Mentre in Parlamento prosegue l’esame di merito sugli oltre 40 articoli che compongono il testo originario del c.d. “decreto lavoro”[1], ça va sans dire destinato a dilatarsi in corso d’opera, il dibattito pubblico registra le prese di posizione dei vari soggetti istituzionali e delle categorie produttive sui singoli aspetti di un provvedimento che, nell’insieme, appare caratterizzato da una spiccata eterogeneità di contenuti. L’utilizzo dello strumento della decretazione d’urgenza non sembra in questo caso rispondere tanto alla necessità di applicare soluzioni mirate a problemi specifici, quanto a rendere immediatamente operativo un pacchetto di misure – non tutte strettamente correlate – che puntano a consolidare la ripresa della domanda interna attraverso il sostegno al potere d’acquisto dei redditi medio-bassi e alla ripresa occupazionale[2].
Intorno a questo decreto e agli aspetti di natura lavoristica che lo caratterizzano ferve un intenso confronto politico e culturale rispecchia la frammentazione delle posizioni delle parti sociali a vario titolo interessate. Nelle brevi considerazioni che seguono proveremo a evidenziare questo fenomeno in riferimento ad alcuni passaggi significativi del provvedimento in discussione e precisamente: il nuovo regime delle causali nei rapporti a termine, la semplificazione degli obblighi di trasparenza in materia di informazioni sui rapporti di lavoro; gli incentivi alle assunzioni dei giovani che non lavorano e non studiano (c.d. NEET). Senza alcuna pretesa di esprimere o, tanto meno, indurre nei lettori valutazioni definitive al riguardo, cercheremo di proporre una lettura dei fattori cruciali che hanno alimentato il confronto fra le parti sociali nella prima fase di analisi e di approfondimento del decreto, ben sapendo che la fase di elaborazione parlamentare non è ancora conclusa e che gli aspetti qui evidenziati (o alcuni di essi) potrebbero essere oggetto di modifica in corso d’opera[3].
La revisione della disciplina del lavoro a tempo determinato nel settore privato è uno dei passaggi che ha attirato le maggiori attenzioni degli osservatori e sui quali le posizioni delle parti sociali appaiono più articolate. La nuova norma, intervenendo sull’art. 19, comma 1, del decreto 81/2015, conferma la possibilità di stipulare un contratto a tempo determinato non superiore a 12 mesi senza giustificarne il motivo, ma modifica il regime delle causali per un termine superiore ai 12 mesi – comunque non oltre i 24 – rinviando al contratto collettivo aziendale la casistica dei rinnovi. Superando i vincoli al regime delle causali fissato a suo tempo dal c.d. “Decreto Dignità”[4], la nuova norma prevede infatti la possibilità di estendere oltre i 12 mesi la durata dei rapporti a termine[5] in tutti i casi in cui ciò sia stabilito dalla contrattazione collettiva ai sensi dell’art. 51 del d. lgs. 81/2015[6], ovvero sia motivato da ragioni tecniche, organizzative e produttive che potranno essere individuate dalle parti contraenti a livello aziendale o dal datore di lavoro entro il 30 aprile 2024, ovvero in sostituzione di altri lavoratori. Al riguardo, è utile ricordare che la causale ad ampio spettro rappresentata dalle fattispecie previste dai contratti collettivi ripropone una precedente norma transitoria (comma 1.1 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81 del 2015, ora abrogato dal nuovo decreto) valida nel periodo dal 25 luglio 2021 al 30 settembre 2022; scompare, peraltro, la causale rappresentata dalle esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria. Resta ferma la previsione – già introdotta dal Decreto Dignità – secondo cui, in assenza delle condizioni di cui sopra, il contratto a termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi. Nessuna modifica, inoltre, è prevista per il regime dei divieti di apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato, che continua pertanto a riguardare le fattispecie indicate nell’art. 20 del citato d.lgs. 81/2015: a) sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero; b) unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi che hanno riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato[7], c) unità produttive nelle quali opera una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni, che interessano lavoratori adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a tempo determinato; d) datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi in applicazione della normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Analogamente, la nuova normativa non introduce modifiche ai regimi previsti dal d.lgs. 81 in materia di proroghe e rinnovi, di continuazione dei rapporti oltre la scadenza del termine, di numero complessivo di contratti a tempo determinato, di diritto di precedenza, di principio di non discriminazione e di esclusioni. Fra le innovazioni introdotte nel regime delle causali, come definito nell’art. 19 del d.lgs. 81/2015, va segnalata la previsione secondo cui le disposizioni sui rapporti a termine non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni[8], nonché ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati dalle università private, “incluse le filiazioni di università straniere, istituti pubblici di ricerca, società pubbliche che promuovono la ricerca e l'innovazione ovvero enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere attività di insegnamento, di ricerca scientifica o tecnologica, di trasferimento di know-how, di supporto all'innovazione, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa.”
Le audizioni parlamentari delle organizzazioni datoriali e sindacali hanno evidenziato diverse criticità connesse alle nuove disposizioni, ma, nel contempo, hanno messo in luce l’ampio ventaglio di sensibilità presenti fra le parti sociali rispetto a un tema complesso e, sotto molti aspetti, divisivo. Senza volersi addentrare in un’analisi di dettaglio delle posizioni delle singole organizzazioni che, in questa sede, risulterebbe probabilmente stucchevole oltre che di scarsa utilità, mette conto rilevare come fra gli elementi di valutazione da parte datoriale si sia ritenuto opportuni evidenziare nella realtà italiana lo strumento dei contratti a termine non risulta particolarmente abusato rispetto al contesto europeo[9], ma che anzi il nuovo regime delle causali può contribuire a migliorare le esigenze di flessibilità del mercato del lavoro, contrastando il rischio di diffusione del lavoro irregolare. Sempre dal fronte datoriale, inoltre, si è suggerito sia un intervento finalizzato ad eliminare il contributo addizionale dello 0,5%, introdotto dal Decreto Dignità[10], in occasione di ciascun rinnovo di contratto a tempo determinato, al fine di ridurre il costo del lavoro; sia una più attenta riflessione sul passaggio riguardante il rinvio paritario ad entrambe le “parti” (datore di lavoro e lavoratore) della definizione delle causali che consentono di superare i 12 mesi in assenza di contrattazione collettiva, in considerazione del presupposto che una sola “parte” – il datore di lavoro – conosce realmente le esigenze produttive e organizzative della propria azienda, la stessa che viene ad essere sanzionata in caso di illegittimità delle causali.
Per contro, sul fronte sindacale si è valutata positivamente la scelta di affidare alla contrattazione collettiva (di ogni livello) sottoscritta dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale la scelta delle causali per il superamento dei 12 mesi, anche alla luce del fatto che negli ultimi anni, a seguito della rigidezza del regime scaturito dal Decreto Dignità, è invalsa la consuetudine di non rinnovare i rapporti a termine allo scadere dei primi 12 mesi, preferendo instaurarne di nuovi con altri lavoratori. Nello stesso tempo, però, è stato sottolineato che il rinvio della definizione delle causali di natura tecnica, operativa o produttiva alla contrattazione individuale, in assenza di contrattazione collettiva, rischia di determinare situazioni di forte asimmetria in ordine al diverso potere contrattuale delle “parti”, con la conseguenza di favorire l’insorgere di abusi ed alimentare il contenzioso. Per tale ragione, nonché per prevenire l’insorgere di fenomeni di dumping, si è proposto di accorciare il termine di fruibilità della finestra di rinvio – che il decreto fissa al 30 aprile 2024 – e, in ogni caso, di accrescere l’onerosità dei rapporti a termine in senso inversamente proporzionale alla loro durata. Peraltro, dal fronte datoriale si è anche evidenziato come il rinvio ad accordi individuali fra le parti, in assenza di accordi sindacali, non prefiguri necessariamente un’incombente deregulation nel ricorso ai contratti a termine (al netto delle fattispecie legate a esigenze sostitutive o durate inferiori ai dodici mesi), stante la scarsa attrattività mostrata nel tempo dal c.d. “causalone”[11], oggetto di frequente contenzioso giudiziario e di cui il passaggio in questione sembrerebbe riproporre la ratio.
