Iniziamo queste riflessioni tentando di dare un senso attuale e una spiegazione al titolo scelto. I due termini che ho inteso appaiare: lavoro e resiliente, risultano essere, a mio parere, fondamentali quantunque dinamici, ancor più in questo tempo di pandemia che sta “avvolgendo” in maniera globale il nostro mondo, con le sue declinazioni sociali, economiche e non di meno “antropologiche”.
Dobbiamo, imprescindibilmente, partire da come le “scienze umane” si prospettino verso una visione necessariamente complessa dell’essere uomini e menti pensanti, in una società antropologicamente divenuta globalizzata, fatta di relazioni sempre più evolute con contaminazioni e scambi economici, culturali, sociali, scientifici.
Con il termine “resilienza” così ampiamente ma anche inappropriatamente utilizzato e aggiungo inflazionato, entrato nel gergo attuale di scienziati, politici, giornalisti, opinionisti, docenti, letterati, ecc. è possibile indicare induttivamente: resistenza, energia, spinta ad andare avanti e a non arrendersi e mi permetto di aggiungere il termine “rinascita”. Quindi non di meno si può parlare di resilienza in termini di risposta alle avversità, ai timori, alle negatività della vita, sapendole affrontare sul versante emotivo e comportamentale.
Le persone divengono “resilienti” anche in virtù del contesto sociale in cui vivono e si confrontano e quindi in presenza di un ambiente circostante che influenza scelte e percorsi di esistenza comportamentali e sociali che ci pongono di fronte alle difficoltà del vivere, inseriti nel contesto delle comunità culturali umane e nelle relazioni affettive.
Distinguiamo, perciò, la cosiddetta “resilienza sociale” degli altri tipi di resilienza, concentrando la nostra osservazione, nei presenti scritti, rispetto alle implicazioni con la sopravvivenza, l’adattamento, alla utilizzazione di meccanismi sociali di azione concomitante e collaborativa nel nostro essere una “società economica” basata indissolubilmente sulla produzione, sui consumi, sul lavoro.
Ad ogni modo è bene rimanere nella consapevolezza che esiste, in parallelo alla resilienza di natura sociale, un altrettanto importante modello scientifico e filosofico di resilienza, anch’esso fondamentale per quanto riguarda la necessità, in questa stagione di emergenza sanitaria mondiale, di approcciarsi in un modo concreto di comportamento, di cognizione, di azione.
Partiamo ora dall’assunto che saper affrontare i cambiamenti, anche quelli decisamente negativi, significando il fatto che si reagisce alle difficoltà, con capacità inventive e risorse umane interiori, anche psicologiche.
In questo anno 2020 la nostra moderna società si sta contrapponendo, con tutte le sue risorse, alla gestione dei rischi sociali ed economici, causati dall’emergenza del Covid19; a questo è, a mio modesto vedere, possibile contrapporre in primo luogo una “resilienza” che guardi a nuovi modelli di “organizzazione” di vita che implica scelte e visioni diverse dal passato, nell’universo sociale, dell’economia, della produzione, dei consumi, del lavoro, della cultura, della salute, del welfare, della scienza, dell’ambiente, dell’ecologia, della tecnologia, della psicologia.
In una parola riuscire a costruire un sistema sociale complesso che abbia la qualità di adattamento ai cambiamenti, anche quelli forzati ed imprevisti come calamità sanitarie, naturali, climatiche, economiche.
Lo scenario socio-economico che ci si prospetta in maniera evidentemente “incerta” a causa della pandemia da Covid19, che stiamo conseguentemente patendo, richiede, da parte dei decisori politici ed istituzionali, uno sforzo concentrico necessario per guidare con linee strategiche chiare la ripresa, la crescita, l’innovazione.
In questo può innestarsi un’azione “resiliente”, termine oltremodo appropriato, in questo caso, per descrivere un opportuno nuovo senso di appartenenza nelle comunità, nel paese, nelle imprese sia private che pubbliche, in un contesto di irrinunciabile maggiore “inclusività” anche per fronteggiare al meglio le troppo accentuate “disuguaglianze” sociali di cui soprattutto i paesi maggiormente industrializzati evidenziano, che inevitabilmente influiscono in termini di povertà relativa ed assoluta.
