Il legislatore con il D.L. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito con modificazioni nella Legge 28.03.2019 n. 26, ha introdotto disposizioni in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni fra cui quella anticipata per “quota 100”. In relazione a quest’ultima fattispecie, la disciplina è contenuta nell’art. 14, che reca in rubrica “Disposizioni in materia di accesso al trattamento di pensione con almeno 62 anni di età e 38 di contributi”.
Al comma 6 sono descritte le modalità previste per i dipendenti pubblici che vogliono accedere a tale tipo di pensione. In ragione della specificità del rapporto di impiego nella PA e dell’esigenza di garantire la continuità ed il buon andamento dell’azione amministrativa, il pubblico dipendente che vuole accedere alla pensione per “quota 100” deve comunicarlo “all’amministrazione di appartenenza con un preavviso di sei mesi”. All’indomani dell’entrata in vigore della norma in argomento, si è iniziato a dissertare sul valore da attribuire all’espressione “preavviso di sei mesi”. La questione, come è facile immaginare, riveste grande rilevanza, anche in ragione del fatto che le ferie, ex art. 2109 co. 4 cod. civ., non possono essere computate nel periodo di preavviso. Alcune Amministrazioni Pubbliche hanno interpretato in maniera restrittiva l’espressione di cui sopra e, come riportato da alcune OO.SS., hanno precluso la fruizione delle ferie, anche se di competenza dell’anno precedente e delle festività soppresse, per l’intero semestre immediatamente anteriore alla data del pensionamento. Ciò in ragione del fatto che sono stati considerati sovrapponibili due concetti, che pur identificati con lo stesso nome – “preavviso di sei mesi” di cui al D.L. n.4/2019 e “preavviso” di fonte contrattuale – sono rispondenti a diverse ed autonome finalità giuridiche, come si andrà nel seguito a specificare.
A parere di chi scrive, è di pacifica evidenza che il “preavviso di sei mesi” contemplato dal D.L. n.4/2019 debba avere un valore “atecnico”, dovendosi intendere come la obbligatoria comunicazione che il pubblico dipendente deve effettuare, con congruo anticipo, all’Amministrazione di appartenenza per consentirle di organizzare nel migliore dei modi i servizi istituzionali, con il rimanente personale.
Considerarlo sovrapponibile con il preavviso di cui all’art. 2118 cod. civ. comporterebbe anche uno snaturamento di quest’ultimo, con evidente penalizzazione sia per il lavoratore e sia per l’Amministrazione[1].
Inoltre la “criticità” sopra indicata è correlata con il divieto assoluto, che vige nella PA, di monetizzazione delle ferie, anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età, come previsto dall’art. 5 co.8 del D.L. 6 luglio 2012 n. 95 convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012, n. 135 in materia di spending review.
In tale ipotesi quindi il pubblico dipendente dimissionario in applicazione della “quota 100” si vedrebbe, da un lato, “privato” di un diritto irrinunciabile (quello della fruizione delle ferie) in evidente contrasto con la Costituzione e, nello specifico, con l’art. 36 co.3 il quale stabilisce che “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi” e, dall’altro, della impossibilità di vedersi riconosciuta la monetizzazione di ferie e festività soppresse, maturate ma non godute.
Gli scriventi, per le ragioni che si andranno ad esplicitare nel seguito, sono dell’avviso che la non sovrapponibilità fra ferie e preavviso debba essere letta in combinato disposto, con l’obbligo in capo al pubblico dipendente di fruire di tutte le ferie e festività soppresse entro la data di collocamento a riposo, quindi anche durante il preavviso, concordandone il periodo con il datore di lavoro. Ovviamente quanto detto è valido solo se la comunicazione di recesso avviene con congruo anticipo rispetto alla data di cessazione dal lavoro.