Il pacchetto di disposizioni mirate alla semplificazione delle norme in materia di trasparenza delle condizioni di lavoro e di obblighi informativi relativi al rapporto di lavoro – introdotte appena un anno fa dal decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104[12] – si apre con la previsione della possibilità per le imprese di adempiere a una parte degli obblighi informativi nei confronti dei lavoratori semplicemente indicando le norme o il contratto collettivo, anche aziendale, di riferimento. Al riguardo, vale la pena riassumere brevemente quali sono le informazioni che, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 152/1997, come modificato appunto dal decreto 104 (cfr. nota 12), devono obbligatoriamente essere comunicate dal datore di lavoro (pubblico e privato) al lavoratore all'atto dell'instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell'inizio dell'attività lavorativa[13]: identità delle parti; luogo di lavoro; sede o il domicilio del datore di lavoro; inquadramento, livello qualifica attribuiti al lavoratore o, in alternativa, le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro; data di inizio del rapporto di lavoro; tipologia di rapporto di lavoro, precisandone la durata in caso di rapporti a termine; nel caso di lavoratori dipendenti da agenzia di somministrazione di lavoro, identità delle imprese utilizzatrici; durata del periodo di prova; diritto a ricevere la formazione erogata dal datore di lavoro; durata del congedo per ferie, nonché degli altri congedi retribuiti cui ha diritto il lavoratore; procedura, forma e termini del preavviso in caso di recesso del datore di lavoro o del lavoratore; importo iniziale della retribuzione e relativi elementi costitutivi, con l'indicazione del periodo e delle modalità di pagamento; programmazione dell'orario normale di lavoro ed eventuali condizioni relative al lavoro straordinario e alla sua retribuzione, nonché eventuali condizioni per i cambiamenti di turno[14]; contratto collettivo, anche aziendale, applicato al rapporto di lavoro, con indicazione delle parti che lo hanno sottoscritto; enti e istituti che ricevono i contributi previdenziali e assicurativi dovuti dal datore di lavoro e qualunque forma di protezione in materia di sicurezza sociale fornita dal datore di lavoro stesso; modalità di esecuzione della prestazione organizzata mediante l'utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati.
Le modifiche ora introdotte dal decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, non sconvolgono l’architettura del sistema normativo vigente, ma si concentrano su due aspetti sostanziali dello stesso che, peraltro, sono da tempo oggetto di riflessione da parte degli attori sociali e della dottrina. Il primo è rappresentato dalla possibilità per i datori di lavoro di espletare un certo numero di obblighi informativi[15] semplicemente indicando i riferimenti normativi o i contratti collettivi, anche aziendali, dove le relative materie sono disciplinate. Tale previsione è altresì integrata dall’obbligo a carico del datore di lavoro di “consegnare o mettere a disposizione del personale” i contratti collettivi di lavoro nazionali, territoriali e aziendali, nonché gli eventuali regolamenti aziendali “applicabili al rapporto di lavoro”[16]. Il secondo – e probabilmente più importante – aspetto di novità è rappresentato dalla sostituzione integrale del primo comma dell’art. 1-bis del d.lgs. 152 (concernente “Ulteriori obblighi informativi nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati”), per effetto della quale l’utilizzo da parte del datore di lavoro di “sistemi decisionali e di monitoraggio deputati a fornire indicazioni rilevanti ai fini della assunzione o del conferimento dell'incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell'assegnazione di compiti o mansioni” nonché a fornire “indicazioni incidenti sulla sorveglianza, la valutazione, le prestazioni e l'adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori” saranno oggetto di informazione obbligatoria solo nel caso che abbiano la caratteristica di essere “integralmente automatizzati”; oltre a ciò, i predetti obblighi informativi non valgono nei riguardi dei “sistemi protetti da segreto industriale e commerciale”.
