Non vorremmo parlare di pensioni poiché ci sembra un argomento ampiamente sviscerato ed in continua evoluzione, sia pure con approcci spesso troppo soggettivi o politicamente strumentali.
Ma proprio questa estrema varietà di analisi e proposte (stimolanti e sovente contraddittorie) offre al cittadino la possibilità di costruirsi un’opinione, “assemblando” un puzzle con gli elementi che gli paiono maggiormente “sensati”.
L’unico dato incontrovertibile ed oggettivo è l’invecchiamento della popolazione.
E ciò comporta inevitabilmente l’aumento della spesa pensionistica per il rapporto tra la cd. aspettativa di vita, [fortunatamente] in crescita, e l’età di uscita dal mondo del lavoro (cioè la sospensione dei versamenti contributivi) oggi virtualmente fissata a 67 anni “legali”, ma effettivamente collocata a 62 anni per innumerevoli e svariate deroghe.
Già nel 2009, con il 2° comma dell’articolo 22-ter del Decreto Legge 1 luglio 2009, n. 78[1], fu stabilito che “A decorrere dal 1° gennaio 2015, i requisiti di età anagrafica per l’accesso al sistema pensionistico italiano sono adeguati all’incremento della speranza di vita accertato dall’Istituto nazionale di statistica e validato dall’Eurostat, con riferimento al quinquennio precedente.”
Ma la norma è stata oggetto di successivi interventi, da ultimo con la legge di bilancio per il 2018, sia con modifiche al meccanismo di adeguamento alla speranza di vita, sia escludendovi specifiche categorie di lavoratori (e.g. i lavoratori impegnati nelle cd. attività usuranti).
Infine il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con il Decreto 5 novembre 2019 Adeguamento dei requisiti di accesso al pensionamento all’incremento della speranza di vita a decorrere dal 1° gennaio 2021 ha disposto che “i requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici … non sono ulteriormente incrementati”.
Ciò non parrebbe, però escludere un aumento di tre mesi per il biennio 2023-2024, portando il requisito anagrafico a 67 anni e 3 mesi.
Va, altresì, tenuto presente che il Decreto Legge 28 gennaio 2019, n. 4[2], all’Art. 15[3], consente l’accesso alla pensione anticipata «se risulta maturata un’anzianità contributiva di 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Il trattamento pensionistico decorre trascorsi tre mesi dalla data di maturazione dei predetti requisiti», prescindendo dagli adeguamenti alla speranza di vita “dal 1° gennaio 2019 e fino al 31 dicembre 2026”.
Sino al 31 dicembre 2016 sarà, pertanto, possibile accedere alla pensione anticipata, prescindendo dall’età anagrafica, se in possesso di anzianità contributiva di 42 anni e dieci mesi (un anno in meno per le donne).
Per mera curiosità ricordiamo che il Rapporto annuale ISTAT 2018 valuta in diminuzione il differenziale fra la vita media maschile che si attesta ad 80,8 anni rispetto a quella femminile attualmente attorno agli 85,2 anni; divario di circa 4,4 anni che è calato di circa un anno rispetto all’inizio dell’attuale decennio.
Deroghe senza dubbio sorrette da comprensibili motivazioni discendenti da necessità di svecchiamento degli organici, dalla necessità di dare risposte alla disoccupazione giovanile, da ristrutturazioni aziendali, etc. Deroghe che, comunque, aumentano anzitempo la platea dei pensionati.
Lo scorso mese di luglio illustrando il rapporto annuale dell’INPS, Pasquale Tridico, l’economista dell’Università di Roma Tre che ha preso il posto di Tito Boeri alla presidenza dell’Istituto, dava rassicurazioni sulla solidità del nostro sistema pensionistico, richiamando comunque la necessità di pervenire ad una effettiva divisione fra spesa pensionistica e spesa assistenziale; la seconda finanziata solo con la fiscalità generale.
