Sta per iniziare una stagione che in altri tempi era attesa da tanti e temuta da altri. La stagione in cui il movimento sindacale, dopo la pausa estiva, affilava le armi e lanciava con forza le sue offensive per la difesa dei diritti attraverso i rinnovi contrattuali o l’acquisizione di nuovi per l’avanzamento dei lavoratori nella nostra società. Per queste battaglie la loro adesione era compatta, basata sull’orgoglio dell’appartenenza a tali strutture intermedie che nel pieno del loro potere contrattuale si dimostrarono elementi essenziali della nostra democrazia.
Quest’anno, invece, a seguire la lettura dei giornali o dei mass media, in genere non si prevede aria di tempesta. Al suo posto una calma piatta come se fossimo nel paese di Bengodi. Dopo un breve periodo di scontri politici su questioni non solo di carattere generale come giustizia, sanità, fisco, forma di governo e autonomia ma anche prettamente sindacali quali le retribuzioni inadeguate al costo della vita, tra le più basse dei paesi più progrediti, il salario minimo, gli infortuni sul lavoro, tanto per citare solo le problematiche più rilevanti, in cui il movimento dei lavoratori ha svolto un ruolo di comprimario, esse sembrano essere svanite all’orizzonte.
In realtà, mentre il sindacato è da tempo sulla difensiva, tali problemi irrisolti sono stati fatti propri dalla politica che si è arrogata il diritto di trattarli e di risolverli o meno in base ai valori e agli interessi dei partiti che attraverso il confronto elettorale ottengono il via libera per formare maggioranze in Parlamento e governare il Paese. I tentativi di mettere da parte il movimento sindacale, d’altronde, non sono un fatto recente ma risalgono nel tempo fin dalla nascita della nostra Repubblica. Quando il movimento ha avuto la forza contrattuale necessaria, essi sono stati vani. Poi con la perdita del suo potere, dovuta anche alle grandi trasformazioni sociali e lavorative, con la parcellizzazione dell’attività imprenditoriale, il tramonto delle grandi aziende e i nuovi lavori, la politica ha preso il sopravvento.
Il caso più clamoroso si è verificato nel 2016 con la concessione da parte del governo di ottanta euro ai lavoratori. Una decisione autonoma calata dall’alto per un settore in cui gli aumenti salariali erano stati sempre il risultato della contrattazione tra le parti. Si è trattato, in altri termini, del più forte attacco subito dal movimento nei tempi recenti, perché di fatto ha assunto la sostanza di un rinnovo dei contratti collettivi del settore pubblico e privato attuato dall’esecutivo con atto d’imperio senza alcuna partecipazione delle strutture intermedie.
È stato un vulnus gravissimo da parte della politica nei confronti delle relazioni industriali e tale profonda delegittimazione dell’essenza stessa del sindacato si è protratta nel tempo con effetti negativi che durano tuttora.
E tuttavia, a mio avviso, è arrivato il momento in cui il movimento torni a farsi sentire. Per i gravi problemi attuali mobiliti i lavoratori; il consenso, anzi, può andare anche oltre gli steccati perché ci sono temi come l’inefficienza del settore pubblico, che interessano un campo più vasto dell’opinione pubblica. Un esempio per tutti è rappresentato dall’entità degli infortuni sul lavoro e della grave evasione contributiva che toglie risorse al bilancio dello stato. Si faccia promotore di una battaglia per ammodernare i servizi pubblici e nel caso specifico per sostituire le attuali frattaglie della vigilanza con strumenti idonei a garantire un servizio in grado di contrastare meglio i gravi e numerosi illeciti in tale campo. Sarà un modo, questo, per riprendere con più forza e maggiore credibilità un cammino necessario ai lavoratori e all’intera società.
[*] Giornalista e scrittore. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona
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