Anno VIII - N° 41

Rivista on-Line della Fondazione Prof. Massimo D'Antona

Settembre/Ottobre 2020

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Anno VIII - N° 41

Settembre/Ottobre 2020

La psicologia
nel lavoro agile


di Stefano Oliveri Pennesi [*]

Olivieri Pennesi 28

Il difficile percorso lavorativo e di vita dello “Smart working” si è appalesato in tutta la sua criticità e problematicità evidentemente con l’evoluzione pandemica diffusasi a livello globale in questo anno 2020, a causa de Coronavirus ovvero il Covid 19.

Inevitabilmente le “Scienze psicologiche” hanno giocato, giocano e giocheranno un ruolo fondamentale per affrontare al meglio le tematiche e le problematicità che si sono così repentinamente e massivamente appalesate nel mondo del lavoro e nelle nuove ed emergenziali modalità lavorative effettuate da remoto, che hanno riguardato, anche inaspettatamente, una vastissima gamma di tipologie di lavori da poter svolgere appunto in modalità “smart working”.

Non di meno è stato però il concomitante “stress” provocato dalla medesima pandemia, in costanza di problemi di salute, impegni familiari e lavorativi da dover riuscire a conciliare, con il rischio sempre più immanente di contrarre la emergente conosciuta sindrome da “Burnout”.

Olivieri Pennesi 41 1Si stanno progressivamente sviluppando, in platee di lavoratori, patologie collegate ai disturbi del sonno, difficoltà negli addormentamenti, come pure risvegli improvvisi o prematuri dal ciclo notturno del sonno.

Molti lavoratori agili hanno verificato come il loro impiego da remoto si potesse trasformare in una sorta di “reclusione coatta”. Il non avere sostanzialmente orari di lavoro ben definiti, come pure il dovere adattare spazi della propria abitazione, privandoli della loro naturale destinazione, condividere attrezzature informatiche e luoghi della casa (spesso di modeste dimensioni) con gli altri familiari, tutto questo può far sentire le persone ingabbiate.

A questo dobbiamo aggiungere che la nuova esperienza dello smart working assoluto, è stato vissuto in un contesto di lockdown imposto e obbligatorio, dal quale non si poteva transigere.

In definitiva abbiamo assistito ad un tumultuoso accrescimento dello “stress da lavoro correlato”, in assenza di filtri esterni e con evidenti ricadute circa i condizionamenti dei rapporti interni ai nuclei familiari ed esterni con i rispettivi contesti lavorativi umani e ambientali.

Interessante a questo punto menzionare una recente indagine esplicatasi con un sondaggio che è stato realizzato dalla piattaforma “LinkedIn” premurandosi di misurare lo stress dei lavoratori per così dire agili.

Ebbene cominciamo col dire che ben il 46% delle persone intervistate ha affermato di sentirsi più ansiosa e stressata rispetto al proprio lavoro confrontato col recente passato, ma aggiungendo di avere lavorato maggiormente e nella misura di almeno un’ora in più al giorno, che corrisponde a circa tre giorni in più di lavoro mensile, e questo per una percentuale del 48% degli intervistati.

È bene anche dire che nello specifico lo scopo precipuo della ricerca era indagare l’effetto dello smart working sulla salute che ha di buon verso appalesato, tra gli oltre 2000 intervistati, come sopra evidenziato in valori percentuali, un grado maggiore di stress e ansia, come pure un complessivo incremento di quantità assoluta di lavoro prestato.

Per tale ricerca si è inoltre cimentato nelle valutazioni complessive anche l’Ordine nazionale degli Psicologi che ha espressamente considerato il conseguente rischio di patologie da Burnout.

È stato valutato che il maggior stress sia in parte da correlarsi al profondo cambiamento di abitudini e orari. Gli psicologi, rispetto all’insorgere di tale patologia, indicano la necessità da parte di Aziende e Amministrazioni di intraprendere azioni specifiche volte al sostegno psicologico dei dipendenti in modo da assicurarne la tutela del benessere lavorativo degli stessi.