All’interno della relazione del Presidente INPS ha trovato apprezzamento anche la proposta dell’adozione di una forma di previdenza complementare pubblica gestita dall’Istituto.
E su questa proposta vorremmo qui brevemente soffermarci, non essendoci chiaro al momento se si intendesse offrire un ennesimo gestore di previdenza complementare (pubblico ed in concorrenza con i fondi privati) o addirittura arrivare alla obbligatorietà ex lege della contribuzione complementare.
L’una e l’altra ipotesi sono degne di pregio, ma anche non esenti da immediate critiche.
Ricordiamo, innanzitutto a noi stessi, che la previdenza complementare è stata introdotta nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 5 dicembre 2005 n. 252[4] “al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale”.
Un’accoglienza a dir poco “tiepida” apprendendo ancora dalle parole del Presidente Tridico che in Italia le adesioni dei lavoratori “non arrivano al 30%”, pur rendendo disponibili nel 2018 “risorse per 167,1 miliardi, pari al 9,5% del Pil molti dei quali investiti all’estero”.
Ed allora, per Tridico ecco che “la sfida del fondo Inps dovrà dunque essere quella di aumentare il numero delle adesioni attraverso la costituzione di una valida alternativa ai fondi privati, ma anche quella di aumentare gli investimenti diretti nel nostro Paese”.
Già oggi, come accennato, è in vigore una normativa fiscale che agevola la costituzione di rendite pensionistiche complementari: il cd. secondo pilastro.
Ma, come confermano le parole del Presidente dell’INPS, vi è ancora troppa poca attenzione, nonostante gli sforzi che in questi anni sono stati messi in campo anche dalle forze sociali per costituire nel settore pubblico ed in quello privato soggetti sempre più rispondenti alle aspettative del legislatore del 2005.
Legislatore che sollecita la libera adesione a “fondi aperti” (istituiti su base individuale e/o collettiva ex art. 12 D.Lgs 252/05, sostanzialmente da banche, imprese di assicurazione, etc[5]); a “Forme pensionistiche individuali” (ex art. 13 D.Lgs 252/05, più note come Piani Pensionistici Individuali di tipo assicurativo[6]); ma anche a fondi pensione collettivi, preesistenti alla istituzione della previdenza complementare e per i quali l’adesione dipende da accordi o contratti aziendali o interaziendali[7].
Ma il legislatore pare privilegiare, innanzitutto per la successione espositiva contenuta nel Decreto Legislativo, i c.d. “Fondi chiusi”, per effetto della contrattazione nazionale di settore o aziendale, “garantendo la libertà di adesione individuale” [8].
Eppure le adesioni, come si diceva, sono sconfortanti nonostante il ventaglio di opportunità, e la moral suasion delle forze sociali.
Si pensi, ad esempio nel pubblico impiego, al Fondo Perseo Sirio, destinato a tutti i lavoratori dipendenti dei Ministeri, delle Regioni, delle Autonomie Locali e Sanità, degli EPNE, dell’ENAC, del CNEL, delle Università e dei Centri di Ricerca e Sperimentazione, delle Agenzie Fiscali, etc..
Od al Fondo Espero riservato ai lavoratori della scuola (insegnanti, dirigenti scolastici, personale amministrativo) “nato a seguito dell’emanazione dell’accordo istitutivo del 14/03/2001 fra le Organizzazioni Sindacali del settore (FLC CGIL, CISL Scuola, UIL Scuola, SNALS-Confsal, GILDA-UNAMS, CIDA) e l’ARAN e al successivo atto costitutivo del 17/11/2003” che si auto definisce “uno dei più grandi fondi negoziali d’Italia” con “oltre 100 mila associati” [9].
Un dato certamente non eclatante, considerato che Espero parrebbe in tal caso aver suscitato l’interesse di meno del 10% dei potenziali aderenti.
Con maggiore puntualità la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, nel proprio rapporto dello scorso settembre, precisava che dei “8,190 milioni di individui” iscritti (anche contemporaneamente) a forme di pensionistiche complementari, [solo] “3,121 milioni” riguardavano posizioni presso fondi negoziali[10].
Nove milioni di posizioni pensionistiche complementari rapportate al numero totale degli occupati[11] può immediatamente indurre a considerare la palese insufficienza delle attuali misure volte a consentire, attraverso “il secondo pilastro” il mantenimento di redditi analoghi a quanto percepito in costanza di rapporto di lavoro, a causa del passaggio dal metodo pensionistico a ripartizione, a quello a capitalizzazione.
Cambio del calcolo previdenziale, non più basato sulle ultime retribuzioni ma sul rendimento dei contributi effettivamente versati in costanza di rapporto di lavoro che comporterà un assegno pensionistico pari a circa il 60% dell’ultima retribuzione.
Almeno secondo le stime legate a rapporti di lavoro discontinui e ad una carriera lavorativa che inizia mediamente tardi con una permanenza media al lavoro che l’Eurosat stimava nel 2014 per l’Italia in soli 30,7 anni (15 in meno degli islandesi; seguiti dagli svizzeri, che mediamente lavorerebbero 42 anni a testa; dei tedeschi che versano contributi per circa 38 anni, seguiti dai britannici con 38,5, dai francesi 34,8, e persino dai greci con 32,1 anni).
Il dato medio di attività di un lavoratore italiano (inferiore del 4,5% rispetto alla media europea) ha sicuramente incidenza anche sulla previdenza complementare, laddove questa fosse di natura esclusivamente negoziale, comportando la necessità di una elevata contribuzione a bilanciare il minor periodo di versamento contributivo.
Come detto in premessa le analisi sul trend previdenziale sono le più varie e spesso le statistiche danno origine a valutazioni che paiono contraddittorie.
Si consideri, infatti, che una – sicuramente frettolosa – lettura dei dati disponibili su Itinerari Previdenziali indurrebbe a considerazioni ottimistiche sulla tenuta a medio-lungo termine del nostro sistema previdenziale, considerato che nel 2018 il rapporto occupati/pensionati, in crescita, avrebbe sfiorato l’1,45 molto vicino al break even point, meglio al punto di stabilità, individuato nell’1,5[12].
Tornando alla questione principale che qui ci occupa, e cioè quella della necessità della previdenza complementare, va sottolineato che l’introduzione del sistema contributivo nel primo pilastro non può dare frutti nell’immediato ed i lavoratori attivi – “vittime del sistema a ripartizione” – continueranno a pagare le attuali pensioni. Anche quando queste fossero frutto di inique norme di estremo favore.
Si pensi per un attimo ai cd. “diritti quesiti” ed a quanti lavoratori precari e/o sottopagati [le cd. carriere a singhiozzo con le quali si è a lungo recentemente confrontato l’ex ministro chiracchiano Jean-Paul Delevoye, fedelissimo di Macron] sono necessari per pagare, ad esempio, una cd. “pensione d’oro”, alla quale sono sottesi scarsi versamenti contributivi.
Ma è pura utopia pensare di poter rivoluzionare la previdenza, legando immediatamente i contributi di ciascun lavoratore alla propria pensione, recidendo il legame tra le generazioni e sostituendo il sistema solidaristico [così definito, anche se a qualche giovane lavoratore può apparire una presa in giro] a ripartizione con un sistema a capitalizzazione individuale.
Ma in questo caso – e con il già forte gravame della fiscalità generale – con quali risorse potrebbero essere pagate le attuali pensioni non supportate da adeguati versamenti contributivi?
Nelle more che “la natura faccia il proprio corso” con la definita soppressione delle pensioni non rapportate a contribuzione, ecco allora che il legislatore ha mutuato la soluzione della previdenza complementare affiancata a quella principale.
Secondo pilastro che, come detto, ad oggi riscontra scarse adesioni.
