A distanza di più di 15 anni dalla introduzione delle certificazione dei contratti le norme introdotte in materia, ancorché modificate, segnano il passo. Questa realtà risulta ancora più vera se si guarda alla certificazione dei contratti di appalto.
Alcuni “vulnus” normativi vengono oggi usati da alcune aziende, a scopi frodatori, per creare ampi fenomeni di “dumping sociale” e distorsione del mercato del lavoro, al solo scopo di lucrare profitti abbassando il costo del lavoro, e beffando in tal modo le norme poste a presidio della legalità. La situazione attuale, è inutile nasconderlo, sembra essere sfuggita di mano e rischia di sfociare in situazioni di pericolosa illegalità.
Il tema però, che si vuole affrontare, attiene al come fronteggiare tale situazione con gli attuali strumenti di tutela e su quali punti deboli della catena occorrerebbe intervenire chirurgicamente allo scopo di impedire che questo processo di disgregazione sociale ed economica possa deflagrare, senza colpo ferire, corrompendo pezzi di economia sana che rischiano seriamente di scivolare nell’illegalità del settore.
Occorre comprendere se, per contrastare questo fenomeno di natura distorsiva di ingente entità, causato da diffuse lacune legislative miscelate ad incertezze organizzativo-burocratiche, possa essere sufficiente costituire una rete di tutela sociale e una serie di correttivi di tipo normativo ed economico che possano impedire il reiterarsi di tali episodi.
Con il presente scritto non si intende, certamente, fornire al lettore una soluzione definitiva che risponda a tutte le criticità sopra brevemente rappresentate, ma gli scriventi, dal proprio osservatorio empirico privilegiato dei sistemi produttivi e dei meccanismi di tutela del lavoro, intendono suggerire alcuni elementi potenzialmente utili a fronteggiare la situazione di emergenza venutasi a creare, indicando spunti critici e utili strumenti di lavoro che potrebbero validamente aiutare gli operatori del settore ad affrontare sinergicamente il tema emarginato.
Come noto, i contratti stipulati tra le parti private possono essere certificati. È possibile apporre una sorta di “sigillo di qualità” alle prestazioni di lavoro da cui possa emergere, in modo chiaro ed inequivocabile, la qualificazione del rapporto di lavoro. Attraverso il procedimento di certificazione dei contratti di lavoro, le parti, datore e prestatore, si impegnano, pertanto, reciprocamente, a certificare di fronte ad una commissione competente, terza ed imparziale, un contratto che rispetti le regole agli effetti della normativa fiscale, retributiva, previdenziale ed assistenziale. Tale sigillo presume una genuinità della qualificazione stessa, perseguendo sempre l’originario obiettivo della riduzione dei contenziosi amministrativi e giudiziari.
Oltre alla certificazione dei contratti di lavoro, in particolare, come espressamente dichiarato all’articolo 84 della L. n. 276 del 2003, si possono certificare i contratti di appalto previsti dall’art. 1665 del codice civile. Ai fini prudenziali e nell’ottica della responsabilità solidale, tale certificazione avrebbe il compito di disporre una corretta distinzione tra appalto genuino e somministrazione di manodopera. Purtroppo, come si vedrà meglio in seguito, questo tipo di contratti, nella prassi, ha trovato larga applicazione proprio per dissimulare appalti illeciti e realizzare più agevolmente intenti fraudolenti[1].
Come prescritto dall’art. 80 del d.lgs. 276/2003, la certificazione dei contratti determina un effetto importante, anche dal punto di vista ispettivo, che è quello della impossibilità di contestare il contratto stipulato se non attraverso il ricorso al giudice del lavoro o al TAR. Avverso tale contratto, difatti, è possibile avviare un contenzioso giudiziario sia da parte del datore di lavoro che del lavoratore, ma anche da parte di eventuali terzi che ne abbiano interesse diretto. Tali terzi potrebbero, essere senz’altro organi pubblici, quali ad esempio l’Ispettorato del lavoro, l’INPS, l’INAIL o la Guardia di Finanza.
Come noto, difatti, gli organi pubblici, a difesa degli effetti pubblici prodotti da detti contratti certificati, non possono procedere con la contestazione di verbali di illecito amministrativo, ma debbono obbligatoriamente instaurare un tentativo di conciliazione, inteso come condizione di procedibilità, nel luogo ove il contratto è stato certificato e successivamente proporre ricorso giudiziario autonomo per chiedere al giudice di accertare la difformità del programma negoziale. In tale contesto, ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. 6.10.2004 n. 251 “i dirigenti o i funzionari da essi delegati della direzione provinciale del lavoro, incaricati della rappresentanza nei giudizi di opposizione (...) rappresentano e difendono il Ministero del lavoro nei giudizi di cui all’art. 80 del d.lgs. 276/2003”.
