Il dibattito sulla riduzione dell’orario
Il progresso tecnologico rappresenta uno dei principali fattori che consentono, in genere, un tendenziale incremento della produttività di un’economia. È anche per questa ragione che, in linea di massima, la storia dell’orario di lavoro è caratterizzata da una quasi progressiva riduzione del tempo trascorso in fabbrica e in ufficio, almeno nelle fasi in cui l’introduzione delle innovazioni viene accompagnata da una forte domanda sociale di redistribuzione dei guadagni di produttività ottenuti, in termini, per l’appunto, di rapporto tra orario di lavoro e retribuzione del fattore lavoro. Dal 1870 fino alla fine degli anni Settanta, ad esempio, i lavoratori italiani hanno visto ridurre il proprio orario di lavoro, in media, da 63,3 a 42,5 ore settimanali[1]. Così come, nello stesso arco temporale, i tedeschi sono passati da 67,6 a 41,6 ed i britannici da 56,9 a 40 ed i francesi da 66,1 a 40,7. Come noto, dagli anni Ottanta le rivendicazioni del mondo del lavoro hanno subito un deciso rallentamento, tanto che anche la caduta dell’orario lavorativo si è fermata nel Duemila a 41,4 ore settimanali in Italia, 40,8 in Germania, 42 nel Regno Unito e 36,9 in Francia. Gli anni della crisi pandemica hanno contribuito a ridare centralità al tema nel dibattito pubblico e all’interno delle agende politiche dei Paesi avanzati. Si contano infatti al momento almeno 18 Stati che, in Europa e non solo, stanno conducendo diversi ed innovativi progetti pilota per ridurre la settimana da cinque a quattro giorni lavorativi[2].
L’esperimento attualmente più vasto riguarda la settimana lavorativa di quattro giorni sperimentata in Regno Unito da giugno a dicembre dello scorso anno. Sessantuno società, con un totale di circa 2.900 dipendenti coinvolti, hanno aderito a questo progetto di riduzione della settimana lavorativa in varie forme (giorno fisso, turnazioni, rotazione tra divisioni della stessa azienda etc.), ma sempre con la garanzia di mantenere la parità di retribuzione. Secondo il think tank Autonomy, grande sponsor del progetto e autore del recente studio sui suoi effetti, ben il 92% delle società sta proseguendo l’esperienza della settimana corta anche in questi primi mesi del 2023[3]. Lo studio, infatti, rileva anche un aumento, in media, dell’1,4% del fatturato delle imprese coinvolte nel periodo in esame (e del 35% rispetto allo stesso periodo negli anni precedenti). Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, inoltre, il 39% di essi si dichiara meno stressato, il 71% sostiene di aver ridotto il proprio livello di burnout ed il 62% si dice maggiormente facilitato nel combinare lavoro e vita sociale. Come rilevato anche in progetti simili, dunque, l’esperimento britannico conferma alcuni dei benefici tipici e attesi dai sostenitori delle politiche di riduzione dell’orario di lavoro in termini di produttività e benessere dei dipendenti.
Pensiamo anche ai vantaggi macroeconomici che possono derivare dall’applicazione su larga scala di una politica generale di riduzione dell’orario di lavoro. Dal lato dell’offerta, grazie a quello che gli economisti chiamano “effetto Ricardo”, le imprese possono essere stimolate a riorganizzarsi e innovare con effetti positivi sulla produttività proprio per capitalizzare al meglio le (inferiori) ore di lavoro retribuite, invece di competere cercando di comprimere il costo del lavoro. Inoltre, dal lato della domanda, una politica di riduzione dell’orario di lavoro può funzionare da stimolo per i consumi, anche alla luce dell’elevato contenuto tecnologico – e quindi del maggior tempo di utilizzo che richiedono – molti dei beni realizzati oggigiorno. Questo vuol dire che è possibile anche favorire un circolo virtuoso di stimolo della domanda aggregata e, dunque, della produzione e dell’occupazione. Il numero di occupati, inoltre, può crescere anche grazie alla redistribuzione dei posti di lavoro disponibili, dal momento che i tempi di lavoro pro-capite sono stati ridotti. A questi vantaggi di ordine macroeconomico, possono aggiungersi anche effetti positivi come gli inferiori costi energetici sostenuti dalla singola impresa, la minor spesa sanitaria necessaria per affrontare le conseguenze di stress e burnout dei lavoratori, il minor impatto sull’ambiente di un giorno in meno di pendolarismo da e verso il lavoro e così via.
In Italia non mancano esperienze di riduzione dell’orario di lavoro o della settimana lavorativa, sebbene su scala decisamente più ridotta rispetto all’estero. La più recente, ad esempio, è quella annunciata da Intesa San Paolo che, a parità di retribuzione, ha ridotto la settimana da cinque a quattro giorni lavorativi. Si tratta, in realtà, più di una rimodulazione che di una riduzione dell’orario, dal momento che i quattro giorni settimanali vengono compensati comunque da un incremento a nove delle ore giornaliere. Un ampio ventaglio di esperienze di successo di vere e proprie riduzioni dell’orario lavorativo conquistate dalla contrattazione aziendale in Italia viene documentato nel recente saggio “Lavorare meno, vivere meglio” di Fausto Durante[4]. Tra queste, ad esempio, il caso dell’azienda metalmeccanica Metraton, che ha firmato un accordo di riduzione da 40 a 35 ore settimanali con i sindacati lo scorso aprile 2021. Dal 2019 anche la società di consulenza Carter e Benson in Italia ha sperimentato e poi confermato una settimana lavorativa di soli quattro giorni a parità di stipendio. Nel più lontano 2010 i sindacati concordarono una riduzione a 32 ore di lavoro settimanali anche in un’altra azienda metalmeccanica, la Eural, rivendicando poi effetti positivi come venticinque nuove assunzioni e nuovi investimenti per dodici milioni di euro.
