20 maggio 2024: Commemorazione di Massimo D’Antona a 25 anni dall’omicidio
Grazie presidente per avermi invitato in questa occasione per ricordare Massimo D’Antona.
Devo dire che, in realtà, non ricordo quando conobbi Massimo. Probabilmente fu nei primi anni 80 quando forse venne a quello che allora era, una sorta di ritrovo molto frequentato per i giuslavoristi romani che era lo studio di Gino Giugni, sede anche di una Rivista, che anche io frequentavo assiduamente. Ricordo anche però ogni dettaglio di quella mattina di 25 anni fa; ricordo che ci sentimmo molto presto la mattina per prendere appuntamento allo studio che avevamo insieme dove facevamo finta di fare gli avvocati anche se, in realtà, non lo facevamo veramente. Ricordo quando arrivai allo studio ed il mio disappunto per gli eterni ritardi di Massimo. Mi ricordo l'elicottero, la telefonata della moglie Olga e poi, sul luogo dell’omicidio, ricordo quando vidi la borsa che mi fece capire quello che era effettivamente successo.
Come è stato ben ricordato, Massimo D’Antona fu ucciso nello stesso giorno in cui fu approvato lo statuto dei lavoratori, una circostanza abbastanza singolare ed amara perché Massimo effettivamente incarnava lo spirito statutario e costituzionale del diritto del lavoro, cosa che, peraltro, emerse dalla sua prima monografia dedicata alla “reintegrazione nel posto di lavoro”, una norma simbolo dello statuto dei lavoratori dalla quale Massimo D’Antona estrasse ogni possibile succo per riprendere il titolo di un famoso libro di un importante giurista nordamericano. Lui prese la reintegrazione molto sul serio e, quindi, ne trasse ogni possibile conseguenza che gli sembrava coerente con la dimensione anzi con la mono dimensione che aveva a quel tempo il diritto del lavoro e che conserva ancora in parte adesso. Se si misurasse la distanza che intercorre tra questo scritto e l'ultimo scritto sull'articolo 39 sul quale abbiamo avuto occasione di discutere lungamente e attraverso il quale Massimo cercava di creare un'alternativa alla inattuazione dell'articolo 39, cosa che mi lasciava piuttosto perplesso.
La cosa curiosa è che, in questi giorni, scrivendo un piccolo commento sul tema, appunto, della sentenza della Corte di Cassazione sull'articolo 36 della Costituzione, mi sono trovato a riflettere sul fatto che se è vero che l'articolo 39 non è stato attuato, è anche vero che diversi legislatori italiani hanno trovato poi una escamotage adottando l’espressione dei contratti firmati dai “sindacati comparativamente più rappresentativi”, che è una maniera, forse un po’ indiretta, di cercare di dare un po’ di omogeneità ad una materia come quella della riduzione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali, quantomai anarchica.
Massimo era innanzitutto un giurista e cioè, per quanto mi riguarda, un giurista positivo, un giurista che si basava sull'interpretazione delle norme, sull'uso del metodo tecnico giuridico, ma non era un formalista; era un giurista che lasciava spazio a delle impostazioni maggiormente attirate dallo scenario nel quale il diritto del lavoro si inseriva e che contribuì, in certa misura, a cambiare. Si spiega così l'attenzione che ha dato appunto al pubblico impiego che era, per me, un pianeta sconosciuto. Si spiega anche l'attenzione che diede al diritto sindacale; ricordo, in proposito, l’introduzione ad un volume dedicato alle letture di diritto sindacale – uno degli articoli più belli di Massimo – destinato al diritto sindacale in trasformazione. E, in proposito, ricordo un'espressione di Massimo e cioè che il giurista “costruisce dei ponti”; è questa un'espressione molto bella tratta da un famoso libro di Lombardi Vallauri sul diritto giurisprudenziale e, aggiungeva Massimo, che a volte si costruiscono dei ponti bellissimi dove non passa nessuno perché tutti poi passano per i ponti vecchi e brutti perché sono più comodi.