La difficoltà interpretativa attuale deriva anche da una mancata chiarezza normativa sulla certificazione di un contratto in essere rispetto al momento in cui interviene il provvedimento vero e proprio di certificazione. Nell’ambito delle criticità riscontrate relative gli effetti occorre, difatti, distinguere i contratti, certificati dall’origine, che, producono i loro effetti dal momento dell’emissione del provvedimento di certificazione ed i contratti già in essere e certificati in seguito. In quest’ultimo caso, la commissione ha attualmente il compito di accertare che nel periodo precedente, il contratto abbia avuto esecuzione, secondo i dettami poi oggetto di certificazione, attribuendo pertanto, un valore retroattivo dei suoi effetti (art. 79, ult. comma, d.lgs. n. 276/2003, introdotto dall’art. 31, co. 17, l. 183/2010).
Su questo punto, de iure condendo, si evidenzia la necessità del ripristino della norma che prevedeva la certificazione del solo contratto che si sta stipulando, che non deve incidere sul concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro retroattivamente inteso. Non si capisce, difatti, come una commissione possa indagare sul concreto svolgimento del rapporto di lavoro nel periodo antecedente alla certificazione, sostituendo il proprio giudizio a quello di un giudice. Tale indagine è inoltre complessa e presuppone l’assunzione di informazioni da parte dei lavoratori interessati, nonché la verifica, in concreto, sul luogo di lavoro che verifichi quanto dichiarato. Tale efficacia retroattiva dovrebbe essere, al momento, accuratamente valutata dalle Commissioni di certificazione, onde evitare che si tramuti in una facile sanatoria del pregresso protetta dallo scudo della certificazione.
Quanto sopra vale, a maggior ragione, se il rapporto riguarda un contratto di appalto tra due aziende dove le parti non sono i lavoratori che possono realmente riferire quali siano state, sino a quel momento, le loro mansioni ed i loro compiti. In attesa di un auspicabile rapido cambio di rotta normativo l’interpretazione non può che essere quella che l’accertamento della Commissione non solo debba essere rigoroso, ma debba esplicitamente essere indicato nell’istanza di avvio del procedimento e conseguentemente nell’avviso all’ITL competente ai sensi dell’art. 78 comma 2, lett. a), del d.lgs. 276/2003.
La carenza di elementi certi nella regolamentazione delle commissioni lascia spesso ampi margini di manovra dove possono introdursi elementi di dubbia regolarità ed ampie sacche di discrezionalità. Il Regolamento sinora emanato in base alla legge riguarda solo le commissioni di certificazione istituite presso gli Ispettorati Territoriali del lavoro, ma lascia ampio margine di discrezionalità a tutti gli alti Enti certificatori e non consente di regolare adeguatamente e con le dovute accortezze, gli aspetti pratico-applicativi nelle cui pieghe spesso si nascondono ampie possibilità di irregolarità.
L’iter certificativo, di cui agli artt. 76 e 77 del d.lgs. 276/2003, è devoluto alle commissioni istituite presso gli organi di certificazione indicati, nel territorio ove sia impiegato il prestatore.
Abilitati a tale certificazione possono essere le commissioni istituite presso gli Ispettorati Territoriali del lavoro o presso gli Ordini Provinciali dei Consulenti del lavoro, le Commissioni formate da docenti di diritto, presso atenei e fondazioni universitarie, iscritte ad apposito albo presso il Ministero del Lavoro, le commissioni presso gli Enti Bilaterali, istituite dai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Ebbene come è altrettanto noto le commissioni di certificazione istituite presso gli Enti Bilaterali non hanno alcuna necessità di riconoscimento pubblico e possono costituirsi liberamente autoproclamandosi maggiormente rappresentative[2]. Questa particolare condizione che non richiede alcuna validazione da parte di organi pubblici, ha permesso un proliferare di organismi di certificazione che maggiormente rappresentative non sono, ma in grado comunque di funzionare, in astratto, da schermo protettivo per la certificazione di contratti non proprio conformi ai principi di legalità.
Ebbene proprio queste commissioni, prive di alcun controllo a monte, hanno mostrato di costituire l’anello debole della catena, in particolare in relazione a contratti di pseudo appalto che nascondono mere somministrazione di manodopera illecita. Tali contratti hanno determinato un’area di illiceità, apparentemente garantita dal sigillo di qualità della certificazione, irretendo, in tal modo, imprenditori dei più svariati settori commerciali.
Prescindendo dal comportamento di alcune società pseudo-somministratrici che, dolosamente,e senza alcuna autorizzazione, hanno messo in campo numerosi espedienti normativi e procedurali, per forzare il sistema, a ben guardare, lungi dall’inquinare la parte sana dell’economia nazionale, sembra che le imprese che abbiano certificato tali contratti appartengano alla tipologia “grigia” cioè si tratta di soggetti imprenditoriali che hanno utilizzato la somministrazione di mera manodopera a basso costo allo scopo deliberato di distorcere la libera concorrenza, illudendosi di far fronte, in tal modo, anche a situazioni di mera difficoltà economica. Da un’analisi veloce del fenomeno, sembrerebbe trattarsi non solo di piccole aziende commerciali, ma anche di aziende strutturate sotto forma societaria, che tanto ingenue non sembrano, e che sarebbero in grado di distinguere perfettamente non solo il bianco dal nero, ma anche dal “grigio”.
Ebbene, esclusa l’ipotesi in cui possa riscontrarsi in sede penale, con obbligo di querela delle aziende ipoteticamente coinvolte, la truffa vera e propria, con la prova processuale degli artifici e raggiri posti in essere dall’azienda pseudo somministratrice con l’aiuto, eventuale, doloso o colposo, delle commissioni di certificazione, non può essere sufficiente il paravento del contratto certificato per salvare le aziende da un comportamento illecito ed ambiguo che porta ad un notevole risparmio contributivo, previdenziale e fiscale, a scapito di altre aziende concorrenti del settore merceologico. A fronte di tale aggrovigliata situazione, de iure condendo , probabilmente occorrerebbe prevedere norme che stabiliscano, a monte, quando le commissioni di certificazione presso gli Enti bilaterali abbiano i requisiti necessari per poter certificare in modo da non dover intervenire ex post, quando oramai il danno è stato prodotto.
Prescindendo da tale semplice, ma alquanto efficace espediente normativo, occorre in prima battuta, arrestare il prima possibile tali pratiche illecite, intervenendo già nella fase preliminare della comunicazione prevista dall’art. 78, comma 2, lett. a), del d.lgs. 276/2003, che prevede l’obbligo per la commissione di inviare all’Ispettorato del lavoro competente per territorio una comunicazione di avvio della certificazione. La possibilità per gli organi pubblici allertati di inviare “osservazioni” sulla certificazione che si sta ponendo in essere, corredata dal quanto mai necessario obbligo di acquisire tutti i documenti di quella certificazione [3], lungi dal rappresentare inutili “lacci e laccioli”, costituisce un elemento quanto mai utile, non solo per rappresentare alle parti eventuali ispezioni già in corso in merito a quelle aziende, e conseguentemente interrompere attività certificatorie pretestuose ed illegali, ma anche e soprattutto può essere oltremodo utile per evidenziare preventivamente, ed in tempo utile, che comunque non si intende riconoscere a quella determinata commissione alcuna abilitazione certificatoria.
Questa semplice comunicazione, diffusa anche alle parti che intendono certificare il contratto, blinderebbe la successiva certificazione dal suggestivo espediente della buona fede tra le parti e apporterebbe senz’altro un utile apporto a quella rete sociale che si vuole frapporre alla frequente stipula di contratti illeciti. L’avviso ai “naviganti” che tale contratto certificato non solo “non s’hà da fare né domani né mai” e che la stipula, seppur certificata, è potenzialmente illecita, avrebbe senz’altro un effetto deterrente per le aziende utilizzatrici che vengono indotte artificiosamente a non avvisare nemmeno i propri consulenti del lavoro o le associazioni di categoria cui appartengono dei contratti che sono stati già stipulati o che si stanno per concludere “a basso costo”. Tale prassi applicativa, qualora ce ne fosse ancora bisogno, eliminerebbe, dunque, qualsivoglia tipo di alibi alla certificazione contrattuale illecita ab origine.
In una prospettiva, de iure condendo, si potrebbe qui ipotizzare l’introduzione di alcune modifiche normative che possano incrementare l’efficacia dell’azione preventiva di vigilanza, costituire un valido deterrente per ostacolare le attuali condotte antigiuridiche messe in campo dalle aziende e dagli enti certificatori e nel contempo mantenere uno spazio sano di operatività dell’istituto della certificazione, che deve continuare a perseguire l’obiettivo di deflazionare il contenzioso amministrativo e giudiziario, nonché snellire l’attività ispettiva che può così concentrarsi sulla verifica dei contratti non preventivamente certificati.
