Partendo da un titolo dirompente con questo redazionale proponiamo una lettura che si innesta su di una tematica che molto probabilmente coglie solo “alcune” delle molteplici preoccupazioni che attanagliano il vissuto del nostro tempo, delle giovani e meno giovani generazioni, in un futuro prossimo ma che è anche presente.
Il malessere per così dire del “lavoro” e quindi dei “lavoratori”, con troppa facilità viene ad essere attribuito, da una parte, alla tumultuosa evoluzione del lavorare e di fare/dare lavoro, dall’altra, inevitabilmente, si contrappone il funzionamento che molto garbatamente si potrebbe dire di una economia non esaurientemente ben funzionante.
Nei grandi cambiamenti lavorativi dobbiamo di sicuro annoverare la stagione che si sta vivendo con una dirompente innovazione tecnologica che assomma e sta catalizzando la sempre più invasiva presenza nelle produzioni delle cosiddette “macchine evolute” ma anche: robot, algoritmi, AI-intelligenze artificiali, tecnologia Blockchain, piattaforme digitali, app, supercomputer, e tanto altro.
Certamente, bisogna fare i conti con la necessità di facilitare il cambiamento culturale del nostro agire, per aiutare ed accompagnare il progresso, nei prossimi anni di evoluzione sociale ed economica, al fine di generare innovazione e crescita continue. È quindi giusto porsi la domanda su quale mondo futuro intendiamo basare la costruzione della nostra società oltre che per meglio comprendere “dove va il lavoro” ma soprattutto verso quali fenomeni dobbiamo prestare attenzione.
Se ci basiamo su una diffusa teoria di preponderante automazione massiva, delle nostre società, negli anni a seguire si dissolveranno una rilevante quantità di posti di lavoro e correremo il rischio concreto di una disoccupazione di massa causata da sistemi produttivi ipertecnologici.
Dobbiamo quindi domandarci se siamo in presenza di una sorta di tramonto del lavoro umano?
Con molta probabilità buona parte dei posti di lavoro muteranno le loro caratteristiche, questo a causa dell’avanzamento delle tecnologie digitali, ma è ipotizzabile che solo alcuni saranno completamente automatizzati e di conseguenza soppressi.
Da recenti studi condotti con particolare accuratezza e scientificità da parte del Massachusetts Institute of Technology, come anche dall'Ocse, emergerebbe che poco più del 10% di tutti i posti di lavoro, fino ad ora presenti, finirà per essere completamente automatizzato. Sempre secondo studi in tale ambito oltre il 55% delle occupazioni svolte negli anni ’60 oggi semplicemente non vengono esercitate, sono transitate nello “oblio”.
È anche vero, però, che dall’epoca molte altre professioni si sono affacciate nell’odierno mercato del lavoro.
Non possiamo altresì nasconderci che il futuro che riteniamo si debba costruire e quindi scegliere, dipende evidentemente sempre da noi. Siamo noi a prediligere che cosa ricercare e quali tecnologie sviluppare.
Risulta eccessivamente facile pensare che possa essere puramente la “tecnologia” a guidare i cambiamenti come pure a risolvere i problemi economici e sociali. Palesemente si tratta di una convinzione alquanto diffusa tra le nostre élite come pure nella popolazione in generale, ossia che i problemi di natura sociale possono supportarsi in soluzioni di natura tecnologica.
Per fare un esempio: la solitudine latente, riscontrata tra le persone più giovani, gli adolescenti, ma anche chi è in là con gli anni, può mitigarsi con i vari social: Facebook, Instagram, TikTok, Twitter, ecc. mettendoci in contatto permanente con gli altri. Ma raramente però la realtà è così semplice. Basti riflettere sul fatto che i variegati social media, più che portarci dentro e in simbiosi con le comunità umane spesso cagionano, viceversa, un senso di solitudine e isolamento oggettivo pur se camuffato, estraniandoci, di fatto, con “modelli virtuali di relazioni” falsamente umane.