Nel prosieguo si focalizzerà anche l’attenzione sulla collocazione temporale del preavviso contrattuale in ragione del fatto che nella PA, pure per le tipologie di pensionamento diverse dalla “quota 100”, è prassi invalsa presentare la lettera di recesso con notevole anticipo rispetto alla data di effettiva cessazione del rapporto. Da ultimo si dedicherà particolare attenzione al contenuto della recentissima Deliberazione della Corte dei Conti del Molise del 5 luglio 2019, in tema di pagamento delle ferie residue in caso di dimissioni e di possibile sovrapponibilità tra periodi di ferie e di preavviso.
Come è noto, il preavviso è il periodo che intercorre tra la comunicazione di recesso, di una parte all’altra, e l’effettiva cessazione del rapporto di lavoro e dei relativi effetti.
Da un punto di vista giuridico, la comunicazione di recesso ed il correlato periodo di preavviso costituiscono un unitario negozio unilaterale recettizio[2] che produce i suoi effetti immediatamente, fin dal momento in cui perviene nella sfera di conoscenza della parte che subisce il recesso (receduta). Tale comunicazione è, a tutti gli effetti, espressione di un diritto potestativo che consente al soggetto recedente di conseguire un risultato (lo scioglimento del contratto di lavoro) anche se non vi è il consenso del soggetto receduto che non può, in alcun modo, impedire l’esercizio di tale diritto.
Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il preavviso è imposto nel solo interesse della parte receduta, a tutela delle sue legittime aspettative. Infatti esso consente al lavoratore licenziato di disporre del tempo necessario per trovare un nuovo lavoro ed all’imprenditore di evitare che le dimissioni di un suo dipendente abbiano a turbare l’organizzazione del lavoro, permettendogli di rimpiazzare adeguatamente e tempestivamente la risorsa che viene a mancare.
Però, se una delle parti pone termine al contratto con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere una indennità sostitutiva[3].
Nel caso in cui il periodo di preavviso venga integralmente lavorato, il contratto di lavoro continua ad esplicare i suoi effetti, giuridici ed economici, fino al termine del rapporto.
In tale ipotesi al lavoratore spetta la liquidazione delle ferie maturate e non fruite prima della decorrenza del preavviso e sia quelle che si maturano nel corso del medesimo periodo. Tale pagamento espressamente vietato in costanza di rapporto è ammesso al momento della sua conclusione[4]. Quanto appena detto è però integralmente applicabile al solo settore privato.
Per il settore pubblico, con entrata in vigore del D.L. 6 luglio 2012 n. 95 convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012, n. 135, le cose sono sensibilmente cambiate. Il legislatore è intervenuto, in modo netto, sulla materia delle ferie non fruite da parte dei dirigenti e dei dipendenti della PA stabilendo, art. 5 co.8, che “Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale (…) sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi” inibendo in tal modo, qualsivoglia forma di retribuzione per le ferie maturate ma non fruite.
La disposizione ha portata generale, poiché riguarda tutte le Amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della PA e tutte le categorie di personale, ad ordinamento privatistico e pubblicistico, e la sua “ratio” è evidentemente tesa al contenimento della spesa pubblica.
Il legislatore ha inoltre previsto che la norma de quo si applichi anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. A tale stringente disposizione ha fatto anche immediato seguito l’abrogazione delle disposizioni legislative e contrattuali che consentivano la monetizzazione delle ferie non godute senza contemplare eccezioni e senza prevedere un periodo transitorio[5].
La indicata norma – come già ricordato in premessa – ha posto numerosi interrogativi in ordine ad una corretta definizione dei diritti e dei doveri dei pubblici dipendenti dimissionari. Ad esempio, è ipotizzabile, in ragione di una rigorosa lettura del decreto, un contratto a tempo indeterminato che, a fronte di prestazioni rese, come nel caso appunto del preavviso, non faccia maturare il diritto costituzionale alle ferie? Ed ancora, l’introdotto divieto senza eccezioni di monetizzazione delle ferie può prevalere sul dettato costituzionale, sul diritto comunitario e sulla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione?[6].
Per dirimere le varie perplessità è intervenuto il Dipartimento della Funzione Pubblica che, con parere n. 40033 dell’8.10.2012, ha fatto presente che gli specifici casi di cessazione interessati dal divieto di monetizzazione sono quelli in cui il lavoratore “concorre in modo attivo alla conclusione del rapporto di lavoro, mediante il compimento di atti”, qual è appunto l’esercizio del proprio diritto di recesso, mentre rimangono fuori dal divieto i vari casi indipendenti dalla volontà del lavoratore e dalla capacità organizzativa del datore, quali ad esempio il decesso, la malattia, l’infortunio ed il congedo obbligatorio per maternità.
Della problematica si è occupata anche la Corte Costituzionale[7] dopo che il Tribunale di Roma, aveva prospettato l’illegittimità costituzionale della norma in trattazione, ravvisando la lesione del diritto irrinunciabile alle ferie.
I giudici della Consulta hanno dichiarato non fondata la questione di costituzionalità in quanto “la disciplina in questione, mira a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro”. Nel contempo la sentenza ha ribadito anche l’obbligo di pianificare per tempo la fruizione delle ferie, proprio in ragione della loro irrinunciabilità, attuando sempre “il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore, in merito al periodo di godimento delle ferie”.
Da tale sentenza discende che l’assenza di una formale richiesta di ferie da parte del dipendente, non si traduce automaticamente in una sua rinuncia. Quindi è compito dell’Amministrazione vigilare sulla loro integrale fruizione, anche da parte dei lavoratori dimissionari, richiedendo loro la presentazione di un adeguato piano, per smaltire integralmente il residuo, entro la data di cessazione del rapporto di lavoro[8] collocandoli anche in ferie d’ufficio in caso di loro inerzia. Invece, in relazione ai periodi di fruizione, è di tutta evidenza che è indispensabile contemperare la tutela delle esigenze organizzative (quali ad esempio disbrigo pratiche residue ed eventuali passaggi di consegne) con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento.
Al ricorrere di dette condizioni ed in caso di recesso comunicato all’Amministrazione con congruo anticipo, chi scrive è dell’avviso che ferie, riposi e permessi siano interamente fruibili, fino all’ultimo giorno di servizio, senza che questo subisca uno slittamento.
Altra questione che è sempre stata oggetto di dibattito, riguarda la corretta collocazione temporale del preavviso contrattuale. Ciò in ragione del fatto che, come già detto, molto spesso il lavoratore dimissionario comunica tale sua intenzione all’Amministrazione di appartenenza - soprattutto se la stessa ha articolazioni sull’intero territorio nazionale - con notevole anticipo sulla data di effettiva cessazione. Ciò per consentire il disbrigo ordinato di tutte le incombenze a carico dell’Amministrazione e dell’INPS, indispensabili per la chiusura del rapporto di lavoro e l’erogazione della pensione nei tempi previsti.
Gli scriventi ritengono di pacifica coerenza che il preavviso inizi a decorrere dal momento in cui, la parte receduta riceve la comunicazione di recesso, fatte salve eventuali e diverse previsioni contrattuali: il CCNL attualmente in vigore per il personale del Comparto Funzioni Centrali fa decorrere i termini di preavviso (art. 67 co.3) dal primo o dal sedicesimo giorno di ciascun mese.
L’Aran invece con un risalente parere del 2012 ha sottolineato che, qualora le dimissioni vengano presentate con largo anticipo, rispetto alla data di effettiva cessazione dal servizio, il periodo di preavviso “deve essere correttamente stabilito computando a ritroso il relativo termine a partire dalla data indicata dal lavoratore come data di cessazione del rapporto di lavoro”.
Agli scriventi, tale “orientamento applicativo”, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 95/2012, appare abbastanza desueto. Ciò in quanto il computo del preavviso nel termine, stringente, indicato, non consentirebbe la fruizione delle ferie residue (che peraltro non possono essere in alcun modo monetizzate) in evidente violazione di legge che ne prevede la obbligatoria integrale fruizione entro la data di conclusione del rapporto.