Sotto il profilo preventivo:
Sotto il profilo repressivo:
Il quadro degli illeciti delineati in materia di somministrazione illecita di manodopera anche a seguito del d.lgs.8/2016 è il seguente:
Il 12 agosto 2018 è entrata in vigore la l. n. 96/2018 che ha convertito con modifiche il d.l. 87/2018 che ha reintrodotto, all’art. 38 bis del d.lgs. n. 81/2015, il reato di somministrazione fraudolenta che si configura in tutti i casi in cui in assenza dei requisiti di cui all’art. 1655 cod. civ. (cioè l’organizzazione dei mezzi necessari, l’esercizio del potere organizzativo e direttivo e la gestione del rischio da parte da parte dell’appaltatore) la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.
Il reato si realizza anche nel caso di ricorso ad agenzie di somministrazione e si può ravvisare la somministrazione fraudolenta, ad esempio, qualora il datore di lavoro licenzi un proprio dipendente per poi riutilizzarlo tramite agenzia, violando norme di legge o di contratto collettivo, ovvero alle medesime condizioni, nel caso di distacco di personale che comporti una elusione dei requisiti di cui all’art. 30, d.lgs. n. 276/2003 – tra i quali, l’interesse del distaccante, la temporaneità del distacco e lo svolgimento di una determinata attività lavorativa – o nel caso di distacco transnazionale “non autentico”, ai sensi dell’art. 3, d.lgs. n. 136/2016.
Sulla somministrazione fraudolenta occorre ribadire che costituirebbe, se contestata, un utile supporto giuridico-legale per indurre i trasgressori a cessare il comportamento illecito, tuttavia, forse su questo occorre specificare alcuni passaggi che sembra siano rimasti ancora nella penna del legislatore, pur se sul punto è intervenuta la circolare 3/2019 del 11/02/2019 dell’INL.
Andando ad analizzare la norma giuridica, gli interpreti sono concordi nel ritenere che, per configurare la fattispecie di illecito occorre che siano coinvolti sia il somministratore che l’utilizzatore. Trattasi, dunque, di un illecito plurisoggettivo. Tuttavia, nell’ambito del reato plurisoggettivo occorre distinguere tra reati plurisoggettivi propri, che si caratterizzano per il fatto che alla realizzazione della fattispecie devono concorrere più soggetti i quali sono tutti punibili, dai reati plurisoggettivi impropri che si caratterizzano per il fatto che alla fattispecie devono necessariamente concorrere più soggetti ma di questi ultimi solo alcuni sono punibili secondo la norma incriminatrice (si veda ad es. il reato della bancarotta preferenziale di cui all’art. 216, comma 3 l. fall.). Secondo altra autorevole dottrina occorre altresì distinguere i reati plurisoggettivi impropri dai reati con la cooperazione artificiosa della vittima. Anche in questo caso i due soggetti sono necessari ma per integrare la fattispecie, uno di questi potrebbe essere la vittima del reato (ad es. nel caso della truffa).
L’illecito di somministrazione fraudolenta si caratterizza come reato plurisoggettivo proprio, in quanto la norma prevede la punibilità di entrambi i soggetti coinvolti: utilizzatore e somministratore.
Per quanto riguarda l’elemento oggettivo la norma richiede una condotta attiva di somministrazione di lavoro.
Per quanto attiene all’elemento soggettivo la norma richiede la finalità ulteriore di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore, prevedendo quindi la fattispecie in esame un dolo specifico, in deroga alla regola generale della punibilità delle contravvenzioni indifferentemente a titolo di dolo o colpa. Si rileva, inoltre, che la contravvenzione risulterà integrata a prescindere dal fatto che tale finalità si sia in concreto realizzata, ma per il semplice fatto che sia stata perseguita, connotando in tal modo l’illecito come “reato di pericolo”.
De iure condendo tale finalità rende, tuttavia, molto rigorosa la prova da parte dell’organo giudiziario e sarebbe più opportuno che fosse riassorbita nell’elemento oggettivo, come evento naturalistico, eliminando dalla fattispecie il “dolo specifico”, così da rendere punibile la contravvenzione, anche semplicemente a titolo di colpa. La norma potrebbe essere riscritta nel senso di prevedere la punibilità del somministratore e dell’utilizzatore che ponendo in essere una somministrazione di lavoro eludano norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore. Si potrebbe prevedere, altresì, un aggravante nel caso in cui tale evento si sia verificato attraverso la surrettizia certificazione del contratto di appalto poi rivelatosi illecito. Sempre in una prospettiva de iure condendo potrebbe, inoltre, prevedersi, nell’ipotesi frequente di più subappalti, una pena specifica per il committente che non vigili sulla liceità del contratto di subappalto stipulato. Il committente che appalta un servizio (che molto spesso coincide con il proprio oggetto sociale), sebbene in caso di subappalto dello stesso servizio non ponga in essere la condotta illecita di utilizzazione dei lavoratori, tuttavia non può per ciò stesso andare esente da responsabilità, in quanto il subappalto potrebbe essere un semplice artifizio posto in essere per rimanere impunito e scaricare, di converso, la responsabilità sul subappaltante. Appare indubbio, difatti, che anche il committente ottiene un vantaggio in termini di costi del lavoro dalla condotta elusiva commessa dal subappaltante e dal subappaltatore. Sul punto se prima facie appare difficile raggiungere la prova del coinvolgimento doloso dello stesso committente nell’operazione fraudolenta, tuttavia, da un’attenta analisi quest’ultimo potrebbe essere punito per culpa in vigilando.
