Fino a che punto il lockdown, anzi la chiusura [come ci invita a definirla Francesco Sabatini, linguista e Presidente Onorario dell’Accademia della Crusca] ha inciso sulla percezione del “lavorare stanca”, ma ancor più quanto ha contribuito ad ampliare una sorta di solco sociale?
Talché trova corretto fondamento nella definizione “distanziamento sociale”, quello che pareva un aggettivo improprio a svantaggio del più pertinente [distanziamento] fisico o spaziale.
Nel pubblico impiego l’attenuata e dilatata, per non dire scarsa od addirittura inesistente, risposta alle istanze dei cittadini aumenta in questi un senso di malessere nei confronti degli operatori ritenuti “in perenne vacanza”.
E a ciò può portare una lettura distorta dell’indagine presentata al Forum PA nello scorso mese di giugno, che evidenziava il desiderio del 94% dei dipendenti della PA di proseguire con lo smart working.
E qui qualcuno potrebbe sottolineare che il lavoratore pubblico esprimeva preferenza per il lavoro agile [che non prevede una postazione fissa, senza vincoli di spazio e con la sola previsione di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva], piuttosto che per il telelavoro [che ha il vincolo di una postazione fissa e prestabilita, con gli stessi limiti di orario che avrebbe in ufficio].
Ma a molti sfugge che la responsabilità è solo in capo a chi in vent’anni non ha saputo adeguare l’apparato burocratico-amministrativo a più moderne e tempestive forme di risposta.
Basti pensare che il legislatore ben prima della codificazione del “lavoro agile”, già con l’art. 4 della legge 16 giugno 1998 [millenovecentonovantotto!?], n. 191, introducendo il Telelavoro si era posto lo «scopo di razionalizzare l'organizzazione del lavoro e di realizzare economie di gestione attraverso l'impiego flessibile delle risorse umane … previa determinazione delle modalità per la verifica dell'adempimento della prestazione lavorativa».
Ma anche di questo si possono leggere su queste pagine interessanti contributi di Paolo Cataldi, con “Effetti collaterali”, e di Stefano Oliveri Pennesi, con un focus su “La psicologia nel lavoro agile”.
Importanti riflessioni sullo Smart Working anche da parte di Omar Mandosi con, in questo caso, una “retrodatazione” alla c.d. Legge Madia atta a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.
E, a proposito di “retrodatazione”, era il lontano Luglio 1992 quando proposi all’allora appena nominato ministro del Lavoro, del quale [diceva lui] ero già da anni uno stretto collaboratore, forme di lavoro a distanza.
Confesso che ero rimasto affascinato dalle teorie dell’economista Raveendra Nath "Ravi" Batra, che mi era parso particolarmente sensibile alle questioni ambientali ed all’impatto su queste causato dalla mobilità anche urbana.
Le mie proposte che mi parevano meritevoli di approfondimento, se non altro per l’immagine di novità che avrebbero rappresentato per un Dicastero eccessivamente ingessato nella burocratica e nella inutilmente ripetitiva autoreferenzialità, non ebbero alcun immediato “entusiastico” apprezzamento … e non tornai più sull’argomento.
Ora, a distanza di quasi un trentennio e sulla scorta di una mia altalenante esperienza politico-giuridico-amministrativa sia in sede centrale che periferica, sono portato a ritenere che ciò avrebbe necessitato un impegnativo ed articolato approccio multidisciplinare al quale la gerontocrazia non sarebbe stata affatto disponibile [leggasi capace].
Soprattutto in questi mesi, complice il [la?] c.d. Covid sono stati approfonditi [solo approcciati?] molti aspetti del lavoro non in presenza, in un indistinto calderone in cui sono stati inseriti telelavoro, lavoro agile, smart working, lavoro decentrato e quant’altro senza considerarne le specifiche peculiarità.
Ma non è in questa sede che mi pongo l’obiettivo di una trattazione [confutazione?] giuslavoristica che definisca confini e differenze o valuti aspetti socio-economici e contrattuali.