Parlando anche con accenni al termine di “Metaverso” possiamo favorire la riflessione e rendere più semplice la comprensione di un tratto della modernità. Considerarlo non solo come una specifica tecnologia, è un passo fondamentale da fare, piuttosto ritenere come la nostra modalità di relazionarci con la tecnologia stessa sia impalpabile ed inconsapevole. Concretamente il Metaverso rappresenta una sorta di internet che va a sovrapporsi al mondo fisico, permettendo agli utenti di interagire in modo più diretto ma non meno artificioso e partecipare magari anche ad eventi pianificati ovvero estemporanei. Metaverso rappresenta un concetto difficile da definire con esattezza, di certo prefigura un insieme di mondi virtuali e reali interconnessi, popolati da qualsivoglia nostri “Avatar”.
Di recente la multinazionale Microsoft ha annunciato che nell’immediato integrerà il Metaverso nella piattaforma “Teams” con una funzionalità chiamata “Mash”. Conseguentemente gli utenti potranno creare un loro personale Avatar con cui poter partecipare alle riunioni di lavoro. Con il Metaverso, osserviamo, si sta in parte modificando il futuro di Internet, per come lo conosciamo ora. Si verranno quindi a realizzare un insieme di spazi virtuali percorsi da Avatar, guadagnando un passo in avanti rispetto alla cosiddetta realtà virtuale.
Lavorare per quello che serve, in futuro ma anche odiernamente. Dopo aver combattuto l’evento pandemico che tanto ha inciso e influenzato le nostre esistenze, dal punto di vista sanitario, come anche umano, sociale e lavorativo. Questa parola, ora tanto in voga, esprime e descrive il mondo del lavoro che si sta sviluppando in epoca post Covid. Il significato racconta la modalità di lavorare solamente lo “stretto indispensabile”, rispettando, pedissequamente, gli orari del contratto lavorativo, ma anche, conseguentemente, il potersi rifiutare di rispondere a mail a telefonate o semplicemente prolungamenti imprevedibili degli orari di lavoro.
Altrettanto, il nostrano mondo del lavoro non risulta estraneo a questa realtà. Siamo un Paese nel quale, per la cultura aziendale dominante, si afferma la predominanza del lavoro nel dare quanto più possibile. Solo pensando al mondo del terziario avanzato delle nostre metropoli del nord come Milano o Torino, pur considerando l'aggravante che in Italia i livelli retributivi sono evidentemente inferiori rispetto a gran parte dei Paesi europei occidentali, viene comunque chiesto ai nostri colletti bianchi di produrre con elevata intensità e ciò persino alle figure professionali più basiche.
Nuove formule di lavoro hanno creato variegate esperienze e molte persone hanno deciso di conferire un diverso peso specifico al valore del loro tempo. Soprattutto i giovani danno maggiore importanza al vissuto, al di fuori dal lavoro, risultando meno disposti a fare eccessivi sacrifici e rinunce per lo sviluppo di carriere.
Una domanda sorge spontaneamente, ma se invece che considerare il “Quiet quitting” nella sua definizione eminentemente letterale, lo enunciassimo quale necessario distacco materiale ed emotivo, e quindi volano per operare lo stretto necessario non solo in termini di orari, ma anche rispetto alle energie creative e produttive?
Ebbene, dovremmo avere la piena consapevolezza che il lavoro quotidiano, non rappresenta soltanto il necessario modo per procurarsi il giusto e fondamentale sostentamento economico, ma al contempo si estrinseca quale luogo di socializzazione, dove si apprende e quindi si cresce umanamente, eticamente e professionalmente. Il relativo coinvolgimento dipende, perciò, da quanto mi sento legato razionalmente, nella condivisione dei valori e degli obiettivi della mia azienda.
Iniziamo a porci una domanda, quale sarà il ruolo dell’uomo nel mondo del lavoro nei prossimi anni? Nuove tecnologie e invecchiamento demografico, sono queste, tra tante, le nuove sfide che deve affrontare il mondo del lavoro e i suoi principali interpreti. Trasformazioni che coinvolgeranno lavoratori, aziende e Governi. Il necessario dialogo sociale è, a tutti gli effetti, la chiave per generare opportunità e benessere, facendo sì che nessuno sia lasciato ai margini.
Tra gli obiettivi auspicabili per il prossimo futuro possiamo indicare:
In questo contesto l’OIL – organizzazione internazionale del lavoro – detiene la principale responsabilità di stabilire un'agenda programmatica mondiale condivisa, che veda al centro le persone e i loro bisogni, accompagnando le Nazioni per realizzarla.
Fondamentale sarà chiedere a tutte le parti interessate, a livello globale, di assumersi la responsabilità di costruire un futuro del lavoro basato, in maniera preminente, su giustizia ed equità. I Paesi dovranno stabilire strategie nazionali sul futuro del lavoro ricorrendo al dialogo sociale tra i Governi e corpi intermedi Esistono quindi scenari futuri per i quali il lavoro, per come lo conosciamo oggi, a causa anche della “concorrenza” che potremmo definire “sleale” delle macchine, tenderebbe a contrarsi, ovvero, non sia più conveniente per una vasta gamma di tipologie oggi presenti.
Più precisamente si sta configurando uno scenario in cui “macchine autonome” e sempre più intelligenti sostituiscono progressivamente il lavoro svolto da umani facendo livellare al basso i relativi salari che tendono a posizionarsi, per ragioni economiche di rapporto domanda-offerta, a livelli di sussistenza.
Il lavoro futuribile si muoverebbe in particolare su tre principali traiettorie che potrebbero accompagnare nuovi scenari, ossia:
Parto da una affermazione ossia che si può essere sostanzialmente certi che il lavoro umano non diventerà mai completamente superfluo, in quanto la storia, fino ad oggi, ci ha insegnato che gli esseri umani hanno saputo governare la tecnologia, anche se spesso assoggettandola a scopi nefasti, dimostrando al contempo però una sorta di superiorità, primazia, rispetto il progresso, le macchine, le tecnologie.
Altro ostacolo, per gli scenari futuri, riguarda la indeterminatezza circa gli stock di lavoro più o meno incomprimibili, in quanto si può affermare che il lavoro non rappresenta una entità fissa, ovvero un fattore della produzione cristallizzato, poiché, in un’economia governata da equilibri tra domanda e offerta, l’eccedenza di lavoro comporta una pressione al ribasso sui salari, rendendo maggiormente contendibili le occasioni occupazionali. Allo stesso modo, l’innovazione finisce per creare nuova e/o diversa domanda di lavoratori esercitando una pressione al rialzo sui salari fino a quando il mercato non torna in equilibrio.
Da un punto di vista macroeconomico, quello che conta, in maggior misura, non è la mera creazione o disfacimento di specifiche professionalità lavorative, ma principalmente gli effetti conseguenti della tecnologia sulla domanda complessiva di lavoro.
Ulteriore considerazione si supporta della vicenda storica successiva alla prima rivoluzione industriale. All’inizio del XX secolo, le macchine industriali hanno sostituito una importante fetta di lavoro manuale dirottando gli uomini su compiti più intellettivi. Dall’inizio dell’epoca dei computer, macchine e tecnologie hanno implementato molte delle attività ritenute noiose e ripetitive, creando al contempo nuovi compiti per gli esseri umani, più orientati alla natura poliedrica dell’intelligenza umana, rendendo possibile anche un incremento dei redditi da lavoro e da impresa.
Un ulteriore assunto ci deve risultare ben chiaro, per analizzare gli attuali e futuri sistemi economici, vale a dire che un’economia non potrebbe funzionare senza la domanda della categoria dei consumatori e quindi nella loro veste di lavoratori hanno bisogno di percepire stipendi e salari per poter alimentare beni e servizi e mantenendo quindi in vita l’economia globale.
Esercitiamo il nostro pensiero ponendoci una domanda. Alla tecnologia che sostituisce il lavoro, arrivando a corrodere economicamente e socialmente le comunità, in che modo è possibile contrapporsi?
Muller, studioso e autore statunitense, ha scritto nel 2021 un interessante volume: “Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro”. Vi si trova in alcuni passaggi l’affermazione che i primi luddisti non erano affatto grezzi antitecnologici, più che altro erano artigiani e commercianti adeguatamente formati e strutturati. Si opposero alle nuove tecnologie meccaniche perché vi scorsero «una minaccia alle loro vite, alla comunità, al commercio e anche alla qualità della merce».
