Con particolare coraggio si intende, con questo redazionale, affrontare un tema posto, per lo più, ai margini del confronto generale sui contesti lavoristici ma, al contempo, anche nella più ampia dialettica riguardante il gravoso aspetto della “sicurezza sul lavoro” come pure sul “benessere lavorativo” nei luoghi di lavoro.
L’argomento, quindi, impatta inevitabilmente nel più ampio contesto delle articolate scienze sociali ed in particolare nell’ambito teorico delle teorie sul lavoro o meglio sulla concezione del lavoro proiettata, fondamentalmente, negli “aspetti organizzativi”.
Partendo da tali presupposti si dovrà scientemente impattare sul tema, troppe volte “celato” se non “marginalizzato”, della “sofferenza sul lavoro”, coesistendo in maniera paritaria con l’altro rilevante ambito psicosociale, rappresentato dall’altra grave sofferenza, quella per la “mancanza di lavoro”.
L’assunto dal quale partiamo si sintetizza nel fatto che l’organizzazione del lavoro rappresenta la cornice nella quale si configura anche la stretta correlazione con la “salute sul lavoro”, senza per questo tralasciare, anzi evidenziare, patologie particolari che ne possono scaturire, quali ad esempio: molestie, mobbing e violenze sul lavoro. Per tutto ciò sarebbe opportuno far anche emergere caratteristiche qualificanti di un lavoro che trova il suo fondamento nella degnità di essere svolto, da ogni individuo, anche a beneficio della società in cui ci collochiamo. Come eccelsamente recita la nostra Carta Costituzionale.
Tutto, ad ogni modo, si lega nell’ambito della “psicodinamica del lavoro” ovvero la concezione del lavoro che prima di ogni cosa rappresenta ed è soprattutto “lavoro vivo”.
Spieghiamo questo difficile e specialistico concetto prendendo spunto da uno dei maggiori studiosi di questa materia, ossia il francese prof. Christophe Dejours, figura di spicco nelle scienze sociali francesi, contemporanee, ma anche: psichiatra, psicoanalista, medico del lavoro ed ergonomo.
Dai suoi scritti e da una ricca produzione, possiamo desumere tra l’altro che: La psicodinamica del lavoro definisce il lavoro come ciò che chi lavora deve cercare, inventare, trovare e aggiungere individualmente o collettivamente per poter pervenire a obiettivi di produzione che sarebbero inaccessibili se si applicassero le prescrizioni, le procedure e gli ordini ricevuti dai superiori gerarchici. In psicodinamica del lavoro, il lavoro, quindi, è soprattutto e prima di tutto, lavoro vivo.
Secondo l’analisi Dejouriana, infatti, la salute psicofisica dei lavoratori è in stretto rapporto con la qualità dei rapporti di cooperazione e di dialogo all’interno di un contesto lavorativo, poiché questi ultimi favoriscono la prevenzione delle forme patologiche di sofferenza. Per tali ragioni, il lavoro e la sua organizzazione svolgono una funzione fondamentale non soltanto dal punto di vista di ciò che si produce ma anche per quanto riguarda i più complessivi processi democratici della società.
Più analiticamente è possibile asserire che esiste una interrelazione tra soggettività e lavoro, per questo è bene occuparsi non solamente di eventuali “patologie lavorative” bensì anche del piacere, della creatività, dell’accrescimento di competenze e di orgoglio per ciò che si fa e che solo il lavoro può sollecitare.
Infatti, il lavoro resta il luogo naturale della esplicazione di ogni “soggettività” ma altresì luogo di trasformazione ed emancipazione.
Se quindi lavorare non significa solo produrre valore, ma anche mettere alla prova e trasformare se stessi, ogni luogo di lavoro deve poter garantire la salute mentale e psichica, al pari della più immediata sicurezza fisica delle persone.