La ragione principale parrebbe essere la necessità di un’alta contribuzione per ottenere significativi benefici futuri. Infatti laddove al momento della quiescenza si optasse non per la restituzione del capitale e degli interessi, ma per una rendita vitalizia, questa non potrà intaccare il capitale versato in costanza di rapporto di lavoro, ma potrà derivare unicamente dal rendimento della singola posizione complementare.
E certamente i rendimenti saranno più interessanti maggiore sarà l’apporto economico del singolo alla massa contributiva del fondo, anche integrando i versamenti contributivi con il conferimento del trattamento di fine rapporto.
Opportunità indubbiamente impercorribile per lavoratori che hanno redditi medi ed un breve futuro lavorativo.
Tornando all’ipotesi del Presidente Tridico della costituzione di un fondo di previdenza complementare di natura pubblica, non sfuggirà un’inversione di tendenza, con il pubblico che si porrebbe in concorrenza con il privato.
Ciò indubbiamente potrebbe consentire economie di costi laddove “fagocitasse” gli attuali fondi pensione, e compattasse importanti masse di denaro.
E sarebbe forte la successiva tentazione del legislatore di introdurre la iscrizione ex lege al fondo pubblico; con evidente aumento del costo del lavoro.
Poco convincente pare, infatti, l’introduzione di ulteriori forme di defiscalizzazione ed in coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti, atteso che gli investimenti dovrebbero avvenire principalmente in Italia.
Investimenti con finalità previdenziale e non speculativa e, pertanto, osservando regole di prudenza e diversificazione[13].
Da sottolineare ancora che se l’iscrizione da volontaria divenisse obbligatoria, gli attuali fondi pensione sarebbero ancor più riservati a redditi alti, divenendo una sorta di terzo pilastro previdenziale a contribuzione libera e volontaria.
Resta, comunque, il problema della rendita del capitale e la durata di questa rapportata alla aspettativa di vita del pensionato. È, infatti, ben evidente che l’abbandono del sistema a ripartizione comporta per il singolo, nel secondo pilastro, la corresponsione di un importo mensile ragguagliato al rendimento degli investimenti fatti dal fondo.
I rendimenti aprono, poi, un capitolo spinoso nell’attuale panorama finanziario[14].
Ed alla Covip che sostiene la maggior positività dei rendimenti dei fondi pensioni rispetto alla “rivalutazione media annua composta del TFR” [15], si contrappongono ad esempio le tesi del prof. Beppe Scienza, docente di matematica all’Università di Torino[16].
Ma per il momento ci fermiamo qui, per tornare senz’altro sull’argomento auspicando migliori e più dotti contributi di approfondimento.
[1] Recante Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini; convertito con modificazioni dalla Legge 3 agosto 2009, n. 102
[2] Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni; [convertito con modificazioni dalla Legge 28 marzo 2019, n. 26]
[3] Riduzione anzianità contributiva per accesso al pensionamento anticipato indipendente dall’età anagrafica. Decorrenza con finestre trimestrali.
[4] Concernente, appunto, la Disciplina delle forme pensionistiche complementari.
[5] vds. https://www.covip.it/?page_id=53
[6] vds. https://www.covip.it/?page_id=190
[8] vds. Fondi Pensione Negoziali https://www.covip.it/?page_id=51
[9] i.e. http://www.fondoespero.it/site/chi-siamo/chi-siamo
[10] vds LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE PRINCIPALI DATI STATISTICI - SETTEMBRE 2019 - https://www.covip.it/wp-content/uploads/Agg_Stat_Set2019.pdf
[11] https://www.istat.it/it/files/2019/02/Mercato-del-lavoro-2018.pdf
[13] i.e. DECRETO LEGISLATIVO 5 dicembre 2005, n. 252, Disciplina delle forme pensionistiche complementari,Art. 6 Regime delle prestazioni e modelli gestionali
[15] i.e. I rendimenti, https://www.covip.it/wp-content/uploads/Agg_Stat_Set2019.pdf
[*] Avvocato e giuslavorista
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