Segnalo al proposito i molti preziosi interventi anche sui numeri precedenti di Lavoro@Confronto e “altrove”, fra i tanti, il recente “manuale” di Marco Bentivogli con il suo “In dipendenti. Guida allo smart working” edito da Rubertino che si sofferma su questioni pratiche e best practices [rectius, buone pratiche] replicabili.
L’imposizione di un “nuovo modo di lavorare” attraversa, infatti, tutto il mondo lavorativo ove si considerino i forti cambiamenti persino per molte libere professioni ora divenute “liquide”: senza più necessità di una sede fisica [lavorando da casa, in videoconferenza, in co-working, o presso il cliente] e “portandosi dietro l’ufficio” con il cloud.
Qui, per un attimo, vorrei però abbandonare qualsiasi velleità di operatore del diritto e/o di apprendista sociologo del lavoro ed accennare considerazioni, sia pur sommarie, del quisque de populo, per altro circoscritte al pubblico impiego.
Temo, infatti, che l’emergenza ed il radicale cambio di mentalità imposto e che ha dato vita a nuove modalità di lavoro abbiano incentrato l’attenzione solo sugli operatori, glissando sul connubio imprescindibile che deve intercorrere con l’utente-cliente.
Con colui che, in buona sostanza, giustifica l’erogazione del servizio ed il posto di lavoro.
La prestazione lavorativa pubblica è irreversibilmente indirizzata all’adozione di criteri di misurazione basati sui risultati … che spesso non è oggettivamente possibile misurare.
A tal proposito mi pare ingeneroso qualificare negativamente e con facili battute ironiche soluzioni adottate nel tempo. E penso immediatamente alle “faccine” cliccabili in quantità e anonimamente per il doveroso rispetto della privacy.
Ora il problema è come recuperare un rapporto più stretto con il cittadino ed evitare che questo consideri in perenne vacanza il pubblico dipendente che lo assiste “da remoto”.
Certo non risolvono le attuali “carte dei servizi”, e sono quasi una beffa i regolamenti per la definizione dei termini di conclusione dei procedimenti, considerato che non sono presidiati da efficaci strumenti sanzionatori. Con una “prova diabolica” in capo a chi ha subito eventuali pregiudizi per ritardi che l’Amministrazione attribuirebbe genericamente e con faciloneria … al Coronavirus [N.B.: esperienza vissuta].
Ma peggio ancora quando un’Amministrazione non fornisce sul proprio sito web precisi riferimenti anche solo per sapere a chi rivolgersi per quella “informazione al volo” che prima si poteva ottenere in tempo reale allo sportello.
Sicuramente il rapporto va tenuto con l’Amministrazione e non con il singolo operatore, ma attendere lo smistamento delle telefonate da parte del centralino [troppo spesso intasato] e delle mail arrivate alla pec istituzionale, allunga i tempi e lo sconforto [per usare un termine urbano].
Per non parlare dei messaggi lasciati nelle caselle vocali dei numeri trovati occupati e/o non “momentaneamente” disponibili, o delle telefonate “che cadono” durante una risposta poco persuasiva lasciando il numero “momentaneamente occupato”.
Indubbiamente sarà fondamentale un complessivo ridisegno del lavoro nella Pubblica Amministrazione, ma non meno importante una maggiore assunzione di civile responsabilità da parte di ciascun operatore che non può sentirsi [ed essere percepito] in vacanza per il solo fatto che lavora da casa o, magari [e legittimamente], dalla seconda abitazione ubicata in località turistica.
Ma, anzi, la possibilità di miglior conciliazione tra tempi di lavoro e qualità della vita, offerta dal lavoro agile, dovrebbe indurre ciascun pubblico dipendente ad un rapporto più sereno e di maggior disponibilità nei confronti dell’utenza.
[*] Direttore Responsabile di Lavoro@Confronto
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