Tornando alla norma vigente, sebbene la prova della finalità dolosa sopra descritta sia complessa, appare indubbio, che i due soggetti che hanno stipulato un contratto di appalto illecito (anche se certificato attraverso le famose commissioni di certificazione che possiamo definire “farlocche”), abbiano avuto la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge e/o contratti collettivi. La richiamata circolare n. 3/2019 dell’INL ha evidenziato che il ricorso ad un appalto illecito, e quindi alla somministrazione di lavoro in assenza dei requisiti di legge, già costituisce di per sé elemento sintomatico di una finalità fraudolenta.
Il vantaggio, difatti, di stipulare tali contratti frodatori serve a determinare un risparmio sul costo del lavoro. Il costo orario del lavorato nei casi analizzati, corrisponde a circa la metà di quello dovuto dall’utilizzatore e da questo deriva obbligatoriamente una minore retribuzione ed una minor contribuzione ed un minore versamento fiscale. Allo stesso modo costituiscono violazione di norme imperative le norme che introducono divieti alla somministrazione di lavoro (art. 32, d.lgs. n. 81/2015) o prevedono determinati requisiti per la stipula del contratto (art. 32, d.lgs. 81/2015) o, ancora, specifici limiti alla somministrazione (artt. 31 e 33 del d. lgs. 81/2015). Il fatto che successivamente lo pseudo appaltatore non versi i contributi previsti, come spesso accade nelle ipotesi analizzate in concreto, costituisce semplicemente un aggravante ed un ulteriore effetto negativo nei confronti del lavoratore che potrebbe sfociare, ad esempio, nell’ipotesi della truffa laddove fosse presente la prova degli estremi costituenti la fattispecie. Allo stesso modo l’applicazione di un contratto collettivo diverso a lavoratori che svolgono le medesime mansioni nella medesima azienda e lo stesso lavoro non può che integrare la finalità elusiva prevista dalla normativa analizzata[10].
Ad ogni buon conto, dal punto di vista pratico applicativo occorre rammentare che gli ispettori, in quanto ufficiali di P.G., non sono chiamati ad indagare, nei suoi diversi aspetti, l’elemento psicologico del reato e quindi ad evidenziare tutti i profili della fraudolenza della condotta, ma piuttosto sono tenuti a raccogliere e documentare tutti gli elementi di prova delle circostanze di fatto investigate (“fumus”) che consentiranno, nell’eventuale prosieguo del processo penale, l’indagine giudiziaria in merito al grado di partecipazione psicologica e di colpevolezza dei soggetti agenti (utilizzatore e somministratore)[11].
In ordine agli effetti civilistici relativi alla applicazione della prescrizione che imponga la cessazione della condotta illecita e l’assunzione da parte dell’utilizzatore del lavoratore alle proprie dipendenze si rileva che l’adempimento non deriva dal reato commesso anche dall’utilizzatore, ma dal fatto che il contratto con una dimostrata finalità elusiva è civilisticamente da considerare comunque nullo ex artt. 1344 e 1418, comma 2, c.c.
Attraverso la dimostrazione della nullità sarà possibile, per gli ispettori del lavoro, considerare d’ufficio i lavoratori alle dipendenze dell’utilizzatore, pertanto con contratto subordinato a tempo indeterminato, potendo adottare, altresì, nei confronti dell’utilizzatore il provvedimento di diffida accertativa per le somme maturate dai lavoratori impiegati nell’appalto a titolo di differenze retributive non corrisposte sulla scorta del CCNL da quest’ultimo applicato. Senza trascurare che ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. 276/2003 il committente imprenditore, l’appaltatore e gli eventuali subappaltatori, sono obbligati solidalmente a corrispondere, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento.
