Una delle ultime cose di cui si è avuta notizia proprio non ce l’aspettavamo.
Caporalato e sfruttamento lavorativo presenti nelle Langhe e, in particolare, nelle vigne del Barolo. Eravamo certi – sulla base di quanto emerso in plurime indagini più e meno recenti – che questa piaga della nostra vita economica e sociale che, ad ogni estate, ci racconta di persone morte schiantate dal sole e da ritmi disumani di lavoro, o stipate su furgoni lanciati in trasferimenti pericolosi, non riguardasse solo le regioni meridionali, ma anche il Centro-Nord. Avevamo anche capito che ad essere interessato da intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (questa la rubrica dell’art. 603-bis del codice penale) non era solo un settore della attività economica (l’agricoltura, in ciò prigioniera di una tradizione risalente, legata alla diffusione del bracciantato nei lavori stagionali) ma anche altri, strettamente collegati ad aspetti della new economy, quali la logistica e la moderna ristorazione.
Nei giorni scorsi giornali e telegiornali ci hanno dato una notizia che ha occupato le loro prime pagine: questa forma di illegalità, indegna di un paese civile al punto da determinare fatti come quelli della provincia di Latina (il bracciante indiano, abbandonato col braccio tranciato come uno scarto di produzione [1]), è penetrata anche nella terra in cui vissero il partigiano Johnny e tanti protagonisti di un periodo eroico della nostra storia nazionale: in uno dei luoghi in cui, più che in altri, con la resistenza e la lotta armata di liberazione dalla oppressione nazi-fascista, si gettarono le basi di quello che, nelle aspettative di molti, avrebbe dovuto essere un paese migliore. Diciamolo, senza tema di apparire retorici: ci è sembrata una profanazione. E non certo perché c’entri il Barolo, tipico vino di terre in cui tradizioni enogastronomiche e vicende nelle quali si sono scritti pezzi importanti della storia del nostro paese sono risultate spesso intrecciate. Ma perché ci si sarebbe aspettati che quella storia e quella cultura potessero fungere da argine efficace rispetto a una illegalità fatta di sopraffazione, a sua volta figlia di una logica di accumulazione di profitti senza regole. Abbiamo dovuto ricrederci: è evidente che ci eravamo sbagliati. Come altrove, c’è chi, anche nelle civilissime Langhe, non ha resistito alla tentazione di imporre orari di lavoro insostenibili e salari da fame, garantendo ai propri dipendenti autentici tuguri ove andare a “riposarsi” e a dormire. Del resto, la pronta reazione popolare, che si è espressa nell’adesione alla manifestazione promossa dalle organizzazioni sindacali e alla quale ha preso parte anche la Chiesa locale, dimostra che molti hanno colto il particolare significato, oltre che la gravità, di quanto emerso.
E allora l’unica cosa da fare è cercare di ragionare, superando sconcerto e amarezza, guardare avanti perché si realizzino condizioni di lavoro e di relazioni sociali che tolgano l’acqua ai pescecani dovunque, costruire sinergie tra istituzioni e società civile. Ma procediamo con ordine.
La legge n. 199 del 2016, che – tra l’altro – punisce severamente la intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro, è una buona legge. Le sue disposizioni penali hanno – coerentemente con l’obiettivo del legislatore – stimolato l’avvio di numerosi procedimenti penali in diverse sedi (al Nord, al Centro e al Sud), contribuendo, in tal modo, al contrasto – in termini più efficaci di quanto non avvenisse in precedenza – di comportamenti tanto diffusi quanto intollerabili. Ciò è stato possibile anche perché le condotte punibili, di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (e, in particolare, gli indici rivelatori di quest’ultimo: terzo comma dell’art. 603-bis del Codice penale), sono state descritte dal legislatore in modo aderente alla realtà: l’attività di investigatori e magistrati è stata, così, agevolata nel dare attuazione a norme penali equilibrate quanto all’ambito di applicazione.
Rimanendo sul versante della repressione penale la legge, tuttavia, presenta una lacuna che certamente impedisce la piena realizzazione delle sue finalità e che, a suo tempo, era stata portata all’attenzione dei Ministri competenti e delle forze politiche dall’Osservatorio agromafie (fondazione – come è noto – promossa da Coldiretti). Mancano, nella legge, disposizioni che incentivino le denunce delle vittime dei reati previsti. Queste ultime, all’evidenza, sono indotte a non ricorrere all’Autorità per far cessare le condotte illegali compiute ai loro danni dalla prospettiva della perdita del lavoro[2] che verosimilmente seguirebbe alla denuncia dei responsabili (datore di lavoro ed eventuali caporali). L’Osservatorio agromafie aveva elaborato, al riguardo, una proposta articolata che, se fosse stata accolta dal legislatore, avrebbe garantito, con l’intervento del Prefetto, l’assunzione del lavoratore denunciante presso altra azienda, individuata nel rispetto di criteri predeterminati e sulla base di libere determinazioni degli imprenditori interessati[3].
È, all’evidenza, illusorio pensare che fatti di rilevanza penale con forte radicamento in (almeno alcuni dei) territori del paese possano essere adeguatamente contrastati senza il contributo che solo dalle vittime dei reati può derivare al loro accertamento, salvo rendere le indagini molto più complesse e difficoltose. Inoltre, la disposizione proposta avrebbe contribuito a costruire condizioni concrete di favore per una affermazione della legalità su vasta scala: si sarebbe rotta quella situazione di omertà necessitata, tipica di ambienti e rapporti caratterizzati dall’approfittamento e dalla sopraffazione in danno di chi non ha pressoché alcuna possibilità di resistere; si sarebbe aperta la strada a possibili regolarizzazioni di lavoratori stranieri la cui attività potrebbe risultare utile allo sviluppo di altre imprese. Più in generale, ne sarebbe derivato un forte stimolo all’agire nel rispetto delle regole, al di là di quanto già oggi accade ad opera di imprese che, invece, debbono subire la concorrenza di chi sfrutta la mano d’opera per abbattere i propri costi di produzione[4].
Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, anche nelle forme aggravate descritte e sanzionate dall’art. 603-bis del codice penale, proprio per la loro ampia diffusione (non solo nella stagione estiva, come emerge da procedimenti penali in corso), costituiscono, pertanto, un vero e proprio fenomeno criminoso. L’esperienza di casi analoghi dimostra che la repressione penale non basterà a farlo cessare o, quanto meno, a ridurlo nelle caratteristiche quantitative e di gravità, se ad essa non si accompagneranno interventi su altri piani.
In proposito, occorre tener presente che la legge citata ha operato, a tal fine, scelte univoche, quali la costituzione della Rete del lavoro agricolo di qualità, della quale possono far parte imprese che non ricorrano al lavoro illegale e che, una volta inserite in essa, avrebbero accesso a benefici previdenziali. Se l’istituto ha avuto, a tutt’oggi, limitata applicazione, occorre porsi il problema della sua convenienza complessiva per i soggetti potenzialmente interessati, intervenendo dal lato dei presupposti per l’inserimento nella Rete, e/o dal lato della ampiezza dei vantaggi prospettati dal legislatore. Tra questi ultimi potrebbe ulteriormente annoverarsi – in una sorta di etichetta narrante – la visibilità dell’inserimento dell’impresa nella citata Rete, in quanto circostanza indicativa di rispetto delle regole e di adesione a criteri di sostenibilità. In ogni caso, occorre domandarsi se, a tutt’oggi, si siano realizzate efficaci sinergie tra pubblica amministrazione e società civile nell’impegno di far conoscere i vantaggi che le imprese otterrebbero con l’inserimento nella Rete[5].
Meritano, poi, di essere segnalati alcuni progetti, riconducibili ad articolazioni della società civile, accomunati dalla finalità di fare emergere il lavoro irregolare e clandestino (numero e identità dei lavoratori addetti), e il percorso della filiera agroalimentare, che dalla produzione arriva alla distribuzione al dettaglio. Tra questi, il progetto volto – tra l’altro – a sostenere i lavoratori stagionali in vari ambiti di loro diretto interesse (dal trasporto all’alloggio), da realizzarsi con la regia dell’ente locale e territoriale e il coinvolgimento delle associazioni datoriali e sindacali. Tra gli interventi previsti: l’accompagnamento all’insediamento abitativo (temporaneo) per i lavoratori stagionali in agricoltura; la realizzazione di progetti di rigenerazione urbana, con interventi innovativi di social housing in cui i servizi abitativi divengono parte integrante delle politiche sociali, nel quadro di una visione che considera complementari sicurezza, solidarietà, coesione sociale e lavoro; la valorizzazione dei borghi abbandonati che si trovano in molte aree del paese. Di tutto ciò fu data notizia anche sui media, ma la fase attuativa appare ancora lontana. L’Osservatorio agromafie e l’ANCI se ne fecero promotori già nel 2020. Seguirono difficoltà obiettive (es: pandemia) e impegni impegni rimasti senza seguito.
L’analisi delle iniziative che potrebbero concorrere a rendere più efficace il contrasto al caporalato ed allo sfruttamento lavorativo non può, infine, trascurare l’esigenza di far funzionare i già previsti strumenti che, al centro e in periferia, dovrebbero assicurare un monitoraggio continuo del fenomeno, anche in vista dell’adozione degli interventi più appropriati. Ci si riferisce al Tavolo caporalato, istituito nel 2018 presso il Ministero del Lavoro, ed alla Consulta per l’attuazione di un Protocollo di intesa, stipulato nel 2021 tra i Ministeri competenti (Interno, Lavoro e Politiche agricole) e l’ANCI. Poco si sa, per la verità, della loro operatività dopo la loro costituzione.
Insomma: c’è ancora tanto da lavorare se l’obiettivo è quello di sradicare definitivamente pratiche illegali diffuse che non giovano all’immagine del nostro paese. Se poi anche l’Europa ce lo chiedesse…[6]
[1] La definizione è di don Luigi Ciotti.
[2] Nei casi di soggetti presenti illegalmente sul territorio dello Stato opererebbero anche le procedure amministrative di espulsione e rimpatrio.
[3] Il tema, per la sua complessità, si presta ad ulteriori approfondimenti, che potrebbero riguardare, in particolare, la tipologia del lavoro da svolgersi dopo la denuncia (presso aziende dello stesso settore merceologico oppure anche di altri; a tempo indeterminato, oppure stagionale).
[4] Concorrenza sleale che si aggiunge al rapporto squilibrato tra imprenditore agricolo ed acquirente del suo prodotto, sovente soggetto economicamente più forte in quanto legato alla grande distribuzione, in grado di imporre alla sua controparte prezzi poco remunerativi.
[5] Va sottolineato, senza tema di smentite, che l’impegno di Coldiretti per la migliore conoscenza della legge tra gli operatori economici del settore agricolo è stato forte.
[6] Non sarà inutile, al riguardo, informare che non mancano progetti di direttiva europea, elaborati nell’ambito del mondo accademico e del volontariato: un altro terreno sul quale l’impegno sinergico della società civile e della politica potrebbe rivelarsi utile.
[*] Componente del Comitato scientifico della Fondazione Osservatorio agromafie.
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