Accingiamoci ad affrontare un argomento “esistenziale” che riguarda, trasversalmente, generazioni, generi, classi sociali, istituzioni, policy di welfare.
Partendo dalla critica al concetto filosofico Nietzschiano del cosiddetto individualismo estremo del “superuomo” e dell’io assoluto e autosufficiente, contrapposto al primato dell’etica e della giustizia; una affermazione dovrebbe sorreggerci quale architrave ovvero che prima dell’agire c’è l’essere. Insieme ordinato di relazioni che nelle nostre moderne società rappresentano l’evoluzione della società e che oggi conosciamo e pratichiamo e non soltanto nell’occidente europeo evoluto.
Sfuggire dall’individualismo ossessivo, avversare chi si contrappone ai legami sociali e solidaristici, contrastare le disuguaglianze estreme. In sintesi, promuovere la nascita di un welfare sussidiario per arginare la crescita di ineguaglianze.
Una politica, quindi, che persegue incessantemente il bene della persona umana, i suoi diritti inviolabili e la dignità di ogni vita in qualsivoglia status sociale di appartenenza, quale motore attivo di democrazia.
Transizioni tecnologiche, ambientali e sociali devono rappresentare un unicum di sviluppo delle nostre società. Partiamo dall’assunto che le disuguaglianze erodono la coesione sociale. Solamente un welfare sussidiario può arginare le crescenti disuguaglianze a cui assistiamo gettando le basi per una crescita che sia al contempo inclusiva. Metropoli fagocitate da derive sociali e lasciate all’abbandono e all’abbrutimento di periferie in continua crescita. Ma anche territori interni e rurali sempre più abbandonati a se stessi nel crescente declino, che marcia di pari passo con una deriva demografica. In ambedue le realtà crescono, esponenzialmente, le persone vulnerabili dei luoghi e dei territori dimenticati.
Certamente il ruolo del cosiddetto Terzo settore, anche rispetto alla riforma intervenuta nel 2017 (nuovo codice del terzo settore e istituzione Runts) nell’ambito della transizione sociale, assume una valenza determinante considerata nel quadro più generale del necessario Welfare. Bisogna disporre di maggior tempo libero per le cure familiari, per il proprio accrescimento umano e culturale, per la necessità di esprimere maggiori relazioni e socialità, maggior tempo disponibile per l’assistenza genitoriale e l’assistenza ai nostri anziani e la costruzione e/o ricostruzione dei legami filiali e familiari, tutti beni essenziali per le nostre esistenze nonché argine alle “crescenti solitudini”.
In una parola nella “contrattazione collettiva” si dovrebbero aprire e incrementare degli spazi per ridisegnare le politiche economiche e del lavoro, come pure quelle sociali e aggiungo sanitarie. Si deve partire anche dalla consapevolezza dell’esistenza di una “economia sociale” che va di pari passo con “l’economia monetaria” nell’ottica di una libera economia di mercato. Generare “valore economico” non può distaccarsi dal creare “valore sociale”.
Il tema della transizione demografica unitamente a quella digitale ed ecologica o ambientale è sicuramente al centro degli interessi e strategie del programma europeo finanziato con il PNRR e altrettanto con il Next Generation EU, in particolar modo per l’impatto sulle giovani generazioni anche rispetto al versante lavorativo-occupazionale. Pensiamo di poter dire che la demografia rappresenta, con ogni evidenza, una delle maggiori forze di intercessione sul cambiamento del nostro tempo, influendo sugli equilibri economici globali. Il funzionamento della società come dell’economia grava maggiormente su una forte consistenza delle classi giovanili.
L’Istat ci dice che al 31.12.2022 in Italia la popolazione tra i 15 e i 64 anni (quindi quella in età lavorativa) rappresenta poco più del 63%, gli anziani oltre i 65 anni sono circa il 21% e i più piccoli fino ai 14 anni sono il 12,5%. I demografi prevedono che al 2050 gli anziani saranno ben oltre 1/3 della popolazione del nostro Paese. Conseguentemente, nei due prossimi decenni la denatalità produrrà una contrazione netta dei giovani e conseguentemente della popolazione in attività lavorativa. Questo andamento negativo sulle nascite impatterà inevitabilmente sulle potenzialità di crescita dell’intero sistema economico. A questo dobbiamo aggiungere che dall’Italia espatriano sempre più giovani, in particolare laureati, alla ricerca di migliori, più remunerative e stabili occasioni di lavoro, disperdendo capitale umano con dirette conseguenze anche sugli equilibri economici, sociali e demografici della nostra nazione.
