Da dati ufficiali emerge che circa il settantacinque per cento dei vincitori del recente concorso per ispettore del lavoro ha rinunciato al posto e sembra che tale fenomeno non sia isolato perchè investe tutto il pubblico impiego. Poiché la grande massa di partecipanti, si parla dell’ottanta per cento, è del meridione, dove c’è una forte disoccupazione giovanile e intellettuale che nel corso del tempo ha provocato una fuga verso l’estero in cerca di fortuna, in questo rifiuto di massa c’è qualcosa che non torna e mi pare il caso di parlarne un poco. Diverse sono le cause addotte da più parti.
C’è chi afferma che nel frattempo qualcuno può avere vinto un concorso per un posto più remunerativo, magari in magistratura, alle agenzie fiscali o agli istituti previdenziali, o solo più vicino a casa. Anche se così fosse, casi isolati non possono essere giustificativi di una rinuncia di tale portata.
Altri individuano la causa del rifiuto nella bassa retribuzione, inadeguata soprattutto se la destinazione è una delle città del nord il cui costo della vita è talmente alto che il reddito percepito nel pubblico impiego non sarebbe sufficiente neppure per la pura e semplice sopravvivenza. A questo proposito va chiarito che per un ispettore il salario d’ingresso supera i 1.500 euro netti mensili. Non è certo il massimo ma in questi tempi difficili non mi pare siano poca cosa.
Anche se l’ipotesi riferita alle sedi del settentrione non è del tutto peregrina, bisogna dire che da sempre la situazione è stata tale; eppure tanti nostri colleghi nel corso dei decenni passati l’hanno affrontata trovando ogni tipo di espediente per andare avanti, nell’attesa di condizioni migliori. Era considerato il prezzo da pagare per uscire dall’umiliante stato di disoccupato. Ma sempre in merito a tale ipotesi c’è qualcos’altro che rende tale rifiuto inspiegabile e riguarda l’alta percentuale che non si è presentata neanche nelle sedi del meridione sicuramente molto più vicine alle residenze dei vincitori e con un costo della vita accettabile per un pubblico funzionario. Per fare qualche esempio a Napoli la rinuncia è di circa il sessanta per cento, a Catanzaro si avvicina al novanta e a Benevento riguarda i due terzi. Si dice che tanti fanno difficoltà a spostarsi perché hanno famiglia. Il problema esiste, ma noi del meridione siamo stati sempre un popolo di emigranti e diversi milioni hanno lasciato il loro nucleo per affrontare anche condizioni molto più difficili con la speranza di un successivo ricongiungimento in condizioni più dignitose e molti ci sono riusciti.
C’è poi la tesi della scarsa appetibilità del posto a causa della carriera bloccata. Se ciò nel pubblico impiego è verosimile, altrove non ti mettono certo a disposizione un’autostrada e anche nel caso si possa percorrere, il prezzo da pagare è sempre molto salato. E nel meridione mi pare che tante autostrade non ci siano.
Come si vede ogni giustificazione ha le sue motivazioni ma nessuna di esse è pienamente convincente. Può valere in qualche caso ma non per un fenomeno di così ampie dimensioni.
Circola, per la verità, un’altra tesi fatta in modo sommesso perché ritenuta non politicamente corretta. Molti di questi laureati, più o meno giovani, svolgerebbero lavori d’ufficio precari con una retribuzione in nero di qualche centinaio di euro che con l’aggiunta del reddito di cittadinanza e il supporto familiare darebbe una disponibilità complessiva, simile se non addirittura superiore alla retribuzione iniziale dell’ispettore del lavoro. Una tale situazione sarebbe un forte freno a prendere servizio in una sede poco o tanto distante con tutti i disagi che ciò comporta, in attesa di un posto fisso sotto casa.
È la trappola che scatta quando l’incentivo assistenziale è superiore a quello al lavoro. È una molla di natura economica, sentimentale per i legami con l’ambiente familiare e culturale per l’attaccamento alle proprie radici. Per verificare se tale tesi ha un fondamento, basterebbe, sempre che le norme sulla privacy lo permettano, un rapido controllo dell’INPS.
In caso affermativo la cosa sarebbe veramente inquietante perché ai giovani non si può consentire di vivere di assistenza sulle spalle dei genitori e della collettività. Perciò li inviterei ad alzate il sedere e a muoversi perché nella vita c’è sempre da fare qualche sacrificio per il proprio futuro e per contribuire a quello della nostra società.
[*] Giornalista e scrittore. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona Onlus.
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