Riscoprendo il pensiero di Dejours si perviene all’assunto con il quale, egli stesso, ha autorevolmente criticato i presupposti delle mutazioni dell’organizzazione del lavoro, degli ultimi decenni, iniziando dalla flessibilizzazione dell’impiego, fino alla standardizzazione di procedure e protocolli, dalla inflazione e sublimazione degli strumenti di “valutazione individuale” alla ricerca spasmodica della “qualità totale”. Ciò ha aumentato, in maniera esponenziale, le difficoltà di chi lavora a «colmare lo scarto tra il prescritto e il reale», praticando cioè quello che Dejours definisce il “lavoro vivo” con tutto il suo portato di accrescimento personale e collettivo.
Elemento qualificate, per un moderno governo del “lavoro” in senso ampio, sarebbe quello di elaborare delle alternative all’organizzazione scientifica del lavoro (Taylorismo) supportandosi della Psicopatologia del lavoro, come della Psicodinamica del lavoro e della Psicosociologia, anche al fine di analizzare le condizioni che permettono al lavoro di generare piacere o, al contrario, sofferenza.
In generale, la psicotecnica e la psicologia industriale, si contrappongono al rapporto tra lavoro e salute mentale, in quanto contribuiscono alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro “dannose” per la salute mentale di chi lavora. Inizialmente, l’altra materia contigua e coesistente, ossia l’ergonomia, è nata con l’obiettivo di “adattare” il lavoro all’essere umano, invece che l’essere umano al lavoro, come fanno la psicotecnica e la psicologia industriale.
Per tali ragioni la “ricerca ergonomica” si interessa prioritariamente all’analisi delle condizioni di lavoro (condizioni fisiche, chimiche e biologiche) e del loro potere di nuocere al corpo umano, tenendo presente la ricerca del “miglioramento” delle condizioni di lavoro, o meglio ancora della salute di chi lavora.
La psicopatologia del lavoro, di contro, si interessa principalmente degli effetti sfavorevoli del lavoro sulla salute mentale dei lavoratori e alle manifestazioni psicopatologiche che talvolta ne conseguono.
La psicodinamica del lavoro è nata da un ribaltamento della prospettiva: invece di focalizzarsi sulle malattie mentali, essa ha posto la sua attenzione sulla “normalità”, cioè sui processi psichici in gioco nello scontro delle persone per evitare di giungere alla malattia mentale, nonostante le implicazioni che l’organizzazione del lavoro impone rispetto le diversità psichiche osservabili.
Esiste tutta una casistica delle strategie individuali e collettive, di difesa, ideate da chi lavora per tentare di limitare i rischi di ammalarsi, a causa del lavoro.
La conoscenza delle condizioni favorevoli, al piacere lavorativo, è indispensabile per poter concepire un’azione sensata di trasformazione dell’organizzazione del lavoro in senso favorevole alla salute mentale di chi lavora.
“Lavorare” è prima di tutto confrontarsi individualmente con un compito, avere un obiettivo da raggiungere. Per arrivarci è necessario mettere in campo un’intelligenza individuale. Lavorare non è solo produrre, significa, al contempo, plasmare se stessi
Il lavoro di ognuno è sempre, anche, relazione con gli altri: si lavora per se stessi o per qualcuno, per esempio il proprio capo; ma il mio lavoro incide pure su quello dei miei colleghi; se sono un “buon” capo, lavoro anche per i miei sottoposti; nei servizi, lavoro per un altro che può essere il cliente, lo studente, il malato, il cittadino, e la qualità del mio lavoro, inevitabilmente, ha quindi delle conseguenze dirette sugli altri.
Nel “lavorare” quotidiano, perciò, non si attua solo un’attività di produzione ma anche e sempre un’attività che riguarda il “vivere insieme”. Quando ad esempio l’operaio deve soggiacere al suo datore di lavoro o sovraordinato, tramite l’organizzazione del lavoro, con prescrizioni e ordini, recede dalla libertà di impiegare la sua intelligenza.
