Nelle scorse settimane il cd. Decreto Lavoro (Decreto-Legge 4 maggio 2023, n. 48) ha previsto una serie di norme in materia di lavoro. Di particolare interesse, tra l’altro, è l’art. 17, che interviene sui Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO), conosciuti un tempo come “alternanza scuola-lavoro”.
Si prevede l’istituzione di un apposito fondo presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – per ora solo per il 2023 e il 2024 – in favore delle famiglie di studenti deceduti durante le attività formative. Si dispone, inoltre, che la progettazione dei PCTO debba essere coerente con l'offerta formativa e con il profilo culturale, educativo e professionale delle istituzioni scolastiche. A tale scopo, viene introdotta – senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica – la figura del docente coordinatore.
Si tratta di piccoli passi in avanti e, certamente, l’avere istituito un fondo per risarcire le famiglie delle vittime rappresenta l’importante inserimento di forme di indennizzo prima assenti, ma non vorremmo possa anche trasformarsi in alibi per la coscienza politica di aver fornito una qualche forma di tutela, seppur solo successiva, alle famiglie degli studenti morti, senza ulteriori interventi.
In tutta franchezza, stupisce che la coerenza tra il progetto di alternanza e il percorso formativo e didattico dell’istituto scolastico sia stata prevista solo ora come obbligo e può costituire elemento di riflessione: come mai si è arrivati a comprendere adesso una cosa che, probabilmente, avrebbe dovuto rappresentare il presupposto naturale per l’avvio di questi progetti di alternanza?
Infine, molto importante prevedere la figura del docente coordinatore ma, il farlo senza nuovi o maggiori oneri per la finanza, ha il retrogusto amaro delle nozze coi fichi secchi.
Nel frattempo, continua a mancare un altro tassello importante: gli studenti, almeno dalle scuole superiori ma probabilmente anche dalle scuole medie, dovrebbero ricevere un insegnamento in materia di salute e sicurezza sul lavoro, per acquisire consapevolezza sui rischi insiti in qualsiasi luogo di lavoro e sulle possibili tutele. Similmente, per accrescere la loro consapevolezza di cittadine e cittadini/lavoratrici e lavoratori, occorrerebbe prevedere normativamente percorsi obbligatori – e non affidati alla buona volontà o lungimiranza di qualcuno – in cui un funzionario dell’ispettorato del lavoro e/o un rappresentante sindacale spieghino loro quali siano i diritti al lavoro e come poterli far valere.
Andrebbe poi fatta una seria riflessione sul permanere dell’obbligo del PCTO, che molto spesso costringe i dirigenti scolastici a creare Percorsi qualsiasi, pur di soddisfare l’obbligo normativo (e in quanto a creatività, si sa che noi italiani non siamo secondi a nessuno, nel bene e nel male).
A parere di chi scrive, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento rischiano di divenire – per il modo in cui sono strutturati – una risposta sbagliata a una legittima esigenza: provare ad avvicinare sempre di più il mondo della scuola a quello del lavoro. Questa legittima esigenza è mossa da più finalità: orientare il percorso di studi, evitando che esso resti puramente teorico e acquisti valenza pratica per lo studente, verso sbocchi professionali più immediati – fermo restando che questi non è chiamato affatto a lavorare, nel PCTO; aiutare i giovani a capire meglio quale futuro percorso di studi e/o lavorativo meglio si addica alle proprie inclinazioni; avvicinare le aziende al mondo della scuola, così da avere la possibilità di poter avere – una volta chiuso il percorso di studi – futuri lavoratori.
In tutto questo percorso di avvicinamento tra futura domanda e offerta manca, probabilmente, un soggetto: le politiche attive del lavoro.
Le politiche attive del lavoro – e un soggetto istituzionalmente deputato a realizzarle – sono, a parere di chi scrive, la grande Cenerentola delle politiche del lavoro di questo Paese. Da sempre molto concentrato sulle politiche passive, ossia di sostegno a chi perde il lavoro, l’Italia non ha mai seriamente aperto una riflessione su come sviluppare forme pubbliche di orientamento al lavoro, di formazione e di aggiornamento delle competenze professionali. A tale scopo, è probabilmente paradigmatico che l’unico modo attraverso il quale si sia ritenuto di rafforzare la rete dei Centri per l’Impiego è stato attraverso i cd. “navigator”, lavoratori assunti con contratti precari, che avrebbero dovuto aiutare altri futuri lavoratori a cercare lavoro e che nell’ottobre scorso sono stati, infine, mandati a casa loro stessi.
Il tema vero su cui occorrerebbe aprire un serio confronto nel Paese dovrebbe essere come si intenda organizzare le politiche attive del lavoro e, sulla base di questo, provare a ragionare su un piano di organizzazione e di investimenti funzionale. Nel corso degli anni, la nostra Rivista si è spesso occupata di questo tema, analizzando la situazione che, anche a seguito della creazione di ANPAL, è rimasta assolutamente stagnante.
Spesso, quando si fa riferimento alle politiche attive del lavoro, si fa il paragone con Francia o Germania, per avere un metro di misura e i numeri sono assolutamente impietosi e illuminanti: l’Italia spende ogni anno circa 750 milioni di euro per le politiche attive, a fronte di 5 miliardi e mezzo della Francia e 11 della Germania e la situazione non sembra cambiare se prendiamo in esame i numeri del PNRR: per il potenziamento dei Centri per l’Impiego si è deciso di investire 600 milioni di euro (Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali). Secondo dati di Eurostat, elaborati nel 2011 dall’allora “Italia Lavoro”, in Italia c’è un operatore dei servizi pubblici per l’impiego ogni centocinquanta lavoratori, mentre in Francia il rapporto è di un operatore ogni quarantotto e in Germania ogni quarantacinque. I numeri parlano chiaro, insomma: in altri Paesi, fermo restando il ruolo delle agenzie private, lo Stato intende affermare con forza la propria presenza e il proprio ruolo.
Sia in Francia che in Germania, peraltro, le politiche attive sono – inevitabilmente – intrecciate con quelle passive, così da garantire che durante il percorso di accompagnamento/orientamento/ricerca vi sia anche uno strumento di sostegno economico.
In Italia, invece, in questi giorni il Consiglio dei Ministri ha definitivamente deliberato la chiusura di ANPAL e il suo rientro nella compagine del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Al netto della scelta fatta nel 2015 di realizzare una Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro senza aver cambiato prima il quadro costituzionale – scelta che, di fatto, ha affossato ab origine la possibilità di sviluppo di ANPAL – tale decisione rischia oggi di assumere il sapore della sconfitta, della definitiva rinuncia dello Stato ad avere un ruolo in questa materia e di lasciare che ogni Regione si organizzi come meglio o peggio crede, lasciando il resto dello spazio alle agenzie private. Un assaggio di quella che potrà essere l’autonomia differenziata?
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona E.T.S.
Seguiteci su Facebook
>