Riforma delle pensioni 20 anni dopo

di Raffaele Bruni

Raffaele BruniSono trascorsi oltre 20 anni dalla riforma delle pensioni

Sono passati oltre 20 anni da quando il legislatore ha posto mano per la prima volta ad una legge organica di regolamentazione e inquadramento della previdenza complementare. Il Decreto legislativo n. 124 del 21 aprile 1993 faceva parte di un pacchetto di riforme pensionistiche realizzate dall’allora Governo Amato per stabilizzare l’intero comparto in modo da garantire un tenuta di lungo periodo del sistema. In base al disegno riformatore la previdenza complementare era destinata a erogare trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio pubblico, al fine di assicurare più elevati livelli di copertura previdenziali (art. 1) andando a soddisfare la quota di reddito non più coperta a seguito della revisione del pilastro pensionistico obbligatorio.

Il passaggio da un modello fondato sulla sola previdenza pubblica ad un sistema misto nel quale il reddito dell’anziano è composto da una pluralità di rendite (pubbliche e private) non è stato messo in discussione dai successivi interventi di riforma che semmai hanno ulteriormente precisato il nuovo assetto del welfare pensionistico.

La situazione in cui ci ritroviamo oggi è però ben diversa da quella che il legislatore si era immaginato riordinando l’intera materia sul finire del XX secolo. Il numero di aderenti alle forme previdenziali complementari è ancora lontano da aver raggiunto una copertura universale e questo contrasta con il fatto che la riforma delle pensioni abbia riguardato l’intero corpo del mercato del lavoro: dipendenti e autonomi, pubblici e privati. Se è vero che la riforma Amato è ufficialmente partita il 1 gennaio 1993 essa riguarda, seppure pro quota, tutti i lavoratori che al momento dell’entrata in vigore delle nuove norme avevano maturato un anzianità contributiva inferiore a 15 anni. Conseguentemente le nuove norme si applicano a tutti i lavoratori entrati sul mercato del lavoro a partire dal 1978, cioè la stragrande maggioranza dell’attuale forza lavoro. La platea dei destinatari non è cambiata neppure con la successiva riforma Dini che a partire dal gennaio 1996 ha ricompreso tutti i lavoratori con meno di 18 anni di anzianità di contribuzione, cioè la stessa platea di riferimento della legge precedente.

L’esigenza di un vero disegno riformatore che ridisegnasse la pensione del XXI secolo era chiaro alle Parti sociali e al Governo che avevano sancito questo obiettivo nell’accordo siglato nel maggio del 1995 in vista della riforma dell’agosto dello stesso anno (Legge n. 335): Nel preambolo dell’accordo si può leggere che il tema dell’intesa riguarda una 'Riforma dell’intero sistema previdenziale sia nella componente obbligatoria che complementare'. Con questa affermazione si sancisce che la pensione degli italiani è composta da due parti: una pubblica a carattere obbligatorio e gestita secondo il meccanismo della ripartizione ed una complementare, privata e volontaria, basata sul meccanismo della contribuzione definita e gestita a capitalizzazione individuale. In altri termini questa affermazione può anche essere formulata derivandone la sua obbligata conseguenza: “se la previdenza in Italia è composta da due parti, quella obbligatoria e quella complementare, nel caso in cui un lavoratore si trovi senza una copertura integrativa l’importo della sua pensione risulterà per definizione inferiore a quella programmata e, nella stragrande maggioranza dei casi, risulterà insufficiente a garantire un reddito adeguato per gli anni del ritiro dal lavoro.”

Nel nuovo sistema pensionistico la previdenza complementare
è parte costitutiva del welfare degli italiani

L’assetto pensionistico è ormai ben definito al punto da non lasciare spazio ad alcuna interpretazione diversa. Non c’è quindi dubbio alcuno che la previdenza complementare non possa più essere interpretata come un puro benefit aggiuntivo che alcuni lavoratori possono scegliere di costruirsi ma debba essere concepita coma parte costitutiva del sistema di welfare degli italiani.

Ma quali sono i numeri delle adesioni secondo le statistiche prodotte dalla Covip, l’autorità di vigilanza preposta al mercato dei fondi pensione? Secondo gli ultimi dati riferiti al dicembre 2014 gli aderenti ai fondi pensione sono 2.605.179 (fondi nuovi 1.950.552 e preesistenti 654.627) a cui si aggiungono i sottoscrittori dei piani assicurativi (2.134.038) e dei fondi pensione aperti (984.584).