Sempre parlando della ricerca la stessa evidenzia che il 22% dei lavoratori si è sentito in dovere di dover rispondere più rapidamente ai superiori ed essere disponibile on line più a lungo di quanto dovuto.

Sempre una percentuale del 22% dei lavoratori del campione, ha dichiarato di iniziare le giornate lavorative in anticipo rispetto agli orari rutinari precedenti, e lavorando quindi in maniera pressoché costante dalle 8 alle 20,30 circa; il 24% degli intervistati ha affermato che l’impegno lavorativo attuale supera frequentemente le otto ore di lavoro previste dal contratto.

Proprio la fattispecie di smart working sovente fa sentire il dovere di essere sempre disponibili. Si sta riscontrando come risulti difficile porre dei limiti al lavoro in tale contesto, non avendo, per altro, mezzi di trasporto su gomma, rotaia o personali da dover prendere per fare rientro ai naturali domicili, trovandosi evidentemente già a casa. Per questa ragione è emerso tra l’altro che il 21% degli intervistati da LinkedIn ha dichiarato appunto di faticare non poco per staccare la spina a fine giornata.

Interessante poi anche un altro aspetto emerso, ossia che il 36% del campione ammette che tali nuove aspettative di feedback, da parte dei datori di lavoro, induce gli stessi lavoratori a “dover fingere” ogni tanto di essere concretamente occupati mentre lavorano da casa.

Paradossalmente la citata sindrome da Burnout può essere anche collegata in qualche modo al fatto di lavorare “obbligatoriamente” da casa che concettualmente si pone quasi come un ossimoro rispetto al significato e ai benefici di autonomia e autogestione che si rilevano dallo smart working.

Di fatto questo modello organizzativo di “fare lavoro” avrebbe insito un miglior “favor” per il lavoratore appunto, per mezzo ad esempio di una maggiore flessibilità e indipendenza, in un ambiente lavorativo casalingo e proprio per questo accogliente e confortevole, la possibile autonoma ampia scelta di orari di impiego, senza per questo causare mancati raggiungimenti degli obiettivi aziendali.

Il termine Burnout può tradursi concettualmente in italiano come “esaurimento” una sorta di decadimento emotivo correlato allo stress da eccessivo carico di lavoro. Si può affermare che la sindrome da Burnout è la conseguenza di una condizione stressante intensa e prolungata nel tempo che colpisce principalmente soggetti che esercitano professioni di aiuto. Tale fattispecie negli anni si è estesa a tutti quegli ambiti professionali che portano il lavoratore a sperimentare esperienze altamente stressanti, e quindi non limitate ai lavori di aiuto, sostegno, supporto, ecc.

Menzionando sempre la sopra richiamata indagine LinkedIn dalla stessa è emerso che per il 18% dei lavoratori il benessere collegato con la salute mentale è stato negativamente influenzato dal fatto di lavorare da casa.

Il 27% ha dichiarato di avere problemi nella gestione del sonno. Il 22% denuncia di avere degli stati di ansia, ed ancora un 26% manifesta una scarsa concentrazione durante il giorno. Da qui è facile dedurre l’intimo legame tra il nostro benessere psicologico come lavoratori connesso ad altri fattori come la produttività e la capacità di lavorare in team.

Olivieri Pennesi 41 2Risulta altresì chiaro di come siano variegati gli elementi che possono agevolare il cosiddetto Burnout. In primo luogo il poter diluire l’orario lavorativo sull’intera giornata può risultare poco vantaggioso. Il lavoratore in tal modo sente per così dire di non riuscire a staccare mai. Non di meno anche la totale mancanza di confini fisici nell’ambiente circostante, ha la sua incidenza. Le nostre abitazioni si fondono con gli spazi professionali e lavorativi, rendendo promiscue aree e spazi destinati in origine ad altre utilizzazioni.

Anche gli equilibri tra lavoro, famiglia, tempo libero, subiscono modificazioni. Non da meno la “destrutturazione del tempo” diventa una costante, mentre si lavora, magari, si svolgono attività domestiche, pulizie, cucina, hobbistica, ecc. altrettanto di frequente si vedono coesistere attività di assistenza, gestione familiare o aiuto ai figli, per lo svolgimento dei compiti scolastici, o altrettanto assistenza ai genitori anziani o supporto ai familiari diversamente abili, il tutto mischiato in un frullatore di ruoli, azioni, impieghi.

Con altrettanta evidenza è giusto osservare che tale tipo di stress ossia anche la capacità di trovare un giusto equilibrio tra vita privata e lavoro, vede soggiacere e soffrire maggiormente il genere femminile rispetto al genere maschile.
 

Psicologicamente Smart, il fattore Resilienza


Da un punto di vista prettamente psicologico questo nuovo modello di lavoro che abbiamo sperimentato così massivamente, a causa dell’evento pandemico del coronavirus, ha fatto sì che emergesse in noi una caratteristica particolarmente importante e fondamentale per far fronte adeguatamente alle difficoltà contingenti.

Stiamo evidentemente parlando della cosiddetta “Resilienza”, ossia la capacità di reagire proattivamente e al contempo positivamente, in contrapposizione ad un danno subito o anche una più generale situazione negativa e quindi deleteria per il nostro vivere quotidiano.
Quello che si è prospettato appunto con lo straordinario ricorso allo strumento dello “Smart working”, laddove quest’ultimo risulta più assonante allo storicizzato “Telelavoro” prevede una maggiore rigidità di orari con postazioni e luoghi di lavoro certi proprio in quanto ci si trova in casa e/o nella propria abitazione o dimora.

In sostanza questo modello più puntualmente definibile “Home working”, contrariamente alla Smart working, si caratterizza per una minore autonomia nel gestire il proprio lavoro come pure gli obiettivi da raggiungere, viceversa nella maggior parte dei casi devono essere rispettati più rigidamente orari di lavoro standard.

Ma passiamo ora a tentare di riepilogare, dopo aver dato conto, in grandi linee, delle diversità esistenti tra lo smart working e l’Home working, di quelli che sono i vantaggi e gli svantaggi proprio dello smart working, dal punto di vista psicologico.

È indubbio che il lavoro agile prevede un rilevante sforzo cognitivo e non meno una crescente responsabilizzazione del lavoratore dimostrando capacità di autogestione, influendo con questo, positivamente, sulla motivazione al lavoro e soddisfazione di vita.

Al contrario, per quanto attiene gli svantaggi, per questa modalità di lavoro, uno è certamente il rischio di potenziale isolamento. Indubbiamente recarsi quotidianamente al lavoro rappresenta una occasione per relazionarsi con l’universo dei colleghi, ma anche per un accrescimento interiore.

Esiste al contempo anche il rischio, non recandosi fisicamente al lavoro, che l’immanenza e pervasività dei personali contesti familiari, quanto essi siano caratterizzati da situazioni difficili, come la presenza di persone disabili nel nucleo familiare, i rapporti conflittuali col coniuge, figli, affini rispetto alla tendenza naturale all’isolamento anche per forme d’ansia o esigenza di solitudine.

Tutto questo influisce negativamente sulla salute psicologica dei lavoratori “costretti” allo smart working.

Obblighi del datore di lavoro, anche in materia di lavoro agile, sui rischi legati all’attività svolta dai prestatori, anche e soprattutto sui rischi cosiddetti di natura generica. Una particolare valenza assumono, a mio parere, anche in un contesto esterno eccezionale quale quello pandemico, l’incremento dei rischi psicologici, qualora il lavoro venga sostanzialmente svolto in casa, in compresenza con i propri familiari.

Torniamo quindi ancora una volta a porre l’accento su quante criticità emergano nel caso in cui vi siano lunghi periodi di prestazioni lavorative al di fuori delle sedi di servizio. Ritengo che il datore di lavoro debba garantire l’adozione di misure tese a prevenire l’isolamento del lavoratore a distanza, quali ad esempio la possibilità di cadenzare opportune giornate lavorative in presenza, dove sarà possibile incontrare i colleghi e scambiare informazioni ed esperienze fatte.

Le Amministrazioni ed imprese debbono, credo, attuare permanentemente strategie che assicurino il concreto e giusto coinvolgimento delle persone/lavoratori, affinché si sentano parte attiva ed integrante dell’organizzazione cui appartengono.