È necessario quindi, come governanti e classe dirigente, affrontare con decisione e concretamente la situazione, agendo sulla leva del contrasto/disincentivo alla “precarietà” e “frammentarietà” del lavoro stesso in ogni sua forma.
In particolare, con il PNRR si stanno finanziando investimenti e relative “missioni” anche per migliorare la qualità e quantità di lavoro per le ns giovani leve, puntando alla diminuzione della dispersione scolastica (molto accentuata e grave, in Italia) come anche al miglioramento ed ammodernamento delle competenze didattico-formative. Parallelamente, ci si è approcciati ad un fattivo piano di sviluppo degli asili nido e scuole dell’infanzia, con relativi servizi di educazione e cura, misure queste tese, evidentemente, ad affrontare al meglio, con maggiori risposte, il tema più generale della conciliazione lavoro-famiglia che tanto influenza la ricerca occupazionale come pure in conseguenza diretta i tassi di natalità, innescando quindi una relazione positiva tra occupazione femminile e maternità. Esempio virtuoso in tal senso lo offre la Svezia (paese nordico con forte tradizione di welfare diffuso) dove il 75% del genere femminile risulta occupato e dove parimenti le donne in media hanno 1,66 figli per unità con un evidente gap positivo rispetto il nostro Paese dove le donne hanno un tasso di filiazione pari a 1,24 figli e dove la percentuale di occupazione delle donne madri lavoratrici è di circa il 58%.
Il Rapporto Istat di quest’anno 2023 ci consegna un alert rispetto alla condizione di evidente declino del Paese. Questo anche rispetto alla necessità di una svolta sull’andamento demografico e il suo potente impatto sull’economia reale. Tra i possibili correttivi annoveriamo, con convinzione, la necessità di mettere in condizione di lavorare i circa 1,7 milioni di Neet (giovani che non studiano e non lavorano) che rappresentano da anni uno dei nostri record negativi in ambito Europeo insieme al nostro tasso di occupazione, che rimane altresì fanalino di coda in Europa. Quindi, altrettanto necessario risulta essere il bisogno di vedere maggiormente collocate al lavoro proprio le donne, messe in condizione di lavorare, come più diffusamente avviene nei Paesi del centro, nord Europa.
Il lavoro, e lo sviluppo, possono essere l’unica via per tornare ad una crescita economica sostenibile considerando che per invertire il trend della natalità ci vorranno anni e lustri. Dato avverso corroborato dalle 27 mila nascite in meno del 2022 che ci hanno fatto toccare il record storico negativo.
Esiste inoltre in Italia un problema dei bassi salari, e di stabilità, anche questo incide sulla possibilità di avere una famiglia e mettere al mondo dei figli.
Secondo il Rapporto Istat negli ultimi dieci anni in Italia “la crescita nominale dei costi medi del personale è stata inferiore a quella nominale della produttività”. Mentre in Francia, Spagna e, principalmente in Germania, i salari nominali hanno registrato una crescita superiore a quella della produttività, allargando la forbice tra noi e questi Paesi, rispetto agli incrementi stipendiali ottenuti.
I lavoratori italiani guadagnano circa 3.700 euro l'anno in meno della media dei colleghi europei e oltre 8.000 euro in meno della media di quelli tedeschi. La retribuzione media annua lorda per dipendente è pari a quasi 27 mila euro, inferiore del 12% a quella media Ue e del 23% a quella tedesca.
Da un recente studio condotto sull’andamento demografico comparato tra alcuni Paesi Europei con proiezioni al 2050, dal prof. G. Terranova della LUISS di Roma e dal Ricercatore dr. A. Giordano della UniKore di Enna emergerebbe un dato di assoluto interesse legato all’incremento consistente della popolazione Francese arrivando a sfiorare il primato europeo (detenuto ora dalla Germania) per popolazione residente, a fronte di un decremento delle popolazioni di altri Paesi come Germania, Italia, Spagna, Polonia, Gran Bretagna.
In Europa si è andata ad affermare la regola della teoria della Transizione Demografica che prevede per le società moderne e fondate sul benessere il transito verso tassi di mortalità e natalità molto bassi. Fa appunto eccezione, secondo questo studio, il caso Francese dove la fertilità femminile risulta in controtendenza rispetto al resto dei Paesi del continente europeo con gli attuali 2,1 figli per ogni donna, rispetto ad una media europea di 1,2-1,4 e i paesi scandinavi e la Gran Bretagna a circa 1,7. Con questi dati di dinamica demografica comparata è necessario fare ulteriori passaggi rispetto alle motivazioni che sono alla base di tali andamenti sociali.
La Francia, per bilanciare l’invecchiamento della popolazione ha fatto da una parte ricorso al fattore immigrazione (storicizzato e particolarmente rilevante nel Paese) ma soprattutto ha sviluppato costantemente negli anni – perfezionandola nel secondo dopoguerra – una importante politica di concreti aiuti alle famiglie. Sempre in Francia è presente il diffuso fenomeno delle gravidanze in età avanzata, che si sono triplicate negli ultimi 25 anni, ma, nonostante ciò, le donne francesi, pur avendo il primo figlio in età avanzata, riescono, comunque, ad avere due o tre figli. Soltanto una donna su 10, in Francia, non sarà mai madre nel corso della sua vita (in Germania una su quattro) e tre donne su 10 hanno una famiglia cosiddetta numerosa (con tre o più figli).
Già all’inizio del Novecento le autorità francesi portarono avanti il contrasto alla mortalità infantile, in particolare contro la tubercolosi. E, già nel 1917 le donne francesi avevano diritto a un congedo dal lavoro per gravidanza retribuito. Le stesse imprese, come Michelin, offrivano possibilità di alloggio gratuito per gli operai con più di quattro figli. Nel 1920 erano quindi presenti aiuti finanziari pubblici a favore delle famiglie con quattro o più figli.
Negli anni Settanta si diede la possibilità, alle giovani donne, non solo di agevolarne l’entrata nel mondo del lavoro, ma di potere contemporaneamente soddisfare il proprio desiderio di maternità, grazie ad importanti sostegni statali, economici, ma soprattutto sotto forma di infrastrutture. Si pensi alla diffusione degli asili nido sui luoghi di lavoro.
Durante gli anni Novanta, ancora una volta la Francia ha dimostrato come le proprie leggi anticipino i fenomeni sociali, accompagnando una realtà che cambia, attraverso ad esempio il riconoscimento della famiglia monoparentale e l’istituzione dei PACS, il Patto Civile di Solidarietà.
Si pensi, a titolo dimostrativo, che i bambini nati fuori dal matrimonio tradizionale erano già il 39% sul finire dello scorso secolo, ed oggi rappresentano più del 50% dei neonati.
Lo Stato francese garantisce, così, la libertà di scelta alla coppia, in quanto, indipendentemente dal tipo di unione che la lega, ha sempre la garanzia di ricevere i diversi aiuti statali per la famiglia. In tal modo la Francia laica fa più figli dell’Italia Cattolica o della Germania Protestante.
I provvedimenti di sostegno alle famiglie, di cui si parla, concernono la vita quotidiana: scuola, sanità, sgravi fiscali, infrastrutture, alloggi, etc. Misure di ogni genere che nel corso degli anni si incrementano, restando in vita con qualsiasi alternanza politica, e si adattano ai cambiamenti socio-culturali che avvengono nel corso degli anni. Il manifestarsi di queste azioni istituzionali spiega, in parte, l’attuale vantaggio demografico francese e la sua vivacità nei confronti degli altri principali paesi europei.
Eclatante è il caso della ricca Germania: un terzo degli abitanti nel 2050 avrà più di 65 anni. E diventerà assieme all’Italia il paese più vecchio d’Europa. A livello mondiale, il paese in testa alla classifica dell’invecchiamento sappiamo che è il Giappone.
Certamente la consistenza demografica rappresenta per un paese un fattore importante nella competizione internazionale in termini di forza produttiva, importanza economica, rappresentanza politica e sociale. Più rilevante, quindi, sarà l’aspetto economico. Il vantaggio demografico, grazie soprattutto alle fasce più giovanili, dovrebbe tradursi in un maggior dinamismo e prospettiva economica.
