D.Lgs. n. 23/2015: il sacrificio della tutela reale
di Graziella Secreti [*]
La Legge 20 maggio 1970 n. 300 e il D.Lgs. 4 marzo 2015 n. 23 contengono norme nate in contesti economico-politico-sociali profondamente differenti, di cui sono espressione e da cui sono fortemente influenzati, sebbene entrambi debbano trovare la loro legittimità nella Carta Costituzionale, che disegna un’impalcatura chiara e per molti versi ancora inattuata del diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori.
L’economia a mercato prettamente nazionale, il sistema di produzione fordista che tende a favorire la coesione degli interessi sui luoghi di lavoro, le politiche industriali e la crescita economica del tempo, hanno generato la legge n. 300/1970 - in realtà già preceduta dalla legge n.604/1966 – che prevede la reintegra sul posto di lavoro quando il licenziamento individuale non derivi dalla sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, idonei ad inficiare il rapporto fiduciario che è alla base della relazione contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore.
L’economia a mercato globale, la crisi economica, l’interesse dell’imprenditore all’ottimizzazione dei costi di produzione comparati nei vari Stati del mondo e il carattere multinazionale dell’operatore economico, ha indotto, invece, il legislatore a valorizzare l’interesse datoriale alla temporaneità del rapporto.
La disciplina dei licenziamenti individuali che ne è derivata consegna alle aule di giustizia un sistema variegato di situazioni, che, sebbene uguali da un punto di vista fattuale, sono soggette ad una disciplina giuridica molto differente sia in termini sostanziali che procedurali.
D’altro canto, i datori di lavoro sono chiamati a valutare la convenienza puramente economica del licenziamento senza motivo di un lavoratore anche se diligente, competente e altamente professionalizzato.
Sicché porre in essere un licenziamento illegittimo richiederà da parte del datore di lavoro la mera analisi di una voce di bilancio, con conseguente monetizzazione di quella relazione contrattuale da cui, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, dipende l’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia.
Il contratto di lavoro stipulato successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015, sebbene impropriamente definito a tutele crescenti, è caratterizzato invece dalla durata incerta ed aleatoria del contratto medesimo, dovuta all’eliminazione delle tutela reali al licenziamento illegittimo, slavo che in alcuni casi previsti dalla stessa legge, con conseguente valorizzazione della tutela monetaria del licenziamento ingiustificato, risarcito con un’indennità crescente, commisurata agli anni di lavoro svolti, per un massimo di ventiquattro mensilità.
Il legislatore ha inteso riformare la disciplina del licenziamento al fine di evitare incertezze di diritto legate ad un ampio potere interpretativo dell’Autorità Giudiziaria.
In realtà offre un testo legislativo di gran lunga più incerto rispetto a quello statutario, sia perché nel concetto di licenziamento discriminatorio non tiene in debita considerazione il principio di tassatività delle cause di discriminazione, sia perché nel licenziamento disciplinare ripropone il concetto di “fatto materiale contestato” all’indomani dei dubbi interpretativi nati a seguito dell’entrata in vigore della Legge n. 92/2012.
Difatti, il D.Lgs. n. 23/2015 individua tre tipi di licenziamento: quello discriminatorio, quello disciplinare e quello oggettivo, ammettendo la reintegra soltanto per la prima tipologia di cessazione per volontà datoriale.
L’art. 2 definisce nullo “il licenziamento perché discriminatorio a norma dell’art.15 della legge 20 maggio 1970 n. 300”.
La disposizione di seguito precisa che il Giudice ordina la reintegra anche quando il licenziamento è “… riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.
La legge n. 92/2012, invece, dopo aver elencato i casi di licenziamento discriminatorio, in virtù del principio di tassatività delle cause di discriminazione, considerava soggetto a reintegra il licenziamento per il quale erano configurabili “… .altri casi di nullità previsti dalla legge, o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile”.
Il nuovo testo normativo, quindi, si limita a rimettere alla legge l’individuazione dei casi di nullità rilevanti ai fini della reintegra.
A questo punto però è inevitabile chiedersi se il testo debba essere interpretato nel senso che la nullità che genera la reintegra debba derivare da una fattispecie esplicita e cioè descritta dal legislatore in tutti i suoi elementi costitutivi, ovvero se sia riconducibile anche a casi dai quali, ai sensi di legge, derivi la nullità generale.
La questione si pone in particolare per il cosiddetto “licenziamento ritorsivo”, che in vigenza del precedente testo era certamente reintegrabile, poiché affetto da motivo illecito, esplicitamente richiamato dalla disposizione normativa come causa di nullità rilevante.
In vigenza del nuovo testo, la precedente certezza viene meno e bisognerà attendere la posizione della giurisprudenza per verificare se la nullità disciplinata dal D.Lgs. n. 23/2015 sia solo quella tassativamente elencata dalla legge, come farebbe propendere un’interpretazione puramente letterale, ovvero anche quella prevista dalla legge in senso generale, come imporrebbe invece un’interpretazione sistematica delle norme.
È evidente che la questione non è di poco conto in quanto il licenziamento ritorsivo potrebbe essere soggetto a reintegra esclusivamente nel caso in cui prevalesse la seconda interpretazione.
Probabilmente la disposizione è frutto di compromessi parlamentari che hanno consentito l’approvazione del testo a scapito di ragioni di certezza tanto invocate dal legislatore e che, tuttavia, a parere di chi scrive, consentono un varco interpretativo, seppur ristretto, di salvaguardia della tutela reale in ipotesi di licenziamento illegittimo.
Una situazione analoga di certezza invocata e incertezza codificata è sancita nell’art.3 comma 2 D.Lgs. n. 23/2015, che riproduce la nozione di “insussistenza del fatto materiale contestato”, la quale già in vigenza della precedente legge aveva destato profondi dubbi di interpretazione.
Difatti, il richiamato art. 3 al comma 1 sancisce che nei casi di licenziamento in cui non ricorrono gli estremi della giusta causa e del giustificato motivo oggettivo o soggettivo, la tutela applicata dal Giudice è quella indennitaria.
Tuttavia al secondo comma, introdotto anche in questo caso per ragioni di compromesso parlamentare, è stabilito che “… esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estraneo ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione”.
La praticabilità della tutela reale anche in questo caso è possibile attraversando un percorso interpretativo insidioso, che genera incertezza giuridica poiché è legato alla difficoltosa definizione di insussistenza del fatto materiale contestato, mutuata dal diritto penale e quindi poco calzante alla materia lavoristica.
Difatti, se il diritto penale è governato dal principio di legalità e tassatività, il diritto del lavoro fonda la permanenza del vincolo contrattuale sul rapporto fiduciario che è parametro di riferimento per la valutazione delle sanzioni inflitte al lavoratore anche in termini di proporzionalità.
Pertanto, possono verificarsi casi in cui la sussistenza del fatto materiale in tutte le sue componenti non è pienamente provato, ma il livello probatorio raggiunto costituisce comunque un notevole inadempimento, idoneo a ledere il rapporto fiduciario e valutabile come giustificato motivo soggettivo di licenziamento ai sensi della Legge n. 604/1966.
Così come può verificarsi che fatti contestati e pienamente provati nella loro sussistenza determinino un licenziamento illegittimo perché sproporzionato rispetto alla gravità del fatto che costituisce un inadempimento lieve.
In situazioni del genere l’unica tutela invocabile è quella indennitaria, considerato che la reintegra è possibile soltanto quando l’inadempimento non è proprio configurabile, mentre in presenza di illegittimità per evidente sproporzione della sanzione inflitta al giudice è preclusa qualsiasi valutazione, poiché il suo potere è relegato alla mera quantificazione dell’indennità da doversi corrispondere.
Orbene, per meglio comprendere il senso del testo di legge, occorre ripercorrere storicamente sin dalla Legge n. 92/2012 l’interpretazione del concetto di “insussistenza fatto materiale contestato”.
All’indomani della Legge cd. Fornero da parte di alcuni interpreti, legati ad un’esegesi prettamente letterale del testo, si era proposto di restringere la formula legislativa alla sola nozione di mancanza del fatto materiale contestato e quindi degli elementi materiali dell’illecito (condotta, nesso di causalità ed evento).
Al contrario, nei casi in cui fossero rilevanti altri elementi non puramente fattuali, quali l’elemento soggettivo, l’antigiuridicità, l’imputabilità, ecc. si riteneva applicabile la tutela indennitaria, poiché rientranti nella categoria residuale delle “altre ipotesi” prevista dalla medesima legge.
Ai sensi di quest’interpretazione la contestazione di un furto, ad esempio, era da ritenersi sussistente nella sua materialità anche se commessa per errore, ovvero in stato di incoscienza o senza finalità di lucro, ovvero in presenza di cause che escludono l’antigiuridicità come la forza maggiore.
Tuttavia, la giurisprudenza di merito aveva unanimemente aderito all’opposta teoria che intendeva il fatto materiale contestato come “fatto giuridico”.
L’orientamento imponeva di effettuare una valutazione globale del fatto, del contesto e dell’atteggiamento psicologico del lavoratore al fine di valutare la sussistenza dell’inadempimento, senza limitazione della rilevanza dei soli elementi fattuali della fattispecie disciplinare, ma tenendo in debita considerazione la partecipazione soggettiva alla condotta illecita e pertanto - nell’esempio del furto sopra richiamato - escludendo la sussistenza del furto se commesso per errore.
Sul punto però è intervenuta la Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 23669 del 6/11/2014, ha escluso la sussistenza del fatto materiale per carenza del requisito dell’abitualità della condotta disciplinare contestata (nel caso di specie ad un Direttore di Banca era stata concessa la reintegra dalla Corte di Appello di Venezia per mancanza del requisito dell’abitualità e la Corte di Cassazione, investita dall’impugnazione datoriale, rigettando il ricorso, confermava la mancanza del fatto contestato nella sua dimensione storica).
La Corte di Cassazione, quindi, accoglie la nozione di fatto materiale, ribadendo che il Giudice non ha alcun potere discrezionale circa la proporzionalità della sanzione inflitta e che in ogni caso il requisito della proporzionalità fuoriesce dalla nozione di fatto.
La Suprema Corte, pur esprimendosi in senso chiaro a favore della teoria del “fatto materiale”, non precisa, tuttavia, quando questo ricorra e quali siano gli elementi da considerare interni a questa nozione, con la conseguenza che rimane incerto se la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero dell’antigiuridicità siano irrilevanti per la configurazione dell’illecito disciplinare.
Ebbene, nel mentre il dibattito giurisprudenziale in materia si stava atteggiando nei termini sopra descritti, è intervenuto il legislatore, che con la legge delega 10 dicembre 2014 n.183 ha ammesso, ai sensi dell’art.1, la tutela reale in presenza di “… specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”.
A fronte di ciò il legislatore delegato ha esercitato la delega, introducendo nel decreto legislativo n. 23/2015 la controversa formula espressiva utilizzata dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopra richiamata, in quanto all’art. 3 comma 2 dispone la reintegra in caso di “… insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
In altri termini, il legislatore decide di introdurre in un testo di legge una nozione di cui ha la consapevolezza delle incertezze interpretative da essa originate e senza dubbio acuite dalla pronuncia della Suprema Corte, rimettendo quindi alla giurisprudenza l’arduo compito di definire il significato di un’espressione, che sebbene dubbia, costituisce il discrimine di applicazione della tutela reale o indennitaria al licenziamento illegittimo.
L’Autorità Giudiziaria, chiamata ad applicare ai casi concreti la normativa, dovrà conciliare il principio secondo cui tutto ciò che non riguarda il fatto materiale è irrilevante ai fini della tutela reale, con i valori costituzionali e con l’intero impianto giuslavoristico, che valorizza al contrario la partecipazione dell’elemento soggettivo alla condotta posta in essere dal lavoratore, perchè solo una condotta realmente imputabile è idonea alla lesione del rapporto fiduciario.
D’altro canto, l’intero impianto normativo che deriva dalla legge in discorso è di certo suscettibile di modifiche giurisprudenziali, non solo per i profili sopra indicati, che in questa sede si è scelto di trattare, ma anche per i numerosi indici di incostituzionalità che sembrano emergere già da una prima lettura del testo.
È innegabile che da un punto di vista della tutela applicabile esistono due categorie di lavoratori per i quali si applicano discipline differenti in presenza di fattispecie identiche, soltanto per la diversa cronologia - ante e post jobs act - dell’inizio del rapporto di lavoro.
Ciò si presta indubbiamente ad una lettura critica del testo sotto il profilo di conformità all’art. 3 della Costituzione, aggravato dalla circostanze che la diversità non è afferente soltanto al diritto sostanziale e quindi all’applicazione della tutela reale o obbligatoria, ma anche al diritto processuale.
Infatti ai sensi dell’art. 11 “ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell’art.1 della legge n. 92 del 2012” e cioè il rito speciale e accelerato che detta legge aveva introdotto al fine di consentire l’esercizio rapido del diritto di difesa giudiziale in ipotesi di licenziamento illegittimo.
Alla luce di ciò un lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore del decreto in esame, in presenza di un licenziamento illegittimo che non rientri nei casi residuali di permanenza della tutela reale, non solo avrà diritto ad una mera indennità, con evidente monetizzazione della dignità professionale, ma potrà esercitare il proprio diritto di difesa, ricorrendo alle lungaggini del rito ordinario, nonostante suoi colleghi con maggiore anzianità lavorativa in circostanze identiche potranno ricorrere ad un rito accelerato, in spregio quindi al combinato disposto degli artt. 3 e 24 della Costituzione.
A parere di chi scrive, tuttavia, i maggiori vizi di incostituzionalità che il testo presenta sono da individuare in relazione alla sua compatibilità con l’art. 76 della Costituzione, stante un evidente eccesso di delega che si evidenzia in diverse disposizioni normative.
Difatti, sia l’estensione dei soggetti ai quali è applicabile la normativa, sia la deroga in materia di rito applicabile non erano affatto previsti dalla Legge n.183 del 10/12/2014.
L’art. 1, comma 7, lettera c) della Legge n.183/2014 consente al legislatore delegato “la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
L’art. 1, comma 2, del decreto delegato prevede invece che “le disposizioni del presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”.
In quest’ultimo caso non siamo in presenza di nuove assunzioni, alle quali soltanto la legge delega consente l’applicazione di una differente disciplina del licenziamento, ma di rapporti preesistenti all’entrata in vigore della legge medesima, in cui intervenga soltanto una modifica di alcuni elementi del rapporto e ai quali è sottratto il ricorso alla tutela reale solo per volontà del legislatore delegato.
Un discorso analogo può essere fatto in relazione al rito applicabile e quindi all’art. 11 del D.Lgs. 23/2015, considerato che nella legge delega non è contenuto alcun cenno alle modifiche di tipo procedurale, ma si fa riferimento soltanto all’applicazione di una diversa disciplina sostanziale della tutela a fronte del licenziamento illegittimo.
Senza sottacere infine che un ulteriore elemento di contrasto con la legge delega è dato proprio dalla deduzione nel testo di norme che hanno dato luogo a contrasti giurisprudenziali, come quella “dell’insussistenza del fatto materiale contestato”, ovvero norme di ambigua codificazione come quella sopra trattata attinente al licenziamento nullo.
Ciò in considerazione del fatto che una delle ragioni ispiratrici della legge delega era proprio quella di introdurre un testo improntato alla certezza del diritto e quindi volto alla “… semplificazione, anche mediante norme di carattere interpretativo, o abrogazione delle norme interessate da rilevanti contrasti interpretativi, giurisprudenziali e interpretativi”, come si evince dall’art.1 comma 5 lettera b) Legge 183/2014.
Alla luce delle argomentazioni sopra esposte è innegabile che la giurisprudenza, alla quale probabilