La nuova disciplina del licenziamento per giustificato motivo oggettivo – linee guida
di Cecilia Avanzi [*]
L’art. 1, comma 40 della legge n. 92/2012, nota come c.d. Riforma Fornero, ha modificato la disciplina prevista dall’art. 7 della legge n. 604/1966 introducendo importanti novità in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: si tratta di un licenziamento che il datore di lavoro avente i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18 della legge n. 300/1970, effettua per ragioni di carattere economico o tecnico-produttivo, quindi per motivi che prescindono dalla condotta del lavoratore.
La finalità dichiarata di tale riforma, confermata anche dal contenuto della circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n. 3/2013, esplicativa della nuova procedura, è quella di ridurre il contenzioso in materia di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, attraverso il ricorso ad un filtro preventivo rispetto al controllo giudiziale su tali licenziamenti: alla Commissione provinciale di conciliazione istituita ex art. 410 c.p.c. viene attribuito il compito di espletare un tentativo di conciliazione. Il tentativo di conciliazione diventa, così, una fase obbligatoria e necessaria che si frappone tra il momento in cui il datore di lavoro manifesta la propria volontà di recedere dal rapporto e quello, successivo, in cui il licenziamento può legalmente produrre i propri effetti. Si tratta di un iter procedimentale che, sebbene ontologicamente differente, per taluni aspetti ricorda la procedura c.d. di mobilità ex artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991 in cui il filtro preventivo rispetto ai licenziamenti collettivi è costituito dall’esame congiunto tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali.
Malgrado la c.d. Riforma del Lavoro, necessaria e da tempo auspicata, abbia ricevuto nel suo complesso anche talune critiche per non essere stata sufficientemente innovativa e migliorativa del mercato del lavoro, alla nuova procedura di licenziamento per giustificato motivo oggettivo va sicuramente riconosciuto il merito di aver offerto alle parti un’opportunità di incontro in una sede amministrativa protetta, dinnanzi ad una Commissione super partes, finalizzata a favorire eventuali soluzioni alternative al licenziamento ovvero soluzioni di tipo economico. Se la funzione deflattiva di tale procedura verrà confortata dai numeri, l’auspicio è che tale procedura si possa estendere anche ai datori di lavoro con meno di 15 dipendenti.
Di seguito si riportano sinteticamente gli aspetti più rilevanti della Riforma.
Il nuovo art. 7 della Legge n. 604/1966 trova applicazione soltanto nei confronti dei datori di lavoro di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970, e cioè coloro i quali occupano alle proprie dipendenze più di 15 unità (o più di 5 se si tratta di imprenditori agricoli) ovvero ne occupano più di 15 nello stesso ambito comunale, pur se ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti ovvero, infine, nei confronti dei datori di lavoro che occupano più di 60 dipendenti su scala nazionale.
Ai fini del computo, vanno compresi i lavoratori a tempo parziale calcolati “pro-quota”, i lavoratori delle società cooperative di produzione e lavoro che hanno sottoscritto un contratto di lavoro subordinato, i lavoratori a domicilio, i lavoratori sportivi professionisti, mentre non si computano il coniuge ed i parenti entro il secondo grado, sia in linea diretta che collaterale, gli apprendisti, i lavoratori assunti con contratto di inserimento e reinserimento, con contratto a termine per sopperire a contingenze momentanee ed eccezionali, i lavoratori socialmente utili o di pubblica utilità, i lavoratori somministrati.
Secondo il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, il calcolo della base numerica deve essere effettuato non già nel momento in cui avviene il licenziamento, ma avendo quale parametro di riferimento la cd. “normale occupazione” nel periodo antecedente (gli ultimi 6 mesi), senza tener conto di temporanee contrazioni di personale.
Il datore di lavoro che intenda recedere dal rapporto di lavoro con un proprio dipendente per giustificato motivo oggettivo e che rientri nella sfera di applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970, deve preventivamente inviare alla DTL territorialmente competente e, per conoscenza, al lavoratore, una comunicazione scritta contente i motivi posti a fondamento del licenziamento. In questa fase, lo ribadisce anche il Ministero nella citata circolare, le motivazioni sono rimesse all’esclusiva valutazione del datore di lavoro: solo il giudice, in un’eventuale fase di controllo giudiziale successivo, potrà accertare la sussistenza o meno dei presupposti di legittimità del licenziamento, senza che tuttavia tale controllo possa estendersi al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive, che rimangono di esclusiva pertinenza del datore.
