Il 20 maggio del 1999, esattamente 25 anni fa, il prof. Massimo D’Antona fu ucciso a colpi di pistola in via Salaria, poco dopo essere uscito dal palazzo dove abitava. Responsabili del vile gesto furono le nuove Brigate Rosse, che lo uccisero per via delle sue innovative idee in materia di diritto del lavoro.
Io all’epoca ero un giovane studente universitario a Foggia, la mia città, che è anche città di origine di una delle brigatiste che faceva parte del commando che uccise sia il prof. D’Antona che il prof. Biagi, e rimasi colpito dal ritorno del terrorismo dopo averne solo sentito parlare. Ciò che mi sconvolgeva e tuttora mi sconvolge è pensare che una persona possa essere uccisa solo per le proprie idee. Mi ha sconvolto ancora di più sapere che il prof. D’Antona era, proprio in quanto uomo di studio, un mite uomo di dialogo e il dialogo – ce lo ricorda l’etimologia della parola “dià-lògos” – non può che avvenire tra visioni diverse che si confrontano e provano a trovare mediazioni, nuovi equilibri, punti di incontro prima inaspettati.
L’aver troncato con la violenza tutto questo è un gesto barbarico e primitivo che non può trovare cittadinanza in una società che voglia dirsi civile.
Simbolica fu la data scelta, il 20 maggio, in cui si celebra il ricordo dell’approvazione dello Statuto dei Lavoratori. In uno dei suoi scritti, D’Antona scriveva che “Le norme giuridiche […] esprimono sempre un progetto”. Mi permetto di aggiungere che il progetto sottende a un’idea, una visione della realtà. Un progetto fu di certo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, il 20 maggio del 1970, che esprimeva una visione di tutela compiuta dei lavoratori, e un progetto, un’idea, una visione si possono leggere nelle norme alla cui scrittura e realizzazione il prof. D’Antona collaborò attivamente, anche come consulente dell’allora Ministro del Lavoro Antonio Bassolino, ad esempio, o come componente della consulta giuridica e dell’ufficio legale della CGIL.
In particolare, mi soffermo velocemente sul percorso che ha portato alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego, che si basa su alcuni capisaldi: la possibilità, per la contrattazione collettiva nel pubblico impiego, di fare tutti gli accordi che (cito D’Antona) si “ritengono convenienti purché non violino la legge” e quindi la possibilità di esplicarsi con la medesima libertà esistente nel settore privato; la necessità di ricomporre (cito ancora il prof. D’Antona) un “pluralismo sindacale, rissoso e per molti aspetti patologico”, attraverso la misurazione della rappresentatività delle sigle sindacali, che ha consentito di eliminare la pletora di sigle sindacali che fino ad allora pullulavano, riducendole a poche, realmente rappresentative degli interessi dei lavoratori; la possibilità per lavoratrici e lavoratori di scegliere da chi farsi rappresentare, prevedendo un meccanismo elettivo che porti alla elezione della rappresentanza sindacale unitaria. Mi piace ricordare come, a distanza di decenni dalle prime elezioni delle RSU nel pubblico impiego, la percentuale di votanti sia sempre altissima e questo, in tempi di astensione crescente alle elezioni politiche di vario livello (da ultimo, anche le elezioni europee), dovrebbe far riflettere su come quel meccanismo – nonostante possibili aggiustamenti e ammodernamenti – continui a garantire sia la rappresentanza degli interessi che la rappresentatività di chi si siede al tavolo della contrattazione, dando una risposta compiuta alla mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione e alla validità erga omnes dei contratti collettivi.
Quel modello funziona ancora, a distanza di decenni, perché aveva alla sua base un progetto, un’idea che ancora resta valida. Proprio per questo, potrebbe essere utile ragionare su una sua estensione.
Il presente discorso è stato pronunciato nel corso della cerimonia commemorativa in memoria del prof. Massimo D’Antona, tenutasi presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il 20 maggio 2024.
[*] Presidente della Fondazione Prof. Massimo D’Antona ETS
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