Nonostante i riscontri positivi di esperienze come quelle citate, la diffusione in Italia di simili riorganizzazioni aziendali resta scarsa e circoscritta a casi più unici che rari. D’altronde, il nostro mercato del lavoro si caratterizza anche per essere uno di quelli in cui si lavora di più e per retribuzioni inferiori. Secondo l’OCSE[5], infatti, i lavoratori dipendenti italiani lavorano in media 1.669 ore all’anno contro, ad esempio, le 1.349 ore della Germania, le 1.497 del Regno Unito o le 1.490 ore della Francia. A fronte di un orario di lavoro mediamente maggiore, vi è una situazione opposta sul versante retributivo, con salari medi annui pari a 41.438 dollari in Italia e pari, rispettivamente, a 56.663, 51.724 e 49.619 negli altri tre Paesi citati. Tutto questo, ovviamente, non è affatto garanzia di maggiore produttività per la nostra economia. Il Pil per persona impiegata in Italia si ferma infatti a 90.381 euro, a fronte dei 90.722 del Regno Unito, dei 91.158 della Germania e 100.021 della Francia. Quello che insomma manca al nostro Paese è il coraggio di invertire radicalmente la rotta.
Tra i settori dove è più facile adottare simili progetti pilota e stimarne e misurarne costi ed impatto, vi è certamente la Pubblica Amministrazione. Nel paper “A Scottish Four Day Week: Initial costings for implementation in the public sector”[6], ad esempio, il già citato think tank Autonomy ha anche simulato gli effetti della riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni nelle pubbliche amministrazioni scozzesi, al fine di individuare il numero di assunzioni necessarie a garantire lo stesso livello di servizi e, dunque, i relativi costi da sostenere. La simulazione, quindi, rapporta il numero complessivo delle ore settimanali lavorate rispetto all’orario settimanale target al fine di ottenere il numero di assunzioni necessarie a garantire lo stesso livello di output, ponderandolo per l’aumento di produttività a cui la riduzione stessa dell’orario lavorativo dovrebbe condurre. Replicando l’esercizio del think tank britannico utilizzando i dati delle pubbliche amministrazioni italiane, otteniamo ordini di grandezza vicini alla nostra realtà[7]. Adottiamo quindi, per semplicità, le stesse ipotesi di base dello studio britannico e dunque, in particolare, un aumento stimato di produttività tra il 2,5 e il 5% ed un prelievo fiscale che ritorna nelle casse dello Stato pari ad un decisamente prudente 10-20%, dati i nostri elevati livelli di tassazione. La simulazione con i dati italiani ci suggerisce che, al netto del turnover, una riduzione da 36 a 30 ore settimanali nella PA italiana condurrebbe ad assunzioni in un range che oscilla da 494mila a 590mila unità. In altre parole, sarebbe possibile garantire almeno lo stesso livello di servizi pubblici grazie al combinato disposto di queste nuove assunzioni e dell’aumento di produttività dovuto alla riduzione della settimana lavorativa. Inoltre, il costo netto stimato per tale operazione sarebbe compreso tra i 12 e i 16 miliardi di euro. Tanto per avere un parametro di comparazione, stiamo parlando di circa il 7% dei 191 miliardi e mezzo del Recovery Fund. In altre parole, avremmo potuto utilizzare 7 euro ogni 100 dei fondi europei al fine di creare nuova occupazione di qualità e rinnovare la nostra Pubblica Amministrazione, oltre che per contribuire a raggiungere i macro-obiettivi dello stesso Recovery Fund: incrementare la produttività della PA, favorire (antropologicamente) la sua digitalizzazione e ridurre l’impatto sull’ambiente. Obiettivi dal quale siamo ancora oggi piuttosto lontani e che, se vogliamo davvero raggiungere, necessitano di scelte di politica economica coraggiose, lungimiranti e al passo coi tempi.
[1] I dati riguardano le ore settimanali dei dipendenti a tempo pieno dei settori non agricoli e sono tratti dalla ricostruzione empirica di Huberman M., Minns C., “The times they are not changin’: days and hours of work in old and new worlds, 1870–2000”, Explorations in Economic History, 44 (2007), pp. 538-567.
[2] Gabanelli M., Tortora F., “Settimana corta: in 18 Paesi si lavora già quattro giorni. Ecco dove”, Corriere della Sera, 25/01/23.
[3] Autonomy, “The results are in: the UK's four-day week pilot”, Febbraio 2023.
[4] Durante F., “Lavorare Meno, Vivere Meglio”, Futura Ed., Roma, gennaio 2020.
[5] Dati OCSE 2021.
[6] Autonomy, “A Scottish Four Day Week: Initial costings for implementation in the public sector”, Dicembre 2020.
[7] I dati sul numero dei dipendenti delle pp. aa. sono fonte Registro ASIA sui dipendenti pubblici pubblicato dall’ISTAT nel 2021 e sono pari a 3.457.498 (anno di riferimento 2019); la retribuzione media dei lavoratori non dirigenti è di fonte ISTAT ed è pari a 30.154 euro (anno 2020).
[*] Funzionario pubblico e dottore di ricerca in Economia Politica. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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