Se da parte datoriale si è valutata positivamente l’introduzione di aspetti semplificativi degli obblighi informativi previsti dal decreto 104 – soprattutto con riferimento all’esclusione dei sistemi protetti da segreto industriale e commerciale – da parte sindacale è stato rilevato che la limitazione degli obblighi informativi ai soli sistemi “integralmente automatizzati”, in considerazione dell’avanzare dei processi di digitalizzazione e della sempre più massiccia introduzione di sistemi di gestione dei processi produttivi guidati dall’intelligenza artificiale, può comportare un rischio concreto di compressione del diritto fondamentale di informazione, a tutto svantaggio della parte contrattuale che nel rapporto lavorativo appare strutturalmente più debole. Sorprende però che le parti sociali abbiano sin qui dato poca rilevanza al fatto che già la versione preesistente della norma sugli specifici obblighi informativi in materia di adozione e funzionamento di sistemi decisionali e di sorveglianza automatizzati avesse dato origine a discussioni e perplessità interpretative, che non si erano attenuate neppure a seguito delle indicazioni contenute nella circolare Ministero del Lavoro n. 19 del 20 settembre 2022[17] contenente “orientamenti piuttosto problematici rispetto agli specifici sistemi con riferimento ai quali sorge il dovere in capo al datore di lavoro di fornire informazioni a lavoratori e loro rappresentanti in azienda”[18]. Il problema nasceva – secondo alcuni – dal fatto che l’interpretazione ministeriale non sembrava riflettere pienamente le norme del Regolamento Generale europeo sulla Protezione della Privacy, contenute nel Regolamento (UE) 2016/679, alla luce delle quali era e tuttora rimane lecito ricomprendere nell’ambito applicativo della disposizione sull’informazione qualunque sistema decisionale automatizzato, indipendentemente dalla circostanza tecnica della integrale automatizzazione del trattamento[19]. La modifica normativa ora introdotta dal decreto-legge 48/2023 sembra dunque andare incontro più alla logica della ricordata interpretazione ministeriale che a quella del regolamento comunitario, il che lascia forse presagire – più di ogni altra considerazione – un possibile intervento correttivo in sede parlamentare al fine di prevenire il rischio di un conflitto con la legislazione europea.
Fra le misure a sostegno dell’occupazione contenute nel decreto-lavoro, l’interesse delle parti sociali – al netto delle agevolazioni ricomprese nel complesso pacchetto di norme riguardanti l’istituzione dell’Assegno di Inclusione – ha riguardato soprattutto quella relativa all’introduzione di un incentivo pari al 60% cento della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali per 12 mesi, erogato mediante conguaglio nelle denunce contributive mensili, in favore delle imprese che nel periodo dal 1° giugno al 31 dicembre 2023 assumono giovani che non hanno compiuto i 30 anni di età (29 anni e 364 giorni), non sono impegnati in attività lavorative e non sono inseriti in corsi di studi o di formazione, ma risultano iscritti al PON “Iniziativa Occupazione Giovani” che gestisce il Programma Garanzia Giovani. È possibile altresì fruire del bonus anche per assunzioni con contratto di somministrazione a tempo indeterminato o di apprendistato professionalizzante o di mestiere. Sono invece escluse le assunzioni per lavoro domestico o intermittente. Le risorse complessivamente disponibili sono pari a 80 milioni di euro per il 2023 e a 51,8 milioni di euro per il 2024, erogabili sino ad esaurimento e solo previa ripartizione regionale da effettuarsi a seguito di un apposito decreto ANPAL. In ogni caso, la nuova norma prevede l’avvio presso l’INPS di una specifica procedura telematica di domanda e di concessione (per la quale l’Istituto dovrà emanare le apposite istruzioni operative) da parte dei datori di lavoro interessati, che entro 5 giorni riceveranno per la medesima via la conferma della effettiva disponibilità delle risorse. In caso affermativo, la richiesta del datore di lavoro vale come una sorta di prenotazione delle risorse stesse[20], cui dovrà far seguito, entro i sette giorni successivi, la stipula del contratto di assunzione e la relativa immediata comunicazione del datore di lavoro all’INPS, sempre per via telematica[21]. Anche nei confronti di questa disposizione le parti sociali hanno espresso sensibilità diverse e difficilmente conciliabili in ottica emendativa. Da parte imprenditoriale si è valutato positivamente il beneficio, ma se ne è sottolineata l’insufficienza nell’ambito in un percorso auspicato di riduzione strutturale del cuneo contributivo ai fini di un reale miglioramento del livello di competitività del sistema produttivo. Sul fronte sindacale si è rilevato che, stante la particolare platea dei destinatari, l’efficacia di questo incentivo andrebbe implementata attraverso un potenziamento dei percorsi di qualificazione e riqualificazione che tengano conto delle esigenze dei mercati del lavoro territoriali, in carenza dei quali potrebbe risultare insufficiente lo stimolo ad incrementare la domanda di lavoro e, per tale via, ridurre i divari esistenti in termini di possibilità di accesso al mercato del lavoro per le fasce più vulnerabili dei giovani.