Si è inoltre dell’avviso che per applicare ancora oggi, integralmente, tale posizione dell’Aran dovrebbe ammettersi che il primo giorno di preavviso in base a tale schema (cioè conteggiare i termini a ritroso dall'ultimo giorno di lavoro) debba essere mobile, per consentirne lo spostamento per fare in modo che il preavviso effettivamente lavorato sia pari a due mesi “al netto” di tutte le assenze effettuate dal lavoratore dimissionario.
Le problematiche evidenziate sarebbero facilmente risolvibili se il preavviso contrattuale iniziasse a decorrere, correttamente, dal primo o dal sedicesimo giorno del mese, in ragione del momento in cui il lavoratore comunica il recesso all’Amministrazione di appartenenza. In tale ipotesi diventerebbe di facilissima composizione, in puntuale applicazione di legge e di contratto, anche l’effettuazione dei residui periodi di ferie, riposi e permessi maturati e non goduti, la cui fruizione, come detto sopra, andrebbe concordata tra lavoratore ed Amministrazione[9].
In definitiva chi scrive, in ragione delle intervenute modifiche normative, che obbligano alla integrale fruizione delle ferie, ritiene che nel periodo che intercorre tra l’ultimo giorno di lavoro e la data in cui il lavoratore ha comunicato all’Amministrazione l’intenzione di dimettersi, ci sia una effettiva prestazione lavorativa (quindi al netto delle varie assenze effettuate dal dipendente in tale periodo) pari ad almeno due mesi.
Per rendere ancora più evidente quanto sopra esplicitato si propongono i due casi seguenti.
Caso n. 1. Il lavoratore comunica all’Amministrazione di appartenenza la richiesta di collocamento a riposo con congruo anticipo rispetto alla data di effettiva cessazione dal lavoro. Ad esempio la comunicazione di recesso è effettuata il 23 giugno con cessazione dal servizio il 31 dicembre. Il lavoratore in tale periodo deve garantire un preavviso lavorato di due mesi. Al ricevimento del recesso l’Amministrazione deve:
Caso n. 2. Il lavoratore invia la comunicazione di recesso alla Amministrazione di appartenenza nel solo rispetto dei termini di preavviso contrattuali. Ad esempio la comunicazione di recesso è effettuata il 23 giugno con cessazione dal servizio l’1 settembre. Il preavviso contrattuale di due mesi inizia a decorrere dall’1 luglio. Al ricevimento del recesso l’Amministrazione deve conteggiare le ferie residue che il lavoratore dimissionario, deve ancora fruire comunicandogli che la durata del preavviso dovrà tenere conto delle ferie residue che debbono essere obbligatoriamente fruite entro la data di scadenza del rapporto. Ad esempio se le ferie residue ammontano a 10 giorni il preavviso contrattuale di due mesi deve essere incrementato di 10 giorni facendo slittare di conseguenza la data dell’ultimo giorno lavorativo. I successivi adempimenti sono gli stessi indicati ai punti (b), (c), (d) ed (e) del Caso n. 1.
Per entrambe le fattispecie descritte, rimane in capo all’Amministrazione il diritto di trattenere, su quanto eventualmente dovuto al dipendente, un importo corrispondente alla retribuzione per il periodo di preavviso non lavorato. In ogni caso, a termini contrattuali, viene fatta salva la possibilità per l’Amministrazione di rinuncia parziale del preavviso.
Le sopra riportate valutazioni degli scriventi trovano un qualificato sostegno nella recentissima deliberazione della Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per il Molise, che con parere n. 98 del 5.07.2019 ha rimarcato l’obbligo, anche per gli Enti di piccola dimensione, in presenza di dimissioni, in applicazione della “quota 100”, “di programmare le attività lavorative al fine di favorire la fruizione delle ferie da parte dei dipendenti” anche nel periodo di preavviso[10]. Infatti per la magistratura contabile “resta ferma la possibilità per il datore di permettere il godimento delle ferie maturate dal lavoratore anche nel corso del periodo di preavviso al fine di scongiurare il rischio della loro non consentita monetizzazione”. Inoltre “in caso di preavviso lavorato, superata ormai la regola della necessaria corresponsione del trattamento sostitutivo delle ferie non godute (sostituita dalla regola opposta), dovrebbe concludersi per la conseguente caducazione della regola che ne impediva l’assegnazione”.