Il diritto sindacale è pieno di ponti vecchi e brutti su cui tutti abbiamo continuato a passare. Una immagine che esemplifica l'idea che Massimo aveva appunto del giurista come operatore sociale che crea dei collegamenti fra la realtà giuridica e la realtà materiale e per Massimo non c'era bisogno di costruzioni astratte e cioè era bisogno appunto di concetti che tenessero insieme e facessero dialogare il mondo del diritto con la realtà. È questa l'ispirazione che si legge ancora nell'ultimo saggio quello sull'articolo 39 così come è l'ispirazione che guidò un altro saggio di Massimo, da me fortemente contestato, sulla esistenza di una terza funzione del contratto collettivo e cioè dire, in parole molto semplici, che chi volesse fruire della flessibilità che allora dava il contratto collettivo ad esempio in materia di contratti di lavoro a termine – siamo intorno agli anni 80 dello scorso secolo – dovesse poi applicare il contratto collettivo. Tesi che sembrava e sembra tutt'ora una forzatura per diverse ragioni ma certamente una forzatura voluta e meditata nelle sue implicazioni che erano poi quelle di rafforzare la mediazione sindacale e l'introduzione di dosi di flessibilità all'interno del nostro del nostro ordinamento; ed è un atteggiamento che si ritrova, appunto, anche in altri scritti e ricordo uno in particolare, cioè quello sull'anomalia post positivista del diritto del lavoro e un saggio di impostazione metodologica scritta appunto con chiarezza, come sempre del resto sono i suoi scritti. Il saggio richiama l'attenzione sul diritto del lavoro che stava cambiando, quasi senza averne consapevolezza, e su una riflessione dottrinale che andava perdendo – e che oggi ha completamente perduto, per la verità, e non l'ha più ritrovata – la capacità di ricondurre i problemi giuridici del diritto del lavoro ad un sistema di concetti del diritto privato e del sistema giuridico privatistico appunto.
E qui è difficile non citare due autori almeno appunto come Luigi Mengoni a Tullio Scarelli che hanno rappresentato delle figure di riferimento di Massimo. Alla base, insomma, c'è l'idea per cui l'interpretazione del testo non è un'operazione che viene condotta in solitudine dal giurista ma è un processo di comunicazione attraverso la quale l'interprete si pone in collegamento con l'ambiente sociale, giudiziario, politico, sindacale e le soluzioni che vengono proposte sono, per riprendere un concetto che è stato oggi anticipato, delle aspettative di significato che sono destinate poi a stabilizzarsi o rispondono a delle esigenze che derivano appunto dall'ambiente in cui si calano.
E, quindi, questo spiega anche l'ultima evoluzione della carriera di Massimo politico, Massimo consigliere del ministro fu un'occasione del tutto casuale come spesso accade nel nostro Paese. Fu nominato Ministro dei trasporti un professore di storia economica, Giovanni Caravale, che non era affatto avvezzo ad avere a che fare con il mondo sindacale ed era abituato ad atmosfere ben più rarefatte delle università inglesi e chiamò Massimo per districarsi nel mondo complicato del sindacalismo nel settore dei trasporti. Iniziò così la carriera di Massimo politico, politico per caso possiamo dire ma certamente non suo malgrado. Fu consulente di diversi ministri. Però una cosa voglio dire ed è che Massimo mantenne la capacità – che poi rappresenta la cifra dell'intellettuale – di mantenersi sempre distante, distaccato e di mantenere, appunto, un filtro tra l'esperienza pratica e la riflessione scientifica, nutrendo l'una con l'altra e, come si è detto spesso di Massimo, come del mio maestro, Gino Giugni, cioè che era un intellettuale prestato alla politica come arte del possibile ed alla possibilità di tradurre in pratica i convincimenti e le soluzioni che si sono sperimentate appunto nella riflessione teorica. Massima ha provato a fare questo e per questo ha pagato un prezzo molto alto come già altri nel passato e come altri come penso a Marco Biagi avrebbero fatto nel futuro,
Grazie.
[*] Professore ordinario di diritto del lavoro presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Roma Tre.
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