Siamo stati compagni di classe per sei anni, dalla terza media al terzo liceo, che rappresentano uno dei periodi più belli dell’esistenza umana in cui prevalgono i migliori sentimenti: gioia di vivere, coraggio fino alla sfrontatezza, fiducia nel futuro. Va detto che allora tali sentimenti erano molto diffusi in tutte le età e classi sociali, anche in quelle meno abbienti perché nonostante la ancor diffusa povertà, si aveva la consapevolezza che, attraverso uno sforzo e un impegno comune mai visti in precedenza e neanche nei decenni successivi, si sarebbe creato un futuro migliore in tutti i settori della società.
Compagni di scuola ma non solo; eravamo legati anche da un rapporto di amicizia fuori dalle aule scolastiche. Appartenenti all’ampia fascia della piccola borghesia, eravamo poveri in canna perché le nostre famiglie avevano dovuto sopportare gli anni terribili della guerra e del dopoguerra ed erano in grado di soddisfare solo i bisogni primari. Era stata già una scelta coraggiosa quella di farci studiare, bruciando le residue risorse per saldare i costi della scuola, allora cara come oggi e forse anche di più. Il liceo, infatti, a quei tempi era una scuola di classe, per l’elite del paese e noi eravamo in un certo senso degli intrusi. Gran parte degli studenti apparteneva a famiglie agiate che non conoscevano le nostre difficoltà esistenziali. L’esempio più evidente era rappresentato da un nostro compagno, figlio di una nota personalità del cinema che nell’anno della maturità veniva a scuola con la sua Fiat 1100, nuova di zecca, facendo sgranare gli occhi per la meraviglia a tutta la scolaresca.
Nelle nostre famiglie s’istaurava un patto, tacito o manifesto, che, in caso di fallimento, non prevedeva alcuna prova d’appello. Pertanto, in noi c’era chiaro il limite dei nostri comportamenti scolastici oltre il quale non si poteva andare: la sufficienza del profitto. Ciò nonostante, stando attenti a non valicare quella soglia, ne abbiamo combinate di tutti i colori, soprattutto nell’ultimo periodo del ciclo scolastico. Facevamo parte di una classe che era diventata il riferimento, quanto a goliardia, per tutti gli altri studenti. Tale fama è durata nel tempo al punto che quando mia figlia, dopo trent’anni, è andata allo stesso istituto, ancora si parlava di noi e di quella sezione.
In classe non c’era giorno che non trovassimo qualche diversivo al grigiore dell’insegnamento. Tanto per fare un esempio, una volta sottraemmo al gabinetto di chimica e scienze naturali uno scheletro che il bidello affermava essere di un soldato tedesco della prima guerra mondiale, ma nella realtà era una semplice riproduzione a grandezza naturale. Lo portammo in classe, adagiandolo vicino all’interruttore della luce adiacente alla porta d’ingresso. Abbassando le serrande delle finestre, l’aula piombò nel buio più assoluto in attesa che entrasse la professoressa di chimica, una cara vecchietta che, per via della fitta peluria al mento, chiamavamo La capretta. Quando entrò e accese la luce, si trovò quasi a contatto di Fritz, così chiamavamo lo scheletro, e per poco non le prese un colpo.
Un’altra volta combinammo una mandrakata che ci costò una sospensione collettiva. A fianco della nostra aula c’era quella della sezione rinomata per il suo alto numero di cervelloni e così, poiché a loro piaceva tanto la scuola, decidemmo di prolungargli l’orario scolastico, chiudendo la porta con un lucchetto.
Quando ci fu la rivolta d’Ungheria nel ’56, organizzammo uno sciopero che durò un’intera settimana. Nell’inverno dello stesso anno ci fu una delle più grandi nevicate a memoria d’uomo che divenne un’altra occasione per marinare la scuola. Il preside che ci teneva sotto tiro, considerato che le ricorrenti sospensioni non avevano ottenuto gli effetti sperati, s’inventò un sistema che in seguito fu adottato anche in altri istituti, quello della sospensione con obbligo di frequenza.