In tema di psicodinamica del lavoro, l’alienazione da lavoro, si sostanzia con una concorrenza tra volontà propria di un individuo (lavoratore) e volontà padronale (datore di lavoro) mediata dall’organizzazione del lavoro, che non è solo un’organizzazione della divisione tecnica dei compiti, tra chi lavora, ma anche una divisione sociale e un metodo di prescrizione tramite ordini diretti, da una parte, e gerarchia, sorveglianza, controllo, disciplina, gestione, etc., dall’altra.
Frequentemente si osserva che in fin dei conti, l’effettiva organizzazione del lavoro è il risultato di un compromesso tra chi lavora e chi fa impresa. Compromesso che varia da un’impresa all’altra, da un territorio all’altro.
Il modo in cui il lavoro deve essere svolto, secondo quali regole, in riferimento a quali modelli, con che estensione temporale, è il vero problema del lavoro nei suoi ambiti organizzativi di strutturazione.
Riconoscere l’importanza della sofferenza sul lavoro e l’importanza della salute mentale (e non solo della salute fisica) implica un mutamento radicale della “mentalità sindacale” rimanendo ancora molta strada da fare per arrivare a riconoscere i rapporti tra sofferenza e organizzazione del lavoro, al fine di orientare le rivendicazioni dei lavoratori.
Nella letteratura contemporanea, sul lavoro, ricorrono sempre svariati elementi tra loro legati: da una parte la filiazione (rivendicata o mancata quando i mutamenti prodottisi nel mondo del lavoro ampliano lo scarto tra generazioni) e dall’altra, gli effetti della mobilità sociale che possono essere dolorosi sia per chi sale (con i cosiddetti “transfughi di classe” che si sentono colpevoli di aver tradito il proprio ambito d’origine) sia per chi discende (lo sconforto del declassamento o anche la sofferenza indotta dal precariato).
È di tutta evidenza che l’organizzazione del lavoro, in epoca contemporanea, induce alla cesura tra generazioni nonché incrinando i relativi valori. Osserviamo che scarseggiano spazi di socialità dove poter discutere e decidere, in maniera collettiva, come reagire alle distorsioni dei rapporti tra generazioni e alle conseguenze psichiche che queste hanno sul piano personale. Ecco perché, oggi, tali questioni, quando è materialmente possibile, non trovano un altro luogo per esprimersi che non sia lo studio dello psicologo.
In conclusione, se è vero che il lavoro rappresenta un problema, la prospettiva Dejouriana invita ad intendere questo termine nel suo significato “etimologico” di altura che domina sul territorio circostante. In altre parole, il lavoro è un luogo strategicamente rilevante per lo sviluppo individuale e sociale e quel che vi avviene ha vasti effetti. Dalla sua organizzazione dipende la vita tanto dei lavoratori come dei datori di lavoro, quanto della società tutta. L’approccio Dejouriano offre validi strumenti per comprendere ed esaminare la portata delle trasformazioni del lavoro.
Il lavoro contiene in sé la promessa della possibile realizzazione personale, della emancipazione e della partecipazione attiva alla collettività sociale. Ma deve essere, altresì, ad ogni modo chiaro che esiste un rapporto “simbiotico” tra lavoro e salute mentale, con una molto frequente “strategia di difesa” che si mette in atto nei luoghi da lavoro da parte dei lavoratori stessi, ma io aggiungo, anche da parte dei medesi datori di lavoro, tale da contenere ovvero mascherare “inquietudini esistenziali”.
Prendiamo ad esempio la categoria degli “edili”, essi infatti cercano di contenere un vissuto di sofferenza da lavoro e da fatica esorcizzando “paure” insite nel mestiere svolto, in modo tale da non far emergere, in ogni istante della loro giornata, timori sulla sicurezza, salubrità e correttezza, nel loro agire lavorativo. Questo fa sì che, inconsciamente, sorga una sorta di “eccessi di sicurezza” che però alzano, inevitabilmente, la soglia di rischio degli infortuni.
Conseguentemente una condotta deliberata che al contempo permette di giustificare solamente le “fatalità” e allo stesso modo permette agli addetti edili di portare avanti le mansioni loro affidate. Una ideologia difensiva, quindi di mestiere, che risulta funzionale alla “produttività”, innescando un’apparente incoscienza di questi lavoratori quale “condotta deliberata”.
Per lo studioso francese Dejours nel lavoro non si prova solo sofferenza, ma anche piacere. Per suo tramite possono sorgere legami sociali e amicali, che sono utili alla già citata e possibile “sublimazione”. Ma il lavoro risulta, altresì, essere centrale, con argomentazioni storiche e antropologiche, anche per la costruzione di una società possibilmente, maggiormente inclusiva di quella attuale, consapevoli che non sussiste, sulla presunta “centralità del lavoro”, una sola maniera di intenderla, né vi è consenso a proposito della sua legittimazione. Una tesi, comunque, che sposa ancora la centralità del lavoro, anche rispetto ai concetti contemplati nella “psicodinamica del lavoro”, in quanto rappresenta, altresì, una centralità di tipo psichico del lavoro o meglio, al centro della vita psichica degli individui.
Non è possibile, inoltre, non tener conto che il lavoro è anche il luogo privilegiato di lotte per l’eguaglianza, la giustizia, l’emancipazione, le pari opportunità, anche se prioritariamente nella sua forma capitalistica.
L’uniformità delle condizioni di lavoro, con cui la visione Tayloristica intende rendere più produttive le industrie, hanno per effetto, paradossalmente, “la differenziazione della sofferenza” e quindi “risposte difensive fortemente personalizzate”.
In altri termini, l’organizzazione scientifica del lavoro, di stampo Taylorista “appiattisce le differenze, crea l’anonimato e l’intercambiabilità mentre individualizza gli uomini di fronte alla sofferenza”.
Nel lavoro artigianale, di contro, il lavoratore ha ampi margini di scelta sui tempi di esecuzione del lavoro, sugli strumenti e le tecniche da usare, sicché può adattare, il lavoro alle sue aspirazioni e alle sue competenze. In questo caso, il lavoro e la sua organizzazione dipendono solo da chi opera direttamente. Viceversa, laddove l’organizzazione del lavoro sia rigida e fornisca ai lavoratori solo limitati se non nulli spazi di gestione del compito, sono loro a doversi adattare a quest’ultimo e non viceversa.
L’elemento sofferenza comincia quando il rapporto uomo-organizzazione del lavoro risulta critico, proprio quando cioè il lavoratore cerca di usare al meglio le facoltà intellettuali, psicosensoriali, psico-affettive di apprendimento e di adattamento, senza successo però.
A proposito dell’organizzazione scientifica del lavoro, in particolare i suoi effetti sui rapporti tra i lavoratori, è bene considerare che una delle ragioni per le quali impedisce la formazione di strategie collettive di difesa è l’estrema parcellizzazione dei compiti, a causa della quale i lavoratori non riescono a condividere con gli altri la loro esperienza.
Confrontando il lavoro ad es. in catena di montaggio con quanto avviene nei cantieri edili, citando sempre Dejours lo stesso scrive che “… il lavoro di squadra, partecipare ad un insieme di operazioni, il cui senso è condiviso dall’insieme dei lavoratori, rende possibile la messa in opera di difese collettive”.
Nel settore terziario, “la manipolazione psicologica” trova un uso ancora più ampio, in quanto è lo strumento più efficace per ottenere quel rispetto dei ritmi di lavoro.
Non devono sussistere pregiudizi, in merito al rapporto di causalità tra l’organizzazione del lavoro e la sofferenza delle persone lavoratrici.
