La grande mistificazione
Sta per partire la selezione per i circa tremila posti di navigator da assumere a tempo determinato nei centri dell’impiego, con il compito di trovare lavoro ai percettori del reddito di cittadinanza e di potenziare a medio termine l’attività del servizio pubblico di collocamento. Questo il dichiarato obiettivo del governo a cui non crediamo per niente e siamo sicuri di stare in buona compagnia con gran parte degli italiani che sanno ben distinguere la differenza tra una misura per alleviare la povertà e gli strumenti necessari a favorire l’occupazione, partendo dal fatto che l’incontro tra domanda e offerta del lavoro è strettamente legato al mercato e all’andamento economico. La sua regolamentazione, inoltre, ha lo scopo di razionalizzare questi flussi cercando di tutelare i diritti delle persone più deboli.
Tale strumento è rappresentato dagli uffici di collocamento e dai centri dell’impiego che in simbiosi avrebbero dovuto e dovrebbero adempiere al loro compito istituzionale, anche attraverso la formazione e la riqualificazione professionale. Purtroppo questo non è mai avvenuto con efficacia, né quando erano organi periferici del Ministero del Lavoro né tantomeno ora, dopo il decentramento e trasferimento alle autonomie locali avvenuto alla fine del secolo scorso. La loro marginalità, anzi, si è accentuata con la liberalizzazione del sistema e la sua apertura all’iniziativa privata. Il problema, come si vede, è più complesso di come la politica lo raffigura all'opinione pubblica perché erano queste strutture da riformare dalle fondamenta e poi verificare la necessità o meno di nuovo personale e sono sicuro che il presidente dell’Agenzia per le Politiche Attive del Lavoro o ANPAL sarà d’accordo con noi.
Per la mia lunga attività sindacale ho conosciuto tanti di questi colleghi quando erano ancora dipendenti del Ministero del Lavoro e sono rimasto in contatto con alcuni di loro dopo il trasferimento dei servizi. Più di uno anche di recente, mi ha confermato che la loro attività è pressoché inesistente e il collocamento di lavoratori vicino allo zero assoluto, da stato di depressione continua, perché da tempo non c’è lavoro e quel poco che esiste passa fuori dai loro uffici. Non è, dunque, una questione di carenza di personale perché allo stato in base all’attività degli uffici siamo quasi all’esubero. Quel che non va è il sistema obsoleto che non è più in grado di svolgere le funzioni per cui era stato ideato. Esso va ripensato e ricostruito dalle fondamenta. Solo allora si potrà stabilire se servirà o no nuovo personale.
I tremila, in conclusione, per stato attuale delle cose, saranno solo un peso aggiuntivo. Se ai navigator gli dai una barca che fa acqua c’è il rischio che affondino con essa. Noi siamo favorevoli alle assunzioni di forze fresche nel settore pubblico, il cui turn over è stato bloccato per decenni. Ma quando e dove servono e sicuramente ci sono settori in cui ce n’è bisogno. Assumerli, poi, come precari significa solo distrarli perché impegnati nella loro prossima, prevedibile, sacrosanta lotta per la stabilizzazione del posto. È successo tante volte, ma la storia non insegna nulla agli esseri umani.
Un discorso a parte merita l’Ispettorato del Lavoro. Abbiamo letto i dati sulla produttività e quello che emerge da essi è abbastanza sconfortante. Nonostante tutte le riforme se qualcosa è cambiato, è stato in peggio. Un ufficio pubblico può e deve funzionare come qualsiasi azienda produttiva se l’obiettivo del bene sociale è perseguibile, se si hanno le risorse adeguate in uomini e mezzi e se non ci sono intralci in tale azione vale a dire lacci e laccioli burocratici o ostacoli derivanti da una cattiva organizzazione o dagli errori contenuti nella fonte istitutiva. Se così non è ci puoi mettere alla guida anche Superman ma il risultato non migliorerà, anzi tenderà col tempo a deteriorarsi. Ciò vale anche al caso nostro, dove c’è qualcosa di profondamente sbagliato. L’inadeguatezza nell’Ispettorato, infatti, è data, oltre a causa di un’organizzazione completamente errata, dall’insufficienza delle risorse finanziarie più che dall’entità delle forze in campo che oltretutto hanno un’altissima professionalità non facilmente riscontrabile nei servizi pubblici. Quel che è peggio, inoltre, è che le modeste risorse sono mal distribuite tra il personale con notevole differenziazione tra ente e ente che crea un senso di sconforto se non di disamore sia in chi percepisce meno per lo stesso lavoro, sia nei più fortunati che si sentono additati come responsabili della differenziazione come se fosse colpa loro l’attuale sperequazione retributiva.
Si stanno bruciando enormi risorse in obiettivi che sembrano avere più un contenuto clientelare che di sana politica governativa e che riguardano, oltretutto fasce non eccessive di cittadini. Doveva essere invece l’occasione buona per destinare quanto disponibile in una grande riforma dei servizi pubblici che in ogni stato moderno sono la base e la premessa per lo sviluppo della società, ancor più necessari in questo momento per l'indispensabile ripresa economica del nostro paese.
[*] Giornalista e scrittore. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona (Onlus)
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