[1] Il decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 (“Misure urgenti per l'inclusione sociale e l'accesso al mondo del lavoro”) è stato pubblicato sulla G.U. n.103 del 04-05-2023 ed è entrato in vigore il giorno successivo. Sempre in data 5 maggio 2023 è stato assegnato alla 10a Commissione permanente (Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale) del Senato della Repubblica in sede referente (Atto Senato n. 685).
[2] “Per contribuire alla ripartenza della crescita e per contenere l’inflazione, il governo introdurrà un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi di circa 3,5 miliardi nell’anno in corso. Ciò sosterrà il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Per il 2024, a fronte della costituzione di un fondo per la riduzione delle imposte dirette pari a 0,2 punti di PIL, si provvederà a ridurre la pressione fiscale incentivando la domanda interna.” (Documento di Economia e Finanza 2023. Sezione II - Analisi e tendenze della finanza pubblica, I Sintesi del quadro macroeconomico, p. 2).
[3] Al momento di andare in stampa, la 10ª Commissione del Senato si appresta a concludere l’esame del testo che, dopo l’approvazione in aula, passerà all’esame dell’altro ramo del Parlamento. Il presente contributo è stato elaborato sulla base del testo originario depositato in Parlamento il 5 maggio e non tiene conto degli emendamenti discussi durante l’esame in Commissione, ma non ancora consolidati nel definitivo testo di conversione.
[4] Decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (“Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, convertito con modificazioni dalla Legge 9 agosto 2018, n. 96), in base al quale, per effetto delle modifiche al regime del lavoro a tempo determinato di cui all’art. 19 del decreto legislativo n. 81/2015, il contratto di lavoro poteva avere una durata superiore a 12 mesi, ma comunque non eccedente i 24 mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria. Per una sintetica ricostruzione dell’evoluzione del regime delle causali, si veda oltre, alla nota n. 11.
[5] Il comma 1 dell’art. 19 del d,lgs. n. 81/2015, non toccato dal nuovo decreto, ha stabilito il principio generale per cui ai contratti di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi, salvo specifiche motivazioni che richiedano una durata superiore, comunque non superiore a 24 mesi.
[6] Il riferimento è ai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e ai contratti collettivi aziendali stipulati dalle RSA/RSU.
[7] A meno che il contratto sia concluso per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità, o abbia una durata iniziale non superiore a tre mesi.
[8] Per le pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma2, del decreto legislativo 30 marzo 2011 n. 165 restano valide le previsioni contenute nell’art. 36, comma 2, del medesimo decreto 165: “2. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa, esclusivamente nei limiti e con le modalità in cui se ne preveda l'applicazione nelle amministrazioni pubbliche. Le amministrazioni pubbliche possono stipulare i contratti di cui al primo periodo del presente comma soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale e nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall'articolo 35 [concernente “Reclutamento del personale” – n.d.r.]. I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, escluso il diritto di precedenza che si applica al solo personale reclutato secondo le procedure di cui all'articolo 35, comma 1, lettera b), del presente decreto. (omissis)”.