Risulta particolarmente importante, anche, ricavare una conoscenza sulla materialità del lavoro, sulle condizioni fisiche in cui si svolge e anche sui rapporti di conflitto all’interno dell’azienda, in una parola, la dimensione “umana” del lavoro.
La messa a nudo della “sofferenza”, e della declinazione soggettiva dello sfruttamento, può talvolta essere intollerabile e mettere a rischio il rapporto dei singoli individui prestatori d’opera, financo dell’intero gruppo, con gli obblighi organizzativi. Non di meno assistere a situazioni estreme, nei luoghi di lavoro, i più vari, è possibile pervenire alla deleteria e inumana insensibilità circa la possibile sofferenza degli altri, colleghi e sodali di lavoro, fino a cagionare stress professionale, proprio ed altrui.
Si può tollerare l’intollerabile nei contesti lavorativi? Partiamo da questa domanda retorica, e di più esiste la constatazione di un’assenza di reazione collettiva nei riguardi di un sistema di relazioni umane e lavorative che produce ingiustizia e sofferenza, soprattutto se si guarda il lato liberistico, estremo, di fare impresa.
Per tale ragione si assiste ad una progressione dei metodi ingiusti e riprovevoli nelle diverse organizzazioni di lavoro e questo certamente non avviene a dispetto della volontà dei lavoratori bensì, anche grazie al loro fondamentale contributo ed assenso, lambendo la “vulnerabilità” insita in ogni individuo.
Perciò, al fine di tentare di “proteggersi dalla sofferenza”, scaturente nel lavoro, i principali protagonisti possono rendersi insensibili tanto alla propria quanto alla altrui sofferenza interiore, con risvolti frequentemente osservabili anche in contesti esterni ai luoghi di lavoro, arrivando a cagionare sindromi depressive, stress, alienazione, inettitudine, violenza.
Vi è un processo sociale diffuso che favorisce una qualsivoglia tolleranza sociale alla disonestà e all’ingiustizia, questo osservando gli attuali ambiti lavoristici, processo grazie al quale si fa passare come una condizione infelice ciò che dipende, in realtà, dagli abusi commessi da alcuni contro altri.
Il rischio è che il lavoro, nella logica neoliberista “estrema”, perda la sua “centralità” tanto sul piano economico, quanto sul piano sociale e psicologico. Attraversando ed indagando maggiormente il mondo del lavoro, ci si rende conto e quindi meglio si comprendono le ragioni del successo crescente delle tesi economiche applicate al neoliberalismo, declinate all’universo lavoristico ed economico produttivo, sconfinando in una negazione del ruolo “attivo” del lavoro, per come lo conosciamo, anche in virtù dei presidi fondamentali della nostra Carta Costituzionale.
Si perviene, quindi, molto di frequente, ad una idea di riorganizzazione delle aziende ed Enti, sottoforma di “centri di profitto” ovvero in unità strutturate secondo una “direzione vocata esclusivamente agli obiettivi” e quasi mai anche interessata al benessere e al soddisfacimento umano di chi vi opera.
Se è vero, come è vero, che il lavoro può essere, al contempo, un mezzo influente, un volano al servizio dell’emancipazione umana, come dell’apprendimento permanente, e non di meno della sperimentazione di fini solidaristici e soprattutto della democrazia, allora è necessario escludere gli effetti nefasti della solitudine e sofferenza nel lavoro e per il lavoro. Esso deve essere anche e certamente la base per una società migliore.
Il lavoro può dare luogo a diverse forme di “sublimazione” intesa come elevazione di natura spirituale e morale, e che quest’ultima, può essere determinata dai legami sociali che si formano all’interno dei luoghi di lavoro che siano: amministrazioni pubbliche, fabbriche, opifici, laboratori, cantieri, studi professionali, ecc.
Tramite il lavoro gli individui accedono a luoghi di sperimentazione e di vita, ma anche di apprendimento e riconoscimento delle gerarchie, nell’organizzazione lavorativa, e di controllo sugli obiettivi riguardanti le produzioni di beni e servizi prefissati.