I dati ci dicono il livello delle adesioni si è fermato su valori decisamente inferiori rispetto alle attese e alla portata generale delle norme che stanno a fondamento del ruolo della previdenza complementare. Il confronto con il dato della forza lavoro fornito dall’Istat - 25,6 milioni di lavoratori - attesta questa sproporzione. Siamo quindi di fronte a una vera e propria voragine nel sistema previdenziale italiano. Il dato è ancora più grave quando si esaminano gli stessi dati con una maggiore profondità analitica: secondo la Covip le donne rappresentano solo il 38,2% degli aderenti alle forme previdenziali, mentre i giovani con meno di 35 anni il 17,2%.

Non c’è dubbio che c’è molto da preoccuparsi. La scopertura previdenziale è destinata in prospettiva a creare un esercito di anziani con risorse reddituali inferiori a quelle di cui disponevano i pensionati delle generazioni precedenti ingrossando la fascia grigia dei cittadini che si trovano in una situazione di precarietà economica.

Il welfare universalistico nato nel secolo scorso era riuscito ad ottenere un grande risultato sociale: per la prima volta nella storia, grazie alle pensioni, la condizione dell’anziano non era più necessariamente associata alla povertà. Il rischio che corriamo è quello di che i cambiamenti sociali abbinati a una drastica riduzione del reddito disponibile riportino in dietro le lancette dell’orologio.

Bruni 8 3La previdenza complementare: regole diverse
che richiedono comportamenti adeguati

Per comprendere appieno la portata di questi cambiamenti potenziali bisogna tra l’altro avere ben presente le regole di funzionamento della previdenza complementare. Essa si fonda sul meccanismo della contribuzione definita a capitalizzazione che a sua volta implica una dipendenza dell’importo della prestazione pensionistica da tre fattori: quanto è stato versato come contribuzione, quanto ha reso il capitale versato (investimenti delle risorse accumulate), per quanto tempo il capitale è rimasto nella forma previdenziale.

Vorrei soffermarmi sull’ultimo punto: il fattore tempo. E’ abbastanza evidente che in un sistema a contribuzione definita a capitalizzazione individuale ogni versamento viene incrementato nel tempo dagli interessi maturati. Se dopo il primo periodo di versamento ottengo un interesse sul capitale versato, già nel secondo periodo il montante cresce non solo per effetto di questa voce, ma anche per effetto degli interessi maturati sugli interessi ottenuti nel periodo precedente. Siamo cioè di fronte a una sorta di effetto valanga grazie al quale il sassolino rotolando nel tempo trascina con sé sempre più altri sassolini. Mille euro capitalizzati al 3% per 10 anni producono un montante di 1304,7, (superiore al 30% di quanto è stato versato) ma dopo 35 anni il capitale è cresciuto a 2,731,9 (superiore al 170%). Si può quindi comprendere come nel meccanismo a capitalizzazione il fattore tempo sia essenziale per la formazione della futura rendita pensionistica che è direttamente commisurata a quanto accumulato.

Questo fattore costituisce una novità determinante nella tradizionale cultura previdenziale del nostro paese. Nel regime previgente il tempo era in qualche modo ininfluente. È vero che gli anni di contribuzione costituivano parte integrante del calcolo della pensione ma nel vecchio sistema retributivo ogni anno di versamenti “pesava” in modo uguale sul valore finale: la pensione era pari al 2% moltiplicato per il numero di anni lavorati e per la retribuzione di riferimento.

Nella previdenza complementare, invece, non tutti gli anni sono uguali: anzi i più preziosi ai fini della determinazione della prestazione pensionistica sono proprio i primi anni dell’attività lavorativa, cioè quelli più lontani dal momento del percepimento della prestazione. In aggiunta sappiamo che la pensione pubblica contributiva opera secondo lo stesso algoritmo di calcolo.

La conseguenza di quanto detto è molto semplice: non solo la mancata adesione o il rinvio del momento di adesione alla previdenza complementare riduce l’importo della pensione futura ma bisogna essere consapevoli che risulta molto difficile recuperare i mancati versamenti. Se si rimanda l’adesione, per ricevere lo stesso importo che si sarebbe ottenuto iniziando per tempo a versare non solo si dovranno recuperare i contributi mancanti, ma anche integrare il cumulo degli interessi che sarebbero maturati negli anni di non versamento. Come si può ben immaginare questa impresa risulta non percorribile per la maggior parte dei lavoratori italiani.

Correggere i disequilibri

Per questa ragione sono così preoccupato del futuro. La riforma, come abbiamo visto data dal 1993. Da allora si accumulano gli effetti delle nuove pensioni, nella gran parte dei casi ridimensionate nei loro importi a seguito dell’applicazione delle nuove regole, dall’altra la maggioranza dei lavoratori non ha provveduto ad integrare le proprie dotazioni pensionistiche. Il peggio è che non è più possibile correggere quanto è avvenuto in questi anni, salvo interventi straordinari la cui portata non è oggi immaginabile.