Oggi esistono sostanziali diversità rispetto ad allora. Le differenze più significative risiedono nel fatto che noi siamo costretti a subire lo sviluppo di queste tecnologie ed innovazioni in assenza di una partecipazione diretta dal basso, aggiungo senza apporto di valori umani. Tutto viene governato da una sorta di “grande fratello” indeterminato e indeterminabile, ancorché, per molti versi, assimilabile ed identificabile in una chiara Elite umana formata da pochi uomini, che orienta l’operato delle maggiori Company globali. Esse si sostanziano su un generalizzato controllo delle masse, veicolato magari da influencer di turno, promuovendo: gusti, prodotti, servizi, mode, con una conseguente standardizzazione, latente e spesso incosciente, che causa, al contempo, prevedibilità e limitatezza dei gusti e gradimenti. La risposta potrebbe essere una maggiore capacità di scegliere, comprendere ed osservare attentamente la tecnologia e i suoi risvolti.
Siamo quindi in uno scenario in cui la manodopera diventa diseconomica e in alcuni casi superflua e viene perciò sostituita da macchine autonome il cui costo è inferiore a quello di un salario che consenta la sussistenza del lavoratore.
È pacifico, ad ogni modo, che le nuove tecnologie condizionano sempre di più le nostre vite quotidiane, contribuendo a riconfigurare le nostre abitudini, come pure ambiti lavorativi, anche in maniera positiva.
Ad esempio, in questo caso positivamente, il più recente connubio tra IoT - Internet of Things – e Dpi – dispositivi di protezione individuale–, rappresenta una svolta significativa nel campo della “tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro”. L'adozione di “dispositivi di protezione individuale”, resi “smart” grazie all'Internet of Things, può contribuire a ridurre sostanzialmente il rischio d'infortuni. L’aspetto qualificante ed innovativo dell'IoT è che oggetti/elementi smart siano tra loro interconnessi così da potersi scambiare le informazioni possedute, raccolte e/o elaborate. Il presupposto è che tali elementi/ strumenti di lavoro siano connessi alla rete e abbiano la possibilità di trasmettere e ricevere dati. In questo modo diventano "intelligenti", e possono attivarsi e disattivarsi "da soli" e secondo le necessità.
Tra i grandi temi che stanno suscitando il dibattito internazionale e mondiale tra economisti, filosofi, politici e istituzioni, vi è il “Reddito minimo universale”. Ovvero un reddito di base garantito a ogni uomo e donna del nostro Pianeta. Un reddito al contempo che “non impone ai beneficiari di lavorare né li scoraggia attivamente dal poterlo fare”.
Anche il Santo Padre torna a ipotizzare la realizzabilità di un “reddito di base universale”. Lo fa nel suo ultimo libro, “Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza” (ed. Piemme, 2022). Nel citato volume è presente un capitolo in cui Francesco propone misure per favorire la crescita dei paesi poveri. Pur ribadendo la centralità del lavoro come strumento per «ridare dignità all’essere umano», il Pontefice evidenzia che «c’è peraltro una lunga lista di compiti che non vengono individuati come lavoro, ovvero un’occupazione, per la quale, chi la svolge – in molti casi donne – percepisca un salario, come l’accompagnamento di un familiare, la cura dei bambini o certe aree di volontariato».
Per questo, sottolinea Francesco, «mi sono detto favorevole a pensare a una retribuzione universale che in parte possa remunerare quelle situazioni». Inoltre, prosegue, «un simile strumento aiuterebbe anche a disincentivare i miseri salari che vengono pagati da alcune industrie le quali, ben consapevoli degli alti indici della disoccupazione di alcuni paesi, trattano il lavoratore come uno scarto: “Se non ti vanno bene questi soldi, facciamo presto a trovare altre mille persone disponibili”».
Papa Francesco, già in passato si era pronunciato a favore dell’istituzione di un reddito di base universale e incondizionato. «Io credo – ebbe ad affermare il Pontefice – sia giunto il tempo di esplorare idee come quella di un Universal Basic Income (UBI): un pagamento incondizionato uguale per tutti i cittadini, che potrebbe essere distribuito intervenendo sul sistema fiscale». La sua visione è legata alla necessità di ripensare il mondo nell’era post-Covid, Misure come l’UBI potrebbero aiutare le persone ad essere libere di combinare la necessità di guadagnare un salario con il desiderio di dedicare il proprio tempo alla comunità».