Nel ’57 Modugno lanciò la rivoluzionaria canzone Volare e subito ne facemmo l’uso migliore secondo il nostro punto di vista. Nel grande edificio scolastico oltre al liceo c’era anche l’istituto tecnico femminile e sommando tutti gli studenti, il numero certamente non era inferiore alle duemila unità. Quando suonava la campanella dell’uscita, nelle due scalinate si riversava questo fiume di ragazze e ragazzi che dovevano procedere con una certa disciplina essendo osservati dai rispettivi dirigenti. In quel periodo dal pianerottolo della scala cominciavamo a cantare il ritornello della canzone subito seguiti dall’insieme della scolaresca. Quel coro immenso e diffuso diventava come un rombo tellurico che faceva tremare le mura dell’edificio e si spegneva solo al di fuori.
È vero che il voto in condotta non superava il sette ma era compensato da un profitto notevole e questo ci salvava. Lo stesso preside nei nostri confronti aveva sentimenti misti di odio e amore. Ci puniva all’occorrenza ma era capace di affidarci compiti di un certo impegno come quello di organizzare lo spettacolo del Giovedì Grasso in una splendida sala parrocchiale, di grande capienza nei pressi della scuola. Comprendeva monologhi, scenette comiche, recitazioni impegnate e musica. Il pubblico formato dalla massa di studenti non era affatto di bocca buona e spesso si alzavano dalla platea fischi e urla di disapprovazione. Ma quando al centro della scena arrivava lui, Gigi, con la sua chitarra, esplodeva un applauso prolungato seguito da un grande silenzio. A quei tempi la sua passione era il canto non la recitazione che veniva lasciata ad altri e la sua incredibile, calda voce affascinava l’auditorio, soprattutto femminile.
Era quel che succedeva anche quando si ballava a casa sua il sabato. In quei tempi andava di moda tale innocente divertimento che ruotava periodicamente di casa in casa. In quei pomeriggi deliziosi da lui organizzati insieme alla sorella, nel momento centrale dell’intrattenimento, quando le danze subivano una sosta per la distribuzione dei pasticcini e del vermut (la Coca cola era ancora poco conosciuta) portati dagli ospiti come da tradizione, su richiesta unanime di cantare qualcosa non si faceva pregare e devo dire che rispetto al 45 giri con la squillante voce di Caterina Valente, allora di gran moda, non sfigurava affatto con le ultime novità di Frank Sinatra.
Va detto che nel primo lustro degli anni Cinquanta gli studenti amavano i cantanti americani con in testa Sinatra, mentre tra gli italiani uno spicchio veniva riservato a Teddy Reno, prima che nel periodo immediatamente successivo arrivassero i The Platters, i cantanti rock, Modugno e Dallara. Per tutti gli altri c’erano Claudio Villa e i melodici italiani
L’amicizia in quei tempi era tenuta in gran conto, compresa quella di gruppo, e per essere mantenuta viva era necessaria una continua frequentazione poiché i mezzi di comunicazione che a volte rappresentano un’alternativa, erano pressoché inesistenti. Non c’erano cellulari o cose simili e anche i telefoni fissi erano ancora rari perché le linee telefoniche, anche per i danni provocati dalla guerra, erano inadeguate. C’era il sistema del duplex, una sola linea per due utenti; aveva l’inconveniente che, a volte, quando serviva non c’era comunicazione perché, nel frattempo, il telefono era utilizzato dall’altro abbonato.
Finito il liceo, siamo andati alla Sapienza in facoltà diverse e ci siamo allontanati anche nella vita, ognuno per la sua strada. L’ho rivisto in seguito quando già era un attore affermato al Brancaccio. L’ultima volta ci siamo incontrati a Cinecittà nel 1987 in occasione della consegna dei Nastri d’argento. Al termine della premiazione, durante il rinfresco, siamo stati nello stesso tavolo fino alla conclusione della manifestazione. Una serata fantastica all’ombra dei pini sotto un cielo stellato, a ricordare in allegria gli anni della nostra gioventù. L’allegria ci ha fatto compagnia per tutta la serata. D’altra parte, in quel periodo sorridere era un modo d’essere abituale cosa che ci rinfacciavano e invidiavano gli stranieri, mentre ancora ignoravamo che stavano addensandosi le nubi di una tempesta che avrebbe sconvolto per sempre il nostro paese e il nostro modo d’essere. Da allora il sorriso è lentamente diminuito salvo quando appariva lui, Gigi, col suo grande talento. Ora che non c’è più, ci mancano anche quelle rare occasioni per estraniarci da una realtà poco edificante, mentre gli altri, lassù, se la stanno spassando con lui al centro dell’attenzione come sempre.
[*] Giornalista e scrittore. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona Onlus
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