Questa vicenda pandemica ci sta inducendo a ragionare sul fatto che il futuro delle nostre società non potrà mai considerare mancante il comune bisogno che nessuno venga lasciato indietro. A questo dobbiamo aggiungere un altro elemento che dovrà catalizzare l’azione di chi, nei vari Paesi, ha le responsabilità delle scelte governative.
Mi riferisco chiaramente alle più o meno diffuse carenze tecnologiche, in concomitanza di una corsa accelerata alla “digitalizzazione”, con il suo portato di rischi correlati all’utilizzo delle tecnologie.
Sul versante lavorativo ridefinire complessivamente perimetri e sviluppi delle produzioni di beni e servizi. Razionalizzare ed efficientare appunto le varie tipologie di produzioni, riconfigurarsi ai mutati e differenziati bisogni della collettività.
Ci si è resi conto che l’impiego massimo della tecnologia, nel mercato globale, ha fatto sì che le strutture produttive divenissero maggiormente “agili” e questo per mezzo degli efficientamenti, e dico anche centralizzazioni dei processi, nella catena di approvvigionamenti e forniture di quanto richiesto dal mercato.
Lo stesso dicasi per il verificarsi di stop and go produttivi, con interruzioni e riprese parziali o totali, con riverberi conseguenti sui cosiddetti iter della logistica, ridefinendo anche le connesse reti di trasporto. Ci si è anche dovuti approcciare ad una diversa e innovativa pianificazione simultanea della domanda.
Milioni di persone collegandosi alla rete, da remoto, hanno scoperto un diverso modo di lavorare, di studiare, di creare, di fare acquisti, di socializzare.
Usando delle piattaforme sempre più semplici ed agevoli ma anche multifunzione, abbiamo scoperto di poter comprare e vendere con sistemi di e-commerce, svolgere lunghe riunioni (o con termine più trendy conference call), tra colleghi, aziende, Amministrazioni, usando differenti tipi di programmi creati per tenere, appunto, videoconferenze.
Le nostre giovani generazioni e relativi docenti, si sono dovuti adattare ed approcciare alla cosiddetta DaD - didattica a distanza.
Le stesse Università si sono anch’esse dovute misurare con un sistema didattico non in presenza, così come di conseguenza allo svolgimento degli esami e delle sessioni di laurea; ma a distanza anche i consigli di Facoltà e di Ateneo e il ricevimento degli studenti. Garantendo così una continuità operativa, ma senza precedenti.
Insomma, abbiamo assistito e assistiamo ad una “rivoluzione immateriale” partita necessariamente dal basso, producente in primis una nuova “dimensione lavorativa” con una cultura digitale carente e conseguentemente in via di costruzione, che dovrà fare i conti con le primarie questioni della “sicurezza informatica” e della Privacy delle persone.
Torniamo quindi a menzionare, ancora una volta, il bisogno di una “resilienza organizzativa e dell’organizzazione” che implica dei cambi di visione e di paradigma, rispetto al passato.
Avremo sempre più bisogno che le organizzazioni diventino maggiormente fluide, agili e flessibili per rispondere al meglio alle mutate sollecitazioni esterne sociali ed economiche.
Gli attori delle aziende, imprese, Enti, Amministrazioni, devono vedersi coinvolti e valorizzati in questo epocale cambiamento della società. La formazione preventiva e permanente deve tornare ad essere motivo di ingenti investimenti.
Educare ai cambiamenti, una stella polare nei nuovi assetti delle organizzazioni; ma il nucleo fondamentale, nei successi che si realizzeranno nei diversi settori, è rappresentato dalle persone con il loro lavoro, il loro impegno e ingegno in ciò che realizzeranno.
In questo insieme, così descritto, un elemento di criticità è comunque rappresentato dalle persone, settori della produzione, mercati, che potrebbero rimanere indietro, rispetto ad un contesto esterno che cambia, si evolve, si riconfigura in maniera veloce e tumultuosa.
Ciò avviene all’interno della società con contesti mutevoli con cui bisogna fare costantemente i conti.
In questo, bene sarebbe per la collettività che esista in genere un “profitto”, non solamente fine a se stesso, a vantaggio di troppo pochi soggetti, sugli sforzi di molti che sono la schiacciante maggioranza, per cui si dovrebbe perseguire un profitto “maggiormente” condiviso, sviluppando, conseguentemente, un livello adeguato di equilibrio tra sfera umana, sociale, ed economica.
Una parola potrebbe ben riassumere questi concetti ossia il “bene comune” e questo a vantaggio delle persone, dei singoli.
La ricerca del “giusto profitto” non può essere compressa in un “valore utopico” ma può e deve rappresentare un vantaggio per la collettività che genera pace sociale, comunità, condivisione di beni primari irrinunciabili, ponendo a salvaguardia gli equilibri globali, in una “diversa narrazione economica”.
Passiamo ora a riflettere di come le scienze sociali siano chiamate in causa per quanto attiene una visione prospettica del mondo che sarà rispetto alla società, all’economia, al lavoro, alla produzione e commercio, all’ambiente, dopo questo evento pandemico di epoca moderna.
Ciò può avvenire in virtù proprio del ricorso alla pluri menzionata “resilienza” che deve avere connotati sia personalistici che collettivi. Da un lato resistere e contrastare singolarmente eventi difficili e infausti che attanagliano le nostre esistenze, dall’altro lato uno shock che avvolge i vari sistemi sociali e le collettività umane, tale da rivoluzionare i nostri modi di vivere e il nostro futuro.
Ritengo plausibile affermare come proprio la resilienza rappresenti un elemento di rilevante importanza in ogni ambito lavorativo. Tale caratteristica sempre più viene ricercata da qualsivoglia datore di lavoro per le proprie maestranze.
Il tema che oggettivamente più ci riguarda, si lega anche alla presenza innata, in noi, di questa caratteristica ovvero la sua acquisizione come valore “esogeno”. D’altro canto, sommessamente, io sostengo la tesi che la resilienza in parte si detiene, ma in parte si costruisce.
Resilienti sul lavoro può significare la nostra capacità di essere “duttili” in rapporto con le situazioni estreme che possono crearsi in ambiente lavorativo, mettendo alla prova le nostre capacità reattive.
Plausibilmente parliamo di abilità che crescono parallelamente alle esperienze di vita e di lavoro e che assommiamo nel tempo, nella consapevolezza di doti e di limiti personali. A questo aggiungiamo il necessario grado di conoscenze di noi stessi, consapevolezza delle nostre emozioni, soprattutto nei momenti di tensione. Adeguato controllo dello stress anche gestendo le insicurezze, governando in particolare possibili sentimenti negativi. Essere anche flessibili rispetto ai pensieri altrui, di colleghi, superiori, o sottoposti, aumentando per quanto possibile le capacità di ascolto, evitando contrasti, fraintendimenti, discussioni sterili.
Nel perseguire obiettivi lavorativi, di medio e/o lungo termine, si richiedono adeguate dosi di pazienza e perseveranza, controllando impulsi e astenendosi da decisioni non ponderate. Anche questo risulta essere una componente della resilienza.
Iniziamo questa parte delle nostre riflessioni menzionando le parole del Santo Padre in occasione del recente evento svolto on line, dal titolo “The economy of Francesco”, eccole: “cari giovani, le conseguenze delle nostre azioni e decisioni vi toccheranno in prima persona, pertanto non potete rimanere fuori dai luoghi in cui si genera non dico il vostro futuro, ma il vostro presente. Voi non potete restare fuori da dove si genera il presente e il futuro, o siete coinvolti o la storia vi passerà sopra”.
L’obiettivo strategico di questo recentissimo evento internazionale svoltosi significativamente nella città di Assisi in Umbria, presso il Sacro Convento di San Francesco, nello scorso novembre, è quello di affermare la fondamentalità dell’azione delle giovani generazioni al fine di gettare le basi in tutto il mondo per costruire un’“economia più giusta, inclusiva e sostenibile e per dare un’anima all’economia del domani”, in un quadro di “economia e di sviluppi economici alternativi alla logica economica effettivamente esistente nella maggior parte del mondo e di solito denominata capitalistica” per ipotizzare un modello economico contrastante con quello attualmente vigente, che sinteticamente possiamo definire come il poter “praticare un’economia diversa” per vivere, includere, umanizzare, non dimenticando la cura dell’ambiente e del creato, anche per dare un’anima all’economia del domani.
In questo nuovo “disegno” dell’economia risulta indispensabile avviare un cambiamento profondo che riguardi in primo luogo il dover dare il giusto valore ai cosiddetti “beni relazionali” come pure ai beni morali, al fare impresa, al costruire lavoro anche nelle sue nuove forme strutturate in base alle innovate tecnologie.