Lavorare da casa frequentemente significa immergersi totalmente nelle proprie attività perdendo la cognizione del tempo e del contesto in cui ci si trova. Spesso il pc o tablet o smartphone, con cui si opera, rimangono permanentemente accesi, da quando ci si sveglia a quando si va a dormire la sera.

Possono esserci dei problemi correlati di “ansia” rispetto ai risultati lavorativi ottenuti, perlopiù rispetto alle richieste od attese dai datori di lavoro nei confronti dei dipendenti. Quindi lo stress causato, viene percepito dal lavoratore come uno squilibrio tra le richieste dell’organizzazione di ambito lavorativo eccedenti le capacità individuali possedute. Da qui il pensiero che una prolungata esposizione dei lavoratori a fattori “stressogeni” può verosimilmente rappresentare fonte di rischio per la salute degli individui, siano essi psicologici che prettamente fisici, e ciò evidentemente riduce l’efficienza sul lavoro sia esso in presenza che non di meno da remoto.
 

Il Whole Working – lavorare come non ci fosse un domani


Per Whole Working si può intendere la concezione del lavoro che viene a collocarsi sopra ogni cosa, all’apice della nostra scala valoriale. A tal riguardo parallelamente le aziende e amministrazioni possono attuare un controllo costante e al contempo asfissiante nei confronti dei lavoratori dipendenti.

Può verificarsi anche una sostanziale moltiplicazione delle attività da svolgersi, con relativi obblighi operativi, costringendo quindi chi lavora a superare l’orario lavorativo d’ufficio. Anche la stessa reperibilità diventa oggettivamente per così dire massima. Ciò cagiona il fatto di non venire garantita nessuna limitazione di tempo di impiego della forza lavoro, né tanto meno il doveroso rispetto dei ritmi e delle circostanze della vita privata.

Olivieri Pennesi 41 3A questo sarebbe opportuno contrapporre la necessità che ogni lavoratore agile debba essere legittimamente “formato” ad un corretto utilizzo del tempo, previo svolgimento di specifici corsi, proprio in quanto tale elemento sarà gestito per lo più in modo evidentemente autonomo. Ciò non di meno continuano a sussistere delle regole sugli orari da dover rispettare.

Quindi in una parola rivedere e rafforzare le competenze di gestione del tempo, ma direi più in generale approfondire le necessità formative utili affinché il cambiamento organizzativo complessivo possa avere successo. Pertanto gestire un corretto processo formativo che volga lo sguardo non solamente sulle specifiche attività del lavoratore da svolgersi, ma anche alla formazione vertente su aspetti organizzativi generali, anche psicologici, sui rapporti organici esistenti tra persone e organizzazione, su come gestire ad esempio le riunioni da remoto (le cosiddette call) collegandosi previo uso consapevole delle diverse piattaforme, con un occhio attento alle criticità, ad esempio in materia di privacy
 

Smart working tra rischio e opportunità


Certamente non è negabile che questo innovativo modello di lavoro, per la sua concreta implementazione, cela alcune difficoltà. Iniziando da un punto di vista pratico occorre dotare ai cosiddetti smart worker la giusta e moderna strumentazione informatica, come pure disporre a livello nazionale di una adeguata infrastruttura tecnologica quale una rete capillare in fibra ottica, un ampio collegamento satellitare, e un sistema parcellizzato e uniforme sul territorio, della tecnologia 5G, che sia effettivamente e validamente diffuso quindi su tutto il territorio nazionale, settentrionale, meridionale e isole comprese.

Parimenti, altro tassello irrinunciabile, per questa epocale trasformazione, è rappresentato dalla formazione del personale. Si dovrebbero curare in particolare aspetti concreti e temi come la pianificazione del lavoro, la capacità di operare rispetto al “problem solving”, il monitoraggio delle proprie attività, i processi di feedback, ecc.

D’altro canto anche le imprese ed Amministrazioni nella gestione del personale, dovranno saper istillare una diversa e più ampia cultura dei valori organizzativi aziendali tipici.