Si tratterebbe dunque di una “rivoluzione del lavoro”, dando avvio ad una trasformazione sociale che potrebbe accelerare l'avvento di quella “società del gratuito” spesso annunciata dallo scomparso ed indimenticato Don Oreste Benzi.
Universal basic income – ossia: reddito universale o reddito incondizionato – è un reddito incondizionatamente garantito a tutti individualmente, senza prevedere alcuna prova dei mezzi posseduti o richiesta di disponibilità a lavorare. Si tratta in altre parole di un reddito conferito a chiunque nella forma di un diritto soggettivo ed economico: ogni persona, indipendentemente dalla propria condizione economica o dal fatto di possedere un lavoro, ha diritto a ricevere un reddito gratuito.
Trattandosi di un “supporto”, detta misura rappresenta un supplemento che non sostituisce, ma al contrario si aggiunge al salario da lavoro e alle altre forme di remunerazione. Ad esempio, se l’ammontare del reddito universale fosse di € 500, chiunque guadagnasse uno stipendio di € 1.000 al mese vedrebbe il suo reddito aumentare fino a € 1.500; nel caso invece perdesse il lavoro, il reddito di base di € 500 rimarrebbe comunque in forma incondizionata.
Per questo motivo il Reddito Universale (UBI) è assolutamente diverso e distante dal Reddito di cittadinanza, introdotto di recente in Italia: (e allo stato in via di revisione con la prossima manovra di Bilancio 2023) mentre per ricevere quest’ultimo è necessario non avere altre forme di reddito e attivarsi per la ricerca di un nuovo lavoro, l’UBI è totalmente incondizionato, viene dato a chiunque ed è corrisposto per sempre.
Rammentiamo che tra gli effetti positivi del reddito di base universale vi è, in primo luogo, l’impatto primario sulla povertà: assicurando un reddito gratuito a tutti, la povertà materiale verrebbe combattuta “indipendentemente dal lavoro”. Per agevolare la scomparsa della povertà nel mondo, si rende necessario che l’ammontare di questo “sostegno” gratuito, sia bastante a sostenere i costi basilari di esistenza. È proprio questo motivo alla base dei princìpi umanisti di detta misura, vale a dire il concetto di diritto ad esistere, di ogni uomo e donna, per cui il vivere deve essere garantito indipendentemente dalle condizioni del mercato del lavoro. Ma di più chi sostiene questa misura pone particolare attenzione anche su alcuni effetti sociologici derivanti dalla povertà, quali ad esempio la criminalità comune, che probabilmente diminuirebbe in maniera evidente.
Esisterebbe una possibilità di «combinare la necessità di guadagnare un salario con il desiderio di dedicare il proprio tempo alla comunità», dalle parole di papa Francesco, promana anche il fatto che il “reddito universale” riconfigurerebbe l’interazione tra “lavoro salariato” e “lavoro volontario”: una capacità economica incondizionata permetterebbe di svolgere certi lavori che non sono remunerativi in termini monetari, pur tuttavia sono attrattivi in quanto offrono uno strumento di gratificazione personale.
In parole povere: il Reddito universale avrebbe come effetto diretto un incremento delle attività di volontariato e umanitarie, Allo stesso modo tale reddito fornirebbe un maggiore potere contrattuale utile per contrapporsi ai lavori sottopagati, alienanti o particolarmente faticosi. Diminuendo la quantità di persone disposte a svolgere tali attività, la conseguenza economica sarebbe un aumento dei salari corrisposti per tali mansioni. In questo modo verrebbe a riconfigurarsi il valore intrinseco del lavoro: mentre infatti oggi i lavori più faticosi sono pagati meno o addirittura sottopagati, con il reddito universale verrebbe attribuito un valore maggiore ad essi, attraverso una remunerazione più consona.