Alla luce delle predette considerazioni non si può negare come l’Ispettorato del Lavoro si trovi ad applicare norme repressive probabilmente ancora non snelle nel settore della somministrazione.Pur provando a porre rimedio all’azione elusiva di alcune aziende, si è fatto cogliere di sorpresa da attacchi di portata nazionale, non reagendo prontamente, in maniera ferma e sinergica per stroncare sul nascere tali azioni. Purtroppo tale effetto distorsivo si è amplificato attraverso atteggiamenti borderline posti in essere da commissioni di certificazione improvvisate ed autoreferenziali.
Fermo restando che è certamente difficile fronteggiare simili situazioni emergenziali, al fine di rafforzare autorevolmente l’azione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, occorre definire in maniera chiara e precisa compiti e funzioni per porre in essere strategie difensive condivise.
Tra queste comunque si possono annoverare degli espedienti de iure condendo di carattere organizzativo che non potrebbero far altro che implementare la macchina organizzativa. Sembra ormai abbastanza assodato, difatti che combattere fenomeni di illegalità diffusa e reiterata, come quelli prospettati, attraverso meri “atti interlocutori interni” con valore ed efficacia solo endoprocedimentale, quali sono i verbali unici di illecito amministrativo emessi dagli ispettori, costituisce una strategia superata e poco efficace dal punto di vista della efficacia deterrente. Come da tempo è stato fatto nel campo delle violazioni del codice della strada, difatti, i verbali di illecito amministrativo devono essere resi immediatamente efficaci ed esecutivi (esattamente come avviene per i verbali degli ispettori INPS ed INAIL per i contributi ed i premi) e su questo sarebbe importante riflettere attentamente su una modifica normativa specifica.
Seguendo tale ipotesi normativa, il ricorso alla emissione dell’Ordinanza Ingiunzione di cui all’art. 18, L. n. 689/1981, dovrebbe limitarsi solo ed esclusivamente a quei casi patologici per i quali le aziende contestano gli accertamenti, facendo convergere l’azione amministrativa alle sole aziende che richiedono un supplemento di indagine attraverso esplicita richiesta di scritti difensivi o ricorsi amministrativi (ex art. 16 d.lgs. 124/2004), ed includendo in tale ipotesi anche i verbali posti in essere da Ispettori del lavoro e ispettori previdenziali. Tale modifica libererebbe preziose risorse umane e strumentali consentendo alla macchina amministrativa di concentrarsi in modo rapido ed efficace sulle aziende che rivendicano a torto o a ragione,verbali interlocutori errati ed eviterebbe alle aziende di dover attendere parecchi anni (attualmente l’Ordinanza Ingiunzione può essere emessa entro i 5 anni dall’emissione del verbale), con il rischio ulteriore per la P.A. di non poter più perseguire le medesime imprese, perché cancellate.
Non è un segreto, difatti, che dall’osservazione del comportamento delle aziende destinatarie di sanzioni irrogate con verbale di illecito amministrativo, proprio per appalto illecito è emerso che, a seguito di ulteriori accessi ispettivi, le stesse aziende hanno reiterato i medesimi illeciti. Ciò a comprova di quell’atteggiamento attendistico che assumono oramai le aziende a seguito della contestazione dei verbali ispettivi che, lungi dall’assumere efficacia dissuasiva, permette alle aziende medesime di reiterare l’illecito contestato senza alcuna ulteriore conseguenza sanzionatoria. Ciò deriva dall’alta improbabilità che l’ispettore torni in ispezione a distanza di poco tempo presso la medesima azienda e per l’incertezza applicativa di quanto contestato in sede ispettiva che, come già detto, si protrae per diversi anni.
Nettamente diverso è, invece, il comportamento delle stesse aziende dopo l’emissione di provvedimenti definitivi resi esecutivi (ordinanze ingiunzione), dopo i quali spesso e volentieri le Aziende provvedono al versamento delle sanzioni (nei trenta giorni) o alla contestazione giudiziaria. Già questa considerazione dovrebbe far riflettere sul fatto che la farraginosa procedura, prevista circa quaranta anni fa dal legislatore nella legge 689/1981, per l’applicazione delle sanzioni amministrative,in campo giuslavoristico, sia ormai da ritenersi superata e vetusta[12].
Tale modifica normativa, a parere degli scriventi, si impone come sempre più pressante non solo a seguito dei recenti fatti descritti in tema di appalto illecito e certificazione, ma anche per adeguare l’impianto sanzionatorio ad una maggiore certezza del diritto per le aziende sanzionate.