Per tutto ciò indispensabile è certamente investire sulla formazione delle risorse umane, morali, spirituali. Permettere quindi la crescita e primazia di una classe lavoratrice e imprenditoriale con elevate “risorse morali” da mettere al servizio dell’intera collettività.
Quello di cui parliamo è la diffusione di modelli economici che non si basino sull’immediatezza dei profitti o anche su un’azione, dei decisori di politiche pubbliche, che ignori i costi umani, sociali e ambientali con scelte economiche di breve termine e respiro.
Parliamo quindi, e non utopicamente, di una possibile “umanizzazione del sistema economico” che volga lo sguardo verso una maggiore giustizia sociale ed ambientale, pur contemplando un mercato con dimensione “profit”.
È anche opportuno però tenere presente il bisogno per le nostre economie di efficaci sistemi di welfare avanzato. Questa crisi pandemica, che stiamo vivendo, ne è il maggiore testimone.
Non di meno in questo possono egregiamente esplicarsi le funzioni che vengono svolte dal terzo settore e da tutto l’architrave rappresentato dalle organizzazioni non profit. Senza dimenticare, al contempo, l’ineludibile e indispensabile supporto pubblico per una necessaria sostenibilità finanziaria e impiego congruo di risorse per dare giuste risposte ai bisogni collettivi quali: contrasto alle disuguaglianze, argine alla disoccupazione crescente o sottoccupazione, riduzione del divario generazionale e di genere, lotta alle povertà anche quelle culturali ed educative, miglioramento dei servizi socio-sanitari con particolare riguardo per l’assistenza per le fasce della terza età.
Mi piace altresì fare riferimento, per questa parte conclusiva, ad alcuni concetti che si traggono dal contenuto ideale dell’ultima “Enciclica”, la terza dell’attuale Pontefice, “Fratelli tutti”.
Nella stessa il termine fratellanza lo si pone al centro del pensiero globale quale concreto rimedio al dramma della “solitudine dell’uomo consumatore e spettatore chiuso nel suo individualismo e nella passività”. Mentre vi sono tendenze che intralciano questa svolta umanistica “come le distanze sociali che sembrano aumentare mentre rallenta, se non addirittura regredisce, il percorso verso un mondo più giusto; i nuovi conflitti e le forme di nazionalismo emergenti, la politica che si riduce a marketing, il prevalere della cultura dello scarto….”.
Di seguito reputo interessante richiamare alcuni passi “illuminanti”, della menzionata Enciclica, in quanto motivo di possibili riflessioni culturali e intimiste.
La sfida futura, per tutta l’umanità, riguarda il grado di “Resilienza” che sapremo esprimere partendo proprio da questo evento triste e tragico che si è concretizzato nella pandemia globale da Covid19.
Ritengo che tutti i governi mondiali siano sollecitati alla possibile creazione di un modello economico differente, quale quello dell’Economia circolare, sostenibile ed inclusivo, avente delle direttrici con contaminazioni permeate dalle attuali criticità mondiali come: la povertà, l’ambiente, le disuguaglianze, l’uso delle nuove tecnologie, la finanza inclusiva e illuminata, lo sviluppo sostenibile, la piena occupazione, le politiche di genere e di contrasto alle discriminazioni, e come già affermato dall’economista dell’Università Lumsa, prof. Luigino Bruni: “costruire un’economia nuova a misura d’uomo e per l’uomo”.
Lavorare per un modello di sviluppo delle società che non escluda ma includa e soprattutto che non genera disuguaglianze. E per citare ancora una volta le parole di Papa Francesco pronunciate per i partecipanti all’evento da lui voluto ad Assisi lo scorso novembre 2020, ricordiamo queste: “… impariamo a far avanzare modelli economici che andranno a vantaggio di tutti…”.
Per concludere reputo sommessamente doveroso fare una citazione tratta, quale frase emblematica, della summenzionata Enciclica Papale che racchiude in sé il pensiero più rappresentativo della dottrina di Francesco, ossia: “Voglia il cielo che non ci siano più *gli altri* ma solo un *noi*”.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Dirigente dell’INL, Capo dell'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Terni-Rieti. Le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’Amministrazione cui appartiene
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