[9] Sembra interessante richiamare in proposito i dati Eurostat disponibili al seguente link: https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/LFSA_ETGAN2/default/table?lang=en&category=labour.employ.lfsa.lfsa_emptemp, che illustrano l’utilizzo dei lavoratori temporanei nell’area Euro, nell’Unione Europea e nei singoli Paesi dell’Unione.
[10] Articolo 3, comma 2, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96.
[11] Volendo riassumere in poche battute le vicende piuttosto tormentate delle causali per il ricorso ai contratti a tempo determinato, va ricordato che la legge 18 aprile 1962, n. 230 le aveva introdotte per la prima volta, mentre la legge 28 febbraio 1987, n. 56, aveva introdotto la facoltà per la contrattazione collettiva di aggiungere ulteriori causali a quelle fissate dalla legge. Il concetto di “causalone” è nato con il d.lgs. 368/2001 che, attuando la Direttiva del Consiglio n. 99/70/CE del 28 giugno 1999 e superando il quadro normativo delineato dalla legge 230/1962, concentrava le precedenti causali nella necessità di indicare una ragione oggettiva di tipo organizzativo, tecnico, produttivo o sostitutivo: fonte – proprio per la sua genericità – di un abbondante contenzioso e di una conseguente scarsa applicabilità. Con il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 (poi convertito dalla legge 16 maggio 2014, n. 78) l’apposizione delle causali per i rapporti a termine è stata sostituita dalla previsione di limiti quantitativi e di durata, ma il decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, ha reintrodotto le causali per i rapporti oltre i 12 mesi e per i rinnovi sia dei contratti a termine che dei rapporti di somministrazione. Infine, con il decreto-legge “Sostegni-bis” (n. 73 del 25 maggio 2021, poi convertito dalla legge 23 luglio 2021, n. 106), al fine di superare le rigidità applicative della norma precedente, è stata introdotta la possibilità per i contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali per i contratti di durata superiore ai 12 mesi ed entro il limite di 24 mesi di individuare causali legate a “specifiche esigenze”, in tal modo rinviando alle parti sociali, anche a livello aziendale, la facoltà di individuare le relative ipotesi.
[12] Il decreto 104 qui richiamato (“Attuazione della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea”) ha modificato diversi aspetti del precedente decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152 (“Attuazione della direttiva 91/533/CEE concernente l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro”), introducendo nuove disposizioni per disciplinare le informazioni sul rapporto di lavoro e sulle condizioni di lavoro, con particolare riguardo ai rapporti di lavoro subordinato (compreso quello agricolo) a tempo indeterminato, determinato e parziale; ai contratti di somministrazione; ai rapporti di lavoro intermittente; alle collaborazioni coordinate e continuative; ai contratti di prestazione occasionale; ai rapporti di lavoro marittimo e della pesca, domestico e con le pubbliche amministrazioni.
[13] Per completezza di informazione ricordiamo che il comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. 152/1997 stabilisce che gli obblighi informativi di cui sopra possano essere assolti mediante la consegna al lavoratore, alternativamente, del contratto individuale di lavoro redatto per iscritto o della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro di cui all'articolo 9-bis del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510. A sua volta, il comma 3 della norma in parola prevede che le informazioni eventualmente non contenute nei documenti di cui sopra “sono in ogni caso fornite per iscritto al lavoratore entro i sette giorni successivi all'inizio della prestazione lavorativa” o, per talune tipologie di informazioni, entro un mese dall'inizio della prestazione lavorativa.
[14] D.Lgs. n. 152/1997, art. 1, comma 5, lettera p): “Se il rapporto di lavoro, caratterizzato da modalità organizzative in gran parte o interamente imprevedibili, non prevede un orario normale di lavoro programmato [come è il caso del lavoro intermittente – n.d.r.], il datore di lavoro informa il lavoratore circa: 1) la variabilità della programmazione del lavoro, l'ammontare minimo delle ore retribuite garantite e la retribuzione per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite; 2) le ore e i giorni di riferimento in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative; 3) il periodo minimo di preavviso a cui il lavoratore ha diritto prima dell'inizio della prestazione lavorativa e, ove ciò sia consentito dalla tipologia contrattuale in uso e sia stato pattuito, il termine entro cui il datore di lavoro può annullare l'incarico”.