Proprio nell’ambito di una strategia più complessa occorrerebbe anche professionalizzare una difesa in giudizio degli ispettorati territoriali, che in questo momento risulta, dal punto di vista organizzativo, ferma a circa quaranta anni fa, stabilendo una rimodulazione di compiti e funzioni in base alla normativa vigente, in modo da garantire sul campo una vera ed incisiva difesa tecnica in giudizio [13].
Nell’ambito di una tutela rafforzata delle tutele dei lavoratori occorrerebbe, poi, ad avviso degli scriventi, introdurre degli applicativi informatici che consentano un reale monitoraggio costante non solo delle verifiche ispettive, ma anche e soprattutto delle ordinanze ingiunzione a carico di talune aziende che operano su scala nazionale e sistematicamente violano le stesse norme in materia giuslavoristica, in modo da seguire l’andamento delle controversie amministrative, ma anche giurisprudenziali. Solo una verifica di questo tipo difatti consentirebbe alle Amministrazioni di comprendere se siano o meno corrette le strade intraprese in ambito ispettivo o se sia necessario adottare opportuni correttivi o adeguamenti nel perseguimento dei propri obiettivi strategici.
A corollario di quanto sopra occorre perseverare nella strada intrapresa del sano e costruttivo confronto tra aree ispettive ed aree legali su scala nazionale al fine di verificare le criticità rispettivamente riscontrate ed eventualmente rettificare le azioni intraprese.
Appare, poi, quanto mai opportuno in questo campo, organizzare tavoli di confronto o gruppi di lavoro a livello nazionale, non solo tra aree ispettive dell’Ispettorato, INPS ed INAIL ma anche tra Avvocati INPS, INAIL e Ispettorato del lavoro per garantire uniformità di intenti e di azione onde evitare che possano porsi diversità di azione amministrativa e processuale tra i diversi organi dello stato.
A ciò si aggiunga che potrebbe essere parte di questa strategia complessiva il coinvolgimento consapevole di tutti i settori produttivi affinché facciano squadra nel tutelare il sistema nel suo complesso. Per attuare tale strategia occorrerebbe uno stretto contatto con le parti sociali, organizzazioni sindacali e datoriali perché erigano uno scudo protettivo di informazioni di tali aziende aventi intento elusivo e una sensibilizzazione di tutti gli stakeholder, affinché si mobilitino per sensibilizzare le aziende sane a comportamenti responsabili volti al rispetto delle norme di legge ed alle regole del mercato (vedi l. n. 12/1979).
Tale appello potrebbe riguardare pertanto i consulenti del lavoro, i commercialisti, i tributaristi, gli studi legali che si occupano di consulenza del lavoro in modo da fare “terra bruciata” nei confronti di quelle aziende che stanno tentando di danneggiare il mercato del lavoro a proprio esclusivo vantaggio.
In conclusione rispetto a quanto sopra descritto, i fatti accaduti, servono, sicuramente, da monito a future azioni che si dovranno mettere in campo soprattutto contro le aziende che continueranno consapevolmente e dolosamente a violare le regole costituite. Tutte le azioni che si potranno porre in essere, sia di natura normativa che di carattere regolamentare ed organizzativo, serviranno a misurare la capacità del nuovo Ispettorato ad una reazione adeguata e consapevole su tutto il territorio nazionale.
[1] Si veda in proposito anche la nota INL del 19.04.2019, n. 3861.
[2] Sul punto è intervenuta una nota dell’INL n. 3861 del 19/04/2019 che ha ricordato che eventuali certificazioni di contratti di appalto possono ritenersi del tutto inefficaci sul piano giuridico, in particolare laddove le stesse siano riconducibili ad enti bilaterali che non possono ritenersi tali. Ai sensi dell’art. 2, comma 1 lett. h), del D.Lgs. n. 276/2003, infatti, detti enti sono esclusivamente gli “organismi costituiti a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei pres-
tatori di lavoro compara-
tivamente più rappresen-
tative”. In tal caso, così come peraltro già indicato con circ. n. 4/2018, il personale ispettivo sarà tenuto a verificare quali siano i soggetti collettivi che hanno dato vita all’ente che, in non pochi casi, risulta costituito da soggetti pressoché sconosciuti sul piano della rappresentatività sindacale e che operano per conto di una sola o di pochissime realtà datoriali.
[3] Tale espressa previsione dovrebbe trovare nota in una apposita norma di legge o in una apposita circolare esplicativa.
[4] Ciò avviene ad esempio per la concessione del provvedimento di maternità anticipata ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. n. 151/2001:
b) quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
c) quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli articoli 7 e 12.
In tali casi l’astensione dal lavoro è disposta dalla dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro, d’ufficio o su istanza della lavoratrice, qualora nel corso della propria attività di vigilanza emerga l’esistenza delle condizioni che danno luogo all’astensione medesima.
[5] L’art. 1, c. 445 lett. d), L. n. 145/2018 ha previsto un aumento del 20% degli importi previsti dall’Art. 18 del D.L. n. 276/2003, che punisce sostanzialmente le condotte interpositorie come la somministrazione abusiva o irregolare ( 60 euro per ogni lavoratore occupato con importo minimo pari a 6.000 euro e importo massimo pari a 60.000 euro sia per il somministratore che per l’utilizzatore). I datori di lavoro recidivi, destinatari di sanzioni amministrative o penali ricevute nei tre anni precedenti per i medesimi illeciti, vedranno raddoppiare gli importi delle sanzioni irrogate nei loro confronti.
[6] L’art. 22 del D.Lgs. n. 151/2015 ha riscritto integralmente la c.d. maxisanzione per lavoro nero (art. 3, co. 3, DL n. 12/2002, conv. nella L. n. 73/2002) con la previsione di una nuova struttura articolata per fasce di durata della prestazione irregolare (e non più una parte fissa più la maggiorazione per ogni giornata di lavoro nero così come, invece, avveniva in precedenza).
[7] L’art. 1, c. 445 lett. d) e f), L. n. 145/2018 ha previsto ha già previsto un aumento degli importi sanzionatori del 20% degli importi originari previsti proprio dall’art. 18 del D.L. n. 276/2003, che punisce sostanzialmente le condotte interpositorie. Tale norma ha stabilito altresì che le anzidette maggiorazioni sono raddoppiate laddove, nei tre anni precedenti, il datore di lavoro sia stato destinatario di sanzioni amministrative o penali per i medesimi illeciti.
[8] Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.
[9] Costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2. la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
[10] A titolo di esempio l’applicazione del contratto terziario alla commessa per l’importo di 6 euro + 3 euro alla cooperativa per il servizio, non può che considerarsi in aperto contrasto con la disciplina che regola l’applicazione dei contratti ai dipendenti).
[11] Testualmente così P. Rausei “Somministrazione di lavoro fraudolenta: quando è configurabile il reato” Dir. e Pratica del lavoro n. 13/2019 – WOLTERS KLUWER.
[12] Per non parlare della anacronistica impossibilità per l’Ispettorato del Lavoro di verificare il pagamento delle sanzioni attraverso l’accesso al cassetto fiscale, che comporta un continuo dispendio di risorse ed energie per accertare l’adempimento o la farraginosa procedura per accedere ad Infocamere o la mancata attivazione del processo telematico o l’impossibilità di disporre di applicativi sulle ordinanze emesse e le tipologie sanzionatorie ai fini della verifica della recidiva, applicativi per la verifica dei requisiti delle ordinanze ai fini della sospensione del DURC da comunicare obbligatoriamente e telematicamente all’INPS (ex art. 9 D. M. 24 ottobre 2007); applicativo per la verifica a campione delle autocertificazioni ai fini DURC (art. 9 del D.M. 24.10.2007), applicativo per la verifica delle sanzioni ai fini del lavoro agricolo di qualità sul possesso dei requisiti di legge (d.l. 91/2014 conv. dalla l. 118/2014); applicativo per la verifica delle sanzioni comminate in relazione ai flussi stagionali (art. 24 d.lgs. 29.10.2016 n. 203 e art. 27 quinquies d.lgs. 286/98); applicativo per la verifica delle spese di lite nei contenziosi giudiziari (art. 9 d.lgs. 149/2015 e ); applicativo per la gestione dei crediti propri derivanti dai ruoli esattoriali (ex art. 27 l. 689/1981); applicativo per la rilevazione di tutti i dati statistici del processo legale relativi al recupero crediti; applicativo per statisticare il contenzioso giudiziario (agenda legale); applicativo per il processo telematico; applicativo per la gestione dei provvedimenti di rateazione delle sanzioni che dovrebbero prevedere un maggior numero di rate in considerazione degli importi elevati delle sanzioni e una gestione unitaria a livello nazionale per comprendere la complessità del fenomeno e le strategie aziendali.
[13] Tale riforma è partita con la modifica imposta dell’art. 9 del d.lgs. 149/2015, riconoscendo la difesa in appello in sede giudiziaria ai funzionari dell’ispettorato del lavoro, ma purtroppo è rimasta al palo, impedendo, di fatto, una tutela dell’Ispettorato forte ed adeguata in sede giudiziaria.
[*] Dario Messineo è Dottore di ricerca in diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Pavia. Laura Grasso è Dottore di ricerca in diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Pavia. Funzionari dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in servizio presso la Sede di Torino. Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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