Il fatto che il datore di lavoro debba esplicitare fin dalla comunicazione di preavviso di licenziamento le motivazioni poste alla base del provvedimento espulsivo costituisce una novità rilevante rispetto alla previgente disciplina, secondo cui i motivi del recesso non dovevano essere necessariamente indicati nella comunicazione di licenziamento ma potevano essere esplicitati, a richiesta del lavoratore, nei 15 gg. successivi.
La DTL territorialmente competente è quella del luogo in cui il lavoratore ha svolto la propria attività. Si tratta, pertanto, di un foro esclusivo, a differenza di quanto previsto dall’art. 413 c.p.c.
La DTL, ricevuta la richiesta, trasmette la convocazione al datore di lavoro ed al lavoratore nel termine perentorio di 7 gg. dalla ricezione della richiesta stessa; l’incontro innanzi alla commissione provinciale di conciliazione deve celebrarsi entro i successivi 20 gg. I tempi brevi di convocazione delle parti previsti dal legislatore sono evidentemente legati alla necessità di non vanificare la procedura obbligatoria di conciliazione.
Qualora, per una qualsiasi ragione, la DTL non effettui la convocazione delle parti, il datore può procedere con proprio atto di recesso unilaterale, trascorsi i 7 giorni dalla ricezione della propria richiesta di incontro da parte della Direzione territoriale del lavoro. È di tutta evidenza la necessità che i singoli Uffici si organizzino in modo da convocare con tempestività le parti, al fine di non vanificare lo strumento conciliativo.
Nel giorno e nell'ora fissata dalla lettera di convocazione, le parti sono invitate a presentarsi avanti all'organo conciliativo. L’assenza di una delle stesse non sorretta da alcun elemento giustificativo comporta la redazione di un verbale di assenza. Le parti possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, da un avvocato o un consulente del lavoro. È, tuttavia, preferibile per la soluzione positiva della vertenza che si presentino personalmente.
Il termine di 20 gg. entro cui si deve concludere la procedura di conciliazione non è perentorio, e può essere superato, anche su richiesta della commissione, se le parti lo reputano necessario per il raggiungimento di un accordo.
Inoltre, nel caso di un legittimo e documentato impedimento del lavoratore (anche autocertificabile) a presenziare alla riunione fissata, la seduta può essere sospesa per un periodo massimo di 15 giorni. Si può trattare di uno stato di malattia in cui versa il lavoratore, ma anche di un motivo diverso sempre riferibile alla propria sfera familiare, purché giustificato da una tutela prevista dalla legge o dal contratto. La commissione di conciliazione, valutata la comunicazione, può accordare un rinvio della seduta.
Il tentativo di conciliazione deve essere caratterizzato dalla partecipazione attiva della Commissione, che deve esaminare anche soluzioni alternative al recesso e formulare eventuali proposte di composizione della vertenza quali, ad esempio, una ricollocazione del lavoratore all’interno della struttura aziendale, anche in mansioni inferiori e/o diverse ovvero con diversa articolazione dell’orario di lavoro, anche in modalità part-time, ovvero il ricorso a procedure di sostegno al reddito quali CIGO, CIGS, CIG in deroga, contratti di solidarietà.
Se il tentativo di conciliazione fallisce, il datore di lavoro è legittimato a procedere al licenziamento del lavoratore. In tal caso, viene redatto un verbale di mancato accordo. La verbalizzazione non può limitarsi a registrare la mancata conciliazione, ma deve riassumere le posizioni espresse dalle parti e dar conto dello sforzo conciliativo espresso dalla commissione, anche mediante una proposta conciliativa e la verbalizzazione della valutazione espressa dalle parti in merito a tale proposta. Viene valorizzata, quindi, l’importanza di una precisa e puntuale verbalizzazione, in quanto il comportamento complessivo delle parti desumibile dal verbale costituirà un elemento di valutazione per il giudice del lavoro al fine della determinazione dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma 7, terzo periodo, legge n. 300/1970 e per l'applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. per la quantificazione delle spese di lite in caso di condanna, o per la loro compensazione, anche parziale.
Il licenziamento adottato al termine della procedura conciliativa produce effetto “dal giorno della comunicazione con cui il procedimento è stato avviato” – ossia dal giorno di ricezione, da parte dell'Ufficio, della comunicazione datoriale relativa al “preavviso di licenziamento” – salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva. II periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come “preavviso lavorato”, con corrispondente riduzione della relativa indennità in ragione della retribuzione corrisposta nello stesso periodo.
Ferma restando la nullità del licenziamento intervenuto in costanza di maternità/paternità, gli effetti del licenziamento rimangono sospesi soltanto in caso di infortunio sul lavoro ma non per malattia del lavoratore.
Tale esclusione, oltre ad avere lo scopo di individuare una data “legale” di risoluzione del rapporto, ha anche l’obiettivo di evitare possibili rallentamenti procedurali legali all'insorgere di una malattia che, indubbiamente, rinvierebbe l'efficacia del recesso al termine della stessa.
Se il tentativo di conciliazione si conclude positivamente, le soluzioni possono essere diverse, anche alternative alla risoluzione del rapporto. Anche in questo caso, i termini della conciliazione vengono verbalizzati ed i contenuti del relativo verbale di accordo diventano inoppugnabili, ai sensi di quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 2113, u.c. del cod. civ., trattandosi di una conciliazione avvenuta ex art. 410 c.p.c.
Nel caso di risoluzione consensuale del rapporto, la Commissione ne darà atto attraverso il verbale riportandone tutti i contenuti, ivi compresi quelli di natura economica. La risoluzione consensuale sottoscritta avanti alla Commissione provinciale di conciliazione è esaustiva rispetto alla procedura di cui all’art. 4, comma 17 legge n. 92/2012 relativa alla convalida avanti alla DTL delle dimissioni e risoluzioni consensuali, evitando così di imporre al lavoratore un ulteriore passaggio burocratico ed appesantimento della procedura.
In caso di esito positivo della vertenza, è possibile che le parti addivengano anche alla composizione di altre questioni di natura economica afferenti il rapporto di lavoro come, ad esempio, differenze retributive, ore di lavoro straordinario o trattamento di fine rapporto. In tal caso è importante che la Commissione verifichi la consapevolezza del lavoratore circa la definitività della questione e la conseguente inoppugnabilità del verbale ex art. 410 c.p.c.
Infine, va ricordata la modifica normativa introdotta dal D.L. n.76/2013 convertito nella legge n. 99/2013 che ha corretto alcuni aspetti della procedura di conciliazione di cui all’art. 7 della legge n. 604/1966. In particolare, con tale intervento si è chiarito che la procedura non trova applicazione nei casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all’art. 2110 c.c. (secondo un orientamento già sposato dal Ministero del Lavoro con la citata circolare n. 3/2013), nei cambi di appalto e nelle interruzioni di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore edile per completamento delle diverse fasi lavorative e chiusura del cantiere.
Esaurita la procedura conciliativa ex art. 7 legge n. 604/1966, sia che venga redatto verbale di mancata conciliazione sia che la procedura si concluda con una risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore matura il diritto a percepire l’indennità Aspi che dal 1° gennaio 2013 sostituisce l’indennità di disoccupazione. Il trattamento Aspi ha una durata diversa a seconda dell’età anagrafica del lavoratore: per l’anno 2013, il trattamento Aspi è pari ad 8 mesi per i lavoratori con età inferiore ai 50 anni, 12 mesi per i lavoratori con età anagrafica pari o superiore a 50 anni.
A fronte di tale trattamento, il datore di lavoro impegnato nella procedura di cui all’art. 7 della legge n. 604/1966 è tenuto a pagare una somma pari al 50% del trattamento iniziale mensile di Aspi per ogni 12 mesi di anzianità aziendale.
[*] D.T.L. Udine “La dott.ssa Cecilia Avanzi è Ispettore del Lavoro - Responsabile del Servizio Politiche del Lavoro presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Udine. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’amministrazione di appartenenza ai sensi della circolare del Ministero del Lavoro del 18 marzo 2004”
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