relativamente alle pratiche amministrative, oggi esistono gli strumenti informatici che garantiscono la possibilità, per gli utenti che ne sono in grado e lo desiderano, di iscrizione ai Spi, di prima analisi del CV e di fruizione dei servizi di incontro domanda/offerta di lavoro direttamente dal web, senza doversi recare fisicamente presso un centro per l’impiego: questo potrebbe liberare una buona percentuale di operatori da tali mansioni, consento agli stessi di occuparsi di altri servizi. Analoghi servizi possono essere offerti dal lato delle aziende.
La realizzazione del fascicolo elettronico del lavoratore, previsto nel Jobs Act e richiamato nella proposta del M5S, sarebbe di indubbia utilità: a tale fine è necessario che il legislatore ne individui le modalità operative di realizzazione in modo stringente, al fine di evitare che tale strumento resti soltanto sulla carta, come precedentemente accaduto con il libretto formativo del cittadino.
Dalla capacità di affrontare i nodi sopra descritti dipende la possibilità per i servizi pubblici per l’impiego di uscire dalla loro condizione di marginalità, di aumentare la loro forza attrattiva nei confronti delle persone senza lavoro - in particolare di coloro che non si sono mai rivolti ad un Cpi o addirittura hanno rinunciato a cercare un’occupazione - e di divenire finalmente soggetti in grado di promuovere le politiche attive del lavoro, in una prospettiva che deve essere finalizzata non solo ad “assistere” le persone nella gestione delle pratiche amministrative della disoccupazione o all’elargizione di sussidi finanziari, ma anche, e soprattutto, a supportare gli inoccupati e i disoccupati nel loro percorso di inserimento e reinserimento nel mercato del lavoro.
[*] Consulente senior Mercato del lavoro e IT della e-land s.r.l. di Reggio Emilia (www.e-land.it). Blog: www.innovazionelavoro.it
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