[15] Il riferimento, in particolare, è alle lettere h), i), l), m), n) o), p) ed r) dell’art. 1, c. 5, del d.lgs. n. 152/1997, che riguardano, rispettivamente, la durata del periodo di prova, il diritto alla formazione, le ferie e gli altri congedi retribuiti, il preavviso in caso di recesso, la retribuzione, l’orario normale e straordinario di lavoro, le modalità organizzative non prevedibili, i contributi previdenziali e assicurativi, la sicurezza sul lavoro.
[16] A tal fine viene introdotto un inedito comma 6-bis nel corpo del già richiamato articolo 5 del d.lgs. n. 152/1997 come modificato dal d.lgs. n. 104/2022.
[17] “Decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104 di attuazione della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea.”, con particolare riguardo al paragrafo 3: “Sugli ulteriori obblighi informativi nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati”.
[18] E. Dagnino, “Modifiche agli obblighi informativi nel caso di utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati (art. 26, comma 2, d.l. n. 48/2023)”, in “Commentario al d.l. 4 maggio 2023, n. 48 c.d. “decreto lavoro”, ADAPT Labour Studies e-Book series n. 99, giugno 2023, pag. 57. Poco oltre, l’autore prosegue sottolineando che “la stessa Circolare prevedeva una evidente forzatura interpretativa, laddove - in assenza di qualsiasi esplicito riferimento – riteneva di restringere l’ambito applicativo relativo ai sistemi decisionali ai casi in cui la decisione datoriale fosse l’esito di una attività «interamente automatizzata», peraltro con rilevanti imprecisioni linguistiche all’interno del documento (dapprima il riferimento ai casi in cui la «disciplina della vita lavorativa del dipendente, o suoi particolari aspetti rilevanti, siano interamente rimessi all’attività decisionale di sistemi automatizzati»; subito dopo a «un’attività interamente automatizzata finalizzata ad una decisione datoriale”.
[19] L’art. 13, c. 2, lettera f) del Regolamento europeo prevede che in caso di raccolta di dati che lo riguardano, il lavoratore ha diritto di ricevere dal datore di lavoro informazioni circa l'esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione, nonché informazioni significative sulla logica utilizzata, sull‘importanza e sulle conseguenze previste di tale trattamento per l'interessato. Analogamente, l’art. 15, c. 1, lettera h) del Regolamento europeo prevede che il lavoratore ha il diritto di ottenere dal datore di lavoro, titolare del trattamento, la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e, in tal caso, di ottenere l'accesso ai dati personali relativi all'esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione, nonché di ricevere “informazioni significative” sulla logica utilizzata, nonché sull'importanza e sulle conseguenze previste di tale trattamento per l'interessato.
[20] Il comma 4 dell’art. 27 del decreto-legge 48/2023 precisa al riguardo: “L'incentivo di cui al presente articolo è riconosciuto dall'INPS in base all'ordine cronologico di presentazione delle domande cui abbia fatto seguito l'effettiva stipula del contratto che da' titolo all'incentivo e, in caso di insufficienza delle risorse, l'INPS non prende più in considerazione ulteriori domande fornendo immediata comunicazione anche attraverso il proprio sito istituzionale”.
[21] Comunicazione che, in questo caso, potrebbe forse rappresentare una forma di ridondanza amministrativa, stante l’obbligo già presente in capo al datore di lavoro di comunicare l’assunzione ai servizi per l’impiego.
[*] Dipendente del Ministero del Lavoro dal 1984 al 2009, attualmente presta servizio presso il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Ha collaborato alla realizzazione della collana di volumi “Lavoro e contratti nel pubblico impiego” per la UIL Pubblica Amministrazione. Dal 1996 al 2009 è stato responsabile del periodico di informazione e cultura sindacale “Il Corriere del Lavoro”. Dal 2011 collabora alla redazione del notiziario “Mercato del lavoro e Archivio nazionale dei contratti collettivi” del CNEL.
Seguiteci su Facebook
>