[1] L’evidente penalizzazione del lavoratore è connessa con il mancato godimento delle ferie ed il conseguente mancato recupero psicofisico. Invece per l’Amministrazione c’è il rischio concreto che possa essere condannata al pagamento di tutte le ferie maturate e negate nel periodo de quo, dai propri dipendenti dimissionari.
[2] Il preavviso non assume una specifica autonomia rispetto all’atto di recesso. Il coordinamento effettuato nell’art. 2118 Cod. Civ. rende di tutta evidenza tale aspetto: infatti la comunicazione di recesso pone fine al rapporto ed il preavviso ne attenua per un periodo limitato di tempo le conseguenze ed è concepito come il necessario corollario di una decisione (quella di recedere dal rapporto) già presa ma ad esecuzione differita per un determinato periodo di tempo, appunto rappresentato al preavviso (Cass. Sent. n. 3190 del 7.10.1995).
[3] Cass Civ, Sez. Lav. Sent. n. 22443 del 4 novembre 2010.
[4] Art. 10 co. 2 D.Lgs. n. 66/2003, così come modificato dall’art.1 del D.Lgs. 213/2004: il periodo minimo di ferie di quattro settimane di cui ha diritto ciascun lavoratore “non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro”.
[5] La norma parrebbe confliggere con il CCNL attualmente in vigore per il personale del Comparto Funzioni Centrali e nello specifico con l’art. 28 co.11 il quale stabilisce che “le ferie maturate e non godute per esigenze di servizio sono monetizzabili solo all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, nei limiti delle vigenti norme di legge e delle relative disposizioni applicative”. Il conflitto è però solo apparente. E per rendersene conto basta leggere la “Dichiarazione Congiunta n. 1” in calce al CCNL medesimo dove le parti si danno reciprocamente atto che “all’atto della cessazione del servizio le ferie non fruite sono monetizzabili solo nei casi in cui l’impossibilità di fruire delle ferie non è imputabile o riconducibile al dipendente come nelle ipotesi di decesso, malattia e infortunio, risoluzione del rapporto di lavoro per inidoneità fisica permanente e assoluta, congedo obbligatorio per maternità o paternità.
[6] www. consulentia.it. Articolo di Maria Rosa Pacelli: “Pubblica Amministrazione, ferie non godute non più monetizzabili”.
[7] Corte Cost. Sent. n. 95 del 2016.
[8] Cass. Sent. 16.11.2017 n. 27206 in tema di obbligatoria fruizione delle ferie prima del collocamento a riposo per pensionamento. La Cassazione ha confermato ciò che i vari gradi di giudizio avevano già acclarato e cioè la legittimità del comportamento aziendale che ha imposto ad un proprio dipendente la fruizione “obbligata” prima del pensionamento, al fine di prevenire possibili richieste di pagamento della relativa indennità.
[9] Sul punto l’INPS con Circolare n. 84 del 28 marzo 1997 già sosteneva che “i termini di preavviso, in qualunque data vengano comunicati alle Amministrazioni, decorrono, comunque, dal successivo primo o sedicesimo giorno del mese” ed ai fini “del rispetto del termine di preavviso, si computano nel relativo periodo anche i giorni di ferie”.
[10] Il parere in commento della Corte dei Conti del Molise fa luce anche sul concetto di preavviso ancorandolo ai termini minimi contrattualmente previsti e normalmente compresi fra due e quattro mesi.
[*] Funzionari in servizio presso la sede di Rovigo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Ferrara Rovigo. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero personale degli Autori e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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