Ma è proprio il cambiamento nell’organizzazione del lavoro, che si è avuto in maniera così repentina a causa di questa vicenda pandemica, senza una adeguata valutazione e azione formativa che ha cagionato in maniera diffusa ansia e stress nei lavoratori, questo sicuramente ha rappresentato un rischio tangibile e visibile.

Come si è già evidenziato, in precedenti passaggi, giova ulteriormente sottolineare come lo smart working rappresenti anche svantaggi e difficoltà quali gestire il tempo, gestire l’isolamento, gestire le motivazioni, gestire i fattori personali e di contesto.
Andando con ordine, primariamente modulare bene il tempo significa, per chi lavora da casa, superare le difficoltà di riuscire a sapere individuare, in maniera netta e chiara, il tempo di lavoro e il restante tempo di vita casalinga. Gestire anche l’isolamento in maniera intelligente, facilitando comunque determinati aspetti sociali della vita lavorativa, da non tralasciare anche da remoto, e necessari per il benessere del lavoratore (ad esempio garantendo un certo numero di videochiamate “non lavorative” con i colleghi).

La stessa motivazione al lavoro, pur non avendo la presenza fisica dei colleghi e/o superiori gerarchici, deve avere il suo spazio, sapendo magari far emergere stimoli interiori come dignità personale, evitando di abbassare la qualità delle prestazioni lavorative, avendo coscienza del giusto senso di responsabilità.

È innegabile, a questo punto, affermare che in questo anno orribilus 2020 per il nostro Paese (ma dovremmo dire per tutto il mondo) si sia creato un enorme laboratorio di revisione dei processi e metodi lavorativi.

Proprio lo smart working ne rappresenta, usando un termine forte, la “cavia” da testare, al fine di verificarne efficacia e produttività. Di sicuro l’improvvisazione non è ammissibile, è necessario studiare, ponderare, pianificare azioni ed investimenti, avendo ben presente che comunque deve rimanere al centro la figura del “lavoratore” con i suoi portati di capacità e conoscenze inevitabilmente “dinamiche” garantite da una “dignità” irrinunciabile.

Ad ogni modo l’efficienza dei lavoratori anche se siano smart worker, si misura principalmente dal loro “benessere psicofisico”.

L’Osservatorio del Politecnico di Milano sullo smart working ha potuto analizzare che mediamente i lavoratori agili presentano un grado di soddisfazione e coinvolgimento nelle proprie attività, molto più elevato di chi lavora in modalità tradizionale: 76% i primi contro il 55% dei secondi. Circa il 33% dei lavoratori smartizzati si sente pienamente coinvolto nelle realtà in cui opera, condividendo obiettivi e valori, di contro solo il 21% di essi, se si parla di lavoratori in presenza.
 

Conclusioni


Olivieri Pennesi 41 4In conclusione possiamo affermare come la capacità di “discernimento” e di scelte consapevoli dei lavoratori come anche dei datori di lavoro, debbano essere l’elemento caratterizzante ed irrinunciabile per porre in essere nuovi piani di sviluppo ed evoluzione per tutto il mondo del lavoro.

La psicologia, d’altro canto, declinata ai temi lavoristici e alle nuove forme di “fare e dare lavoro”, assurge ad un ruolo fondamentale nella creazione e gestione d’imprese sia private che pubbliche.

Il benessere psicofisico deve poter essere, anche nell’ambito dei molteplici contratti collettivi nazionali, elemento irrinunciabile di necessaria qualificazione. Sempre più in prospettiva la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro deve poter fare i conti con nuovi tipi di cosiddetta “morbilità” o “comorbilità” collegate alla sfera psicologica e psicosociale delle maestranze lavorative, tutte.

Altro delicato aspetto riguarda il tema della durata e quantità lavorativa quotidiana, ma non di meno della durata della vita lavorativa rispetto al momento della quiescenza, dell’evoluzione dei modelli di lavoro e delle diverse e variegate esposizioni ai rischi infortunistici generici e specifici e/o la contrazione di patologie comunque invalidanti, causa lavoro. Quadrato Rosso

[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Dirigente dell’INL, Capo dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Terni-Rieti. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione cui appartiene.

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