In un recente intervento dell’economista prof. Stefano Zamagni profondo conoscitore delle politiche di welfare e del terzo settore, nonché componente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, partecipando ad un seminario di studio dell’Università Cattolica lo stesso ha fatto il punto su quali politiche possono attuarsi per aiutare materialmente le famiglie al fine di rilanciare la natalità nel nostro Paese, ponendo un nesso diretto tra “Politiche economiche e natalità”.
Tra le affermazioni di Zamagni particolare evidenza va data alla seguente: “bisogna finirla di considerare in Italia le politiche familiari come politiche di contrasto alla povertà, mentre vanno tenute distinte. Se una famiglia è anche povera, oltre alle misure previste dalle politiche familiari di cui usufruisce, bisogna darle anche le misure di contrasto alla povertà”.
Sempre Zamagni ci rammenta che nella metodologia della contabilità pubblica nazionale, le imprese profit sono da considerare quali operatori dell’ambito economico produttivo. Diversamente dalle famiglie qualificate come entità puramente di consumi. Ciò evidentemente non è compiutamente vero.
Le famiglie non possono essere viste solamente come centri di consumo, ma viceversa assumono costantemente ruoli assimilabili agli altri produttori di ricchezza, difatti la famiglia può considerarsi un soggetto produttore per eccellenza, con elemento cardine rappresentato appunto dai figli che sono un bene comune e non soltanto una componente affettiva.
In ambito culturale e sociale bisognerebbe considerare la genitorialità e quindi la procreazione come componente che riguarda l’intera comunità civile.
Ancora citando Zamagni: “Non dobbiamo più parlare di politiche per la famiglia, che identifica un approccio assistenziale, ma di politiche della famiglia, che la vede protagonista attiva. Questo vuol dire mettere in campo il principio di sussidiarietà. E serve la sussidiarietà circolare”.
È sicuramente necessaria un’armonizzazione tra essere genitori e dedicarsi legittimamente ad una propria carriera senza distinzione di genere. Insomma, il giusto bilanciamento tra famiglia e lavoro.
Famiglia e impresa devono essere un contesto armonioso, è inesatto attribuire genericamente il termine “conciliazione” che ci fa immaginare un pensiero conflittuale tra luogo di lavoro e luogo della famiglia. Più idoneo appare quindi il termine armonia.
L’organizzazione odierna del lavoro di Amministrazioni, aziende, imprese, uffici, è ancora “intriso” del modello taylorista, che ha avuto un successo quale modello di lavoro vocato esclusivamente alla produzione e al profitto. Ma non si considera sufficientemente che questo modello ha in un certo senso degradato, avvilendo ed alienando, il lavoro umano, risultando al contempo poco attento alle esigenze della componente lavorativa femminile.
Frequentemente e in maniera crescente le donne, messe di fronte alla scelta esistenziale tra lavoro e figli, scelgono non di rado la carriera. Per garantirsi un reddito e quindi una relativa autonomia economica le donne non devono però avere figli o al massimo procrearne uno soltanto. Le imprese nei fatti disincentivano la maternità. Una donna oggi è sì adeguatamente tutelata nell’evento maternità, nel senso che non viene espulsa dal mondo del lavoro, (almeno dal punto di vista formale) ma quando rientra al lavoro non di rado è costretta ad adattarsi magari a nuove collocazioni lavorative, subendo il frammentario personale percorso di crescita e carriera.
Questi a seguire sono i numeri di particolare interesse degni di citazione sul tema (tratti dall’ultimo Rapporto INAPP 2023).
In Italia quasi una donna su cinque tra i 18 e i 49 anni non lavora più dopo la nascita di un figlio e più del 50% lascia la carriera perché non riesce a conciliare lavoro e cura dei figli. Evidentemente serve una riflessione in merito a quanto sia fondamentale che le imprese collaborino con le Istituzioni per favorire politiche di inclusione e di parità di genere.
Non si tratta solo di dimostrare reale sensibilità nei confronti delle lavoratrici, ma anche di affrontare, tangibilmente, il problema della scarsa natalità iniziando dalla tutela della maternità. Soprattutto in un Paese come il nostro che sta vivendo un vero e proprio “declino demografico” e che negli ultimi 15 anni – come recentemente fotografato dall’ISTAT – ha registrato una denatalità che ha superato nel periodo osservato il 30%.
