La burocrazia come elemento indispensabile di una società organizzata si è affermata con lo stato moderno. Non che in precedenza non ci siano state tracce della sua esistenza, ma era di modesta entità. Basta andare indietro nel tempo alle città stato dell’antica Grecia, all’Egitto e persino all’impero romano, nonostante la sua estensione arrivasse ai confini del mondo allora conosciuto. Era altrettanto modesta nelle strutture medievali riducendosi pressoché a esercitare quasi esclusivamente la fiscalità e la sicurezza interna per conto del signore o principe al governo.
Poi è andata crescendo col tempo in concomitanza all’espandersi delle funzioni esercitate dallo stato. Ai nostri giorni ha raggiunto il suo apice in parallelo con l’estensione di una serie di diritti ai componenti della società, soprattutto in termini di sanità, assistenza, previdenza sociale e grazie allo sviluppo della partecipazione sociale sul territorio. Con la sua funzione esecutiva essa in una condizione fisiologica è subalterna alla politica che soprattutto tramite il governo e il parlamento definisce i fini da perseguire.
Non sono rari, tuttavia, i casi, e qui entriamo nella patologia, in cui per debolezza della politica essa cerca di prendere il sopravvento, soprattutto per difendere o espandere il proprio potere, influendo soprattutto nella formazione degli atti normativi e condizionando i vertici delle varie strutture pubbliche. Un tentativo del genere c’è stato addirittura al tramonto della dittatura fascista. Mentre per gran parte del ventennio era stata una delle strutture portanti del regime, allorché si aggravò la crisi che avrebbe portato al 25 luglio 1943, tentò di differenziarsi dalle gerarchie fasciste, cercando di dare di se stessa un’immagine di onestà e legalità agli italiani frastornati dalla guerra in casa, dalla corruzione dei gerarchi e dalla loro cattiva gestione soprattutto in campo alimentare.
Nel dopoguerra essa riprese il ruolo di competenza senza tentativi di sconfinamenti sia per il grande potere contrattuale dei politici dell’epoca che avevano avuto il merito del ripristino della democrazia e dell’avvento della repubblica, sia anche per farsi perdonare il supporto dichiarato al fascismo. Tale situazione è durata per decenni fino allo scoppio di Tangentopoli e alle inchieste dei magistrati di Mani Pulite che hanno decapitato un’intera classe politica lasciando il campo a figure di secondo e terzo livello senza carisma e con scarsa esperienza istituzionale e amministrativa. Così tale vuoto di potere è stato occupato dalla burocrazia oltre che dall’ordine giudiziario.
È questo un aspetto poco evidenziato dai mass media molto più attratti dal contrasto tra politica e magistratura. Eppure, tale elemento ha prodotto nel corso degli ultimi trent’anni danni notevoli, ostacolando e a volte stravolgendo importanti riforme. Naturalmente quando parlo di burocrazia, mi riferisco all’alta dirigenza di nomina politica; l’incarico, infatti, viene assegnato per meriti di fedeltà e vicinanza ideologica. In una situazione normale essa svolge un ruolo importantissimo ed essenziale facendo da cerniera e raccordo tra la politica e il complesso della pubblica amministrazione, i cui appartenenti sono dotati, in prevalenza, di notevole livello professionale, attaccamento alle istituzioni per cui operano ed elevati principi morali.
Nella situazione patologica, invece, i componenti del vertice burocratico subiscono una metamorfosi radicale e se qualche aspetto della loro autorità viene messo in discussione o minacciato, si pongono nei confronti dei politici in uno stato di contrapposizione strisciante, mai a viso aperto. In altri termini, di fronte a una classe politica inesperta e debole, hanno buon gioco a inserirsi nella formulazione di proposte di atti normativi o emendamenti attraverso l’abile uso della procedura e del “combinato disposto”, per modificare, annullare, rinviare sine die gli effetti di una norma. Tra i tanti esempi a supportare tale argomento ce n’è uno da me tante volte citato, che ben conosciamo.
Riguarda il progetto di unificazione dell’attività di vigilanza in un unico ente, l’Agenzia, vanificato dall’alta burocrazia degli enti per difendere il potere, proprio attraverso una procedura farraginosa che aveva come fine il rinvio fino al pensionamento degli ispettori in servizio all’epoca in un ruolo a esaurimento. È stata una mossa vincente, perché quest’anno in una norma del decreto legge 19 che porta beffardamente il titolo di potenziamento dell’Ispettorato del Lavoro sono stati ripristinati i ruoli ispettivi degli istituti che hanno ripreso ad assumere.
[*] Giornalista e scrittore. Consigliere della Fondazione Prof. Massimo D’Antona
Seguiteci su Facebook
>