Nel 2007 era stata avviata un’operazione straordinaria, introducendo una finestra di adesione forzosa giocata sul meccanismo del cosiddetto silenzio assenso. In pratica è stato definito un periodo di 6 mesi entro il quale il lavoratore avrebbe dovuto eventualmente esprimere esplicitamente la propria rinuncia all’adesione terminata senza la quale il lavoratore si sarebbe trovato automaticamente iscritto alla forma complementare di propria competenza. Il primo semestre del 2007 ha coinciso con un grande sforzo comunicativo che ha portato alla crescita degli aderenti. Concluso quel semestre virtuoso l’attenzione sulla previdenza complementare è decisamente calato e così parallelamente il numero dei nuovi iscritti.

Il risultato è che di previdenza complementare si parla sempre meno anche se questo silenzio non appare giustificato: nulla è cambiato nell’architettura previdenziale. È vero che da allora si è entrati nella più lunga crisi economica i cui effetti non si sono ancora esauriti. L’attenzione di molti in questi anni si è concentrata sul lavoro inteso come posto di lavoro ed è noto che in questi momenti manca la serenità per pensare al futuro.

Bruni 8 2Cosa fare

Se questo atteggiamento è giustificabile sul piano individuale non può però essere assunto in modo coerente dal legislatore sociale che non può rinunciare a programmare il futuro della sicurezza sociale per i propri cittadini.

Non vorrei apparire eccessivamente allarmista nel prefigurare un rischio potenziale sul futuro previdenziale di gran parte dei cittadini di questo paese, ma la realtà crudamente ci pone davanti agli occhi questa prospettiva. Non essendo in alcun modo ipotizzabile un ritorno al passato, né nel senso del ritorno alla configurazione pre riforma, né tantomeno ad un ritorno endemico della povertà tra gli anziani si rende oltremodo necessario riportare al centro della discussione sociale e culturali i temi previdenziali.

In primo luogo deve essere ipotizzato un immenso investimento comunicativo per far conoscere ai più il nuovo quadro previdenziale e soprattutto per rendere comprensibili i meccanismi di funzionamento del nuovo sistema. Molti di noi avanti con gli anni hanno conosciuto negli anni della scuola la ormai mitica giornata del risparmio. Nel mio ricordo rappresenta uno degli esempi virtuosi utilizzati per promuovere un valore che è al contempo sociale ed economico, indispensabile per la crescita del paese. Da tempo si discute invece della famosa busta arancione, cioè di un'informativa promossa dall’Inps sulla reale posizione previdenziale di ogni iscritto. Non se ne è fatto fino ad ora nulla eppure bastava semplicemente riferirsi con attenzione alla legge 335 del 1995 e soprattutto applicarla: l’articolo 1 comma 6 recita, infatti “Ad ogni assicurato è inviato, con cadenza annuale, un estratto conto che indichi le contribuzioni effettuate, la progressione del montante contributivo e le notizie relative alla posizione assicurativa”.

In secondo luogo sarebbe necessario promuovere una normativa straordinaria di sostegno alla promozione della previdenza complementare e all’adesione ai fondi pensione sulla scorta di quella messa in campo nel 2007. Questa volta, però, la norma non può eludere due punti essenziali. Il primo riguarda il tema di come recuperare in parte il mancato versamento di chi non ha ancora aderito ad una forma previdenziale. Il secondo di più vasta portata riguarda il settore pubblico: ai lavoratori pubblici si applicano in toto le norme delle riforme della pensione pubblica obbligatoria, ma è proprio in questo settore che le adesioni ai fondi pensione sono percentualmente più contenute.

In terzo luogo sarebbe necessario un impegno a rispettare una moratoria sugli interventi modificativi delle condizioni operative di funzionamento della previdenza complementare. Anche l’ultimo intervento normativo che ha stabilito un innalzamento della tassazione sui rendimenti conseguiti dai fondi pensione, al di la di ogni considerazione sui fabbisogni di entrata tributaria, lancia un segnale molto negativo ai potenziali aderenti. L’incertezza sul trattamento fiscale futuro delle forme previdenziali costituisce senza dubbio, nel caso di uno strumento di risparmio di lungo periodo, un potente deterrente all’adesione.

In ogni caso appare del tutto evidente come al di là delle misure che devono essere messe urgentemente in campo per correggere i buchi del sistema previdenziale non sia ipotizzabile immaginare una stabilità di lungo periodo nel sistema senza una ripresa del lavoro. Per sua natura, infatti, nessun sistema di welfare può prescindere dal lavoro. Questo vale maggiormente nel caso di un sistema pensionistico; non è possibile immaginare una sua tenuta di lungo periodo, sia esso pubblico o privato, a ripartizione o a capitalizzazione, al di fuori di una crescita dell'occupazione e del reddito disponibile degli individui e delle famiglie. Quadrato Arancione

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