In definitiva, il reddito universale “riformerebbe” l’odierno “mercato del lavoro” trasformando il lavoro da attività necessaria in attività libera, facendolo uscire dalla mera dualità economica-salariale, ridefinendolo sempre più come una attività scientemente volontaria.
Un punto critico rappresenta però, al contempo, il fatto che trattandosi di un “emolumento” universale per tale ragione viene concesso indistintamente a tutti e quindi ugualmente senza distinguere la fascia sociale di appartenenza: nullatenenti come benestanti, disoccupati come inoccupati o sottoccupati, giovani ed anziani, non tenendo conto dei diversi bisogni specifici dei beneficiari e conseguenti “status” di appartenenza. Insomma, una misura concessa a tutti e, per dirla al pari dei suoi detrattori, per tale ragione sostanzialmente “iniqua” e socialmente ingiusta, sottovalutando le esigenze specifiche di promozione individuale favorite da un lavoro.
Una ulteriore critica riguarda il rischio di soggiacere ad un “parassitismo” di massa: essendo incondizionato, tale reddito universale permetterebbe, a molti, anche di smettere di lavorare pur rimanendo sostenuti dalla collettività. Anche per questo viene letta da molti quale misura ingiusta.
Il dato è tuttavia controverso, poiché non viene confermato dai molteplici esperimenti svolti sul “reddito incondizionato”. Citando l’esperimento finlandese, del biennio 2017-2018 con il quale è stato fornito a 2.000 persone un reddito di € 560 al mese, si è potuto riscontrare che il tasso di occupazione è addirittura aumentato. Come altrettanto nell’esperimento indiano nel 2009, che ha visto coinvolgere oltre 11.000 individui, qui si è registrato un aumento delle attività imprenditoriali con un impatto particolarmente elevato sul lavoro autonomo femminile. Anche in Germania, nel recente passato, si è visto avviare uno studio triennale su 120 persone, a cui sono stati garantiti 1.200 euro mensili senza alcuna condizione, confrontando la loro esperienza con un gruppo di controllo di riferimento. In generale, comunque, dagli esperimenti svolti emerge che il rischio del cosiddetto parassitismo non sia un’ipotesi realmente configurabile.
Il reddito di base universale potrebbe costituire, a ben vedere, un efficace strumento per operare la transizione, dall’attuale società del profitto, a un nuovo modello di società che don Oreste Benzi definì “società del gratuito, quale meta, che parte però da una scelta chiara”.
Per realizzare questo don Oreste capì però come fosse necessaria una radicale trasformazione antropologica. Oggi «tutta la società del profitto si basa in parte sul bene supremo che è l’accumulo del denaro, che in realtà è un simbolo in quanto rappresenta la sicurezza assoluta dell’uomo per la sua sussistenza e sopravvivenza. La prima manifestazione istintiva è la conservazione di se stesso».
Nella società del profitto, caratterizzata dalla continua esposizione alla povertà e dalla competizione per la vita, l’uomo concepisce il lavoro prima di tutto come un’attività finalizzata alla «propria sussistenza e sopravvivenza», e così scambia lo scopo per il mezzo: vede nel lavoro uno strumento per conservare il proprio io e non per incontrarsi, con il proprio fratello.
In questo senso, forse, l’istituzione di un reddito di base, incondizionato, magari sostenuto da una riduzione percentuale, pur se minima, delle spese mondiali che vengono sorrette da ogni Paese (non solo dai più ricchi e avanzati) per armamenti e tecnologie di morte, potrebbe essere un passo importante da intraprendere per dirigerci verso la società del gratuito. Per lo meno un’ipotesi da esplorare, come suggerisce Papa Francesco.
Concludiamo questa carrellata di pensieri con la seguente affermazione. Prepariamoci operosamente a questo scenario possibile mettendo in piedi le giuste istituzioni economiche per distribuire una abbondante produzione di beni e servizi. Potremmo, pertanto, essere in grado di realizzare, come alcuni studiosi affermano, tra i quali Arthur C. Clarke, sognando un avvenire secondo cui: “l’obiettivo del futuro dell’uomo può essere la piena disoccupazione, così da poter maggiormente giocare”.
[*] Dirigente dell’INL, Direttore Ispettorato territoriale del lavoro di Prato e Pistoia - Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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