Per concludere, si desidera menzionare, in questi scritti, uno studio condotto dalla Università di Oxford denominato “Transformative Leadership” dove viene esaminato, tra l’altro, il contesto attuale reso ancor più dinamico dall’impatto della Generazione Z, su tutti gli aspetti della società, dalla cultura ai valori, fino ad arrivare ai consumi, inducendo le imprese a trasformare se stesse rispetto le proprie strategie industriali e quindi la propria organizzazione.
Sopra di tutto rileva la necessità di rafforzare la gestione del cambiamento con una particolare attenzione al cosiddetto fattore “Human” ossia il capitale umano. Lo studio in questione, dell’Università dell’UK, ipotizza incrementi dei valori di successo a seguito di rilevanti trasformazioni organizzative e quindi produttive quando le persone vengono messe al centro di ogni decisione e sullo stesso livello della tecnologia e dei processi.
Pertanto, le strategie di successo sono quelle che ineriscono, in maniera sostanziale, coinvolgimento tra le persone, un possibile ascolto attivo, la costruzione di una infrastruttura sociale che vada a lambire, in modo trasversale, tutta l’organizzazione.
Per orientare questa fondamentale trasformazione, occorre quindi promuovere lo spirito creativo e imprenditoriale delle persone, ricercare nuove skills, investire nei talenti e nella “comprensione dei loro bisogni”.
La contemporanea azione di trasformazioni economiche, culturali, sociali e tecnologiche, sta cambiando lo scenario in cui operano le imprese, le aziende, i professionisti, come altrettanto dicasi per le Pubbliche Amministrazioni.
Vi è la necessità di evolvere continuamente. Il transito da vecchi a nuovi schemi di riferimento induce a occuparsi degli elementi valoriali, di percezione collettiva e identitaria del fattore “organizzazione”. Le persone in carne ed ossa rappresenterebbero, se ben unite, le componenti fondamentali per tali ineludibili trasformazioni del mondo del lavoro, anche dal punto di vista cognitivo ed emotivo.
Il decisore pubblico e la politica tutta, debbono accompagnare, con strumenti normativi, la PA e il mondo produttivo, per analizzare e comprendere al meglio i nuovi trend del mercato e ragionare sulle innovazioni tecnologiche, le quali impattano, fatalmente, sul Paese, tenendo in debito conto soprattutto il fattore umano, in particolare quello rappresentato dalla generazione Z, con un occhio attento alle sfide offerte dalle tecnologie più all’avanguardia.
In poche parole, gli ambienti lavorativi, ma direi ormai, di più, ogni ambiente di vita, dovrebbero essere concepiti per fare in modo che spazi, tecnologie, modalità di lavoro e contenuti, amplifichino l’esperienza della trasformazione integrale e globale del nostro mondo e delle nostre esistenze, proprio rispetto ad una organizzazione-riorganizzazione di luoghi e ambiti sempre più fluidi e destrutturati, siano essi di lavoro, di vita, di tempo libero, di svago, anche dal punto di vista cognitivo ed emotivo.
Concludendo, le variegate realtà lavorative pubbliche e private, nell’immediato futuro, dovranno sapersi trasformare, con sempre maggiore frequenza e tempestività, sia per cogliere le nuove opportunità tecnologiche e umane emergenti, sia sapendo gestire le proprie capacità di flessibilizzazione organizzativa del lavoro, (citiamo a mero esempio il maggior e miglior uso del lavoro agile) utilizzando il proprio “sentiment” come elemento distintivo e qualificativo.
Tutto questo, evidentemente, necessita della costruzione di una innovata cultura lavoristica, incentrata sul capitale umano, che diventi determinante per accompagnare ogni tipo di trasformazione del modo di fare e promuovere il lavoro.
[*] Dirigente dell’INL, Direttore Ispettorato territoriale del lavoro di Prato e Pistoia - Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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