Sappiamo dell’esistenza di un recente “Codice di Autodisciplina” sulle politiche di gestione della maternità, da poter adottare nelle aziende. Lo stesso è promosso dal Ministero per la Famiglia, la Natalità e per le Pari Opportunità. Certamente nel prossimo futuro ci potrà essere un confronto dialettico tra e con le aziende, al fine di poter gestire al meglio, per la propria forza lavoro, una giusta “armonizzazione” tra lavoro, famiglia, vita privata.
In tale contesto si inquadra l’esperienza virtuosa realizzata nella importante realtà di impresa informatica multinazionale, Engineering SpA, avente un organico femminile che supera il 32% e dove si promuovono programmi di networking e mentoring dedicati, appunto, ad accrescere ed accelerare lo sviluppo professionale femminile, attraverso una interna “Pink Academy”, dove si realizzano corsi di upskilling e reskilling rivolti appositamente alle donne, da tempo assenti dal mondo del lavoro o dalla azienda, per motivi legati anche alla maternità o altre esigenze familiari.
La denatalità, è un fatto, è in grado di produrre effetti diretti sulle politiche di welfare. Ciò in quanto il calo demografico rappresenta ormai un problema strutturale aggredibile, efficacemente, soltanto con strumenti concreti di welfare. Ad esempio, figli in cambio di sconti fiscali, potrebbe essere un percorso virtuoso. Servono politiche di fiscalità, ma anche servizi e sostegno al reddito per le giovani coppie.
Il primo fattore che influisce profondamente sulla bassa natalità è sicuramente l’incertezza per il futuro che pesa sul lavoro dei giovani. Questi, infatti, faticano a fare ingresso nel mondo del lavoro allontanando sempre di più il momento dell’indipendenza e della costruzione di una famiglia. La ricerca di una certa stabilità lavorativa ed economica diventa un punto fermo irrinunciabile. Il ritardo nella costruzione della famiglia fa sì che le donne spostino sempre più in là il momento della maternità, ben oltre i 30 anni.
Un figlio è un bene per tutta la comunità, perché permetterà di sostenere il sistema contributivo del Paese, lavorando e andando a pagare con le proprie tasse le pensioni e i servizi essenziali delle persone anagraficamente più grandi. Le famiglie richiedono una implementazione di adeguati servizi. L’Italia presenta tra i Paesi europei una delle peggiori combinazioni tra bassa fecondità e bassa occupazione femminile.
Comunque, la decisione di non diventare genitori è legata, prevalentemente, alla sfera economica (rilevanza dei costi), a quella lavorativa (timori di perdere o cambiare il lavoro in peggio), assenza di housing (politiche abitative giovanili) e organizzativa (carenza di servizi per le famiglie).
Anche il ricorso al lavoro part-time, solitamente imposto e quindi involontario, generalmente indotto e agganciato, quasi esclusivamente, alla popolazione femminile, rappresenta una criticità. (dati INAPP del rapporto 2023 “Una ripresa a tempo parziale”).
In nostro anelito deve tendere ad una cultura del lavoro che meglio bilanci e riequilibri il rapporto esistente tra capitale e lavoro che ha condotto, troppo spesso, alla massimizzazione dei profitti a scapito/danno delle persone e della loro dignità.
Esiste, come sappiamo, un sistema di organizzazione lavorativa assolutamente innovativo denominato “Oclocratico” che si pone in antitesi rispetto appunto al sistema Tayloristico. Con esso si propone, nei fatti, una conseguente maggiore armonizzazione tra lavoro e famiglia gestendo la maggiore libertà d’azione nei diversi assetti aziendali. Questo però meriterebbe un ulteriore approfondimento.
Per concludere, proiettiamo i nostri pensieri verso un futuro sempre più basato su scelte consapevoli di vita, lavoro, socialità, aspirazioni, amplificate da sistemi sociali interconnessi e virtuosi, dove l’individualismo deve conciliarsi con solidarietà, moralità, inclusione intragenerazionale, con una economia, un capitale, un profitto che siano a vantaggio dell’uomo, nel suo sogno di vita equilibrata e consapevole che offra opportunità e desiderio di procreazione in un ambiente naturale e sociale tutelato e rispettato.
[*] Dirigente dell’INL, Direttore Ispettorato territoriale del lavoro di Prato e Pistoia. Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il presente contributo è frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non impegna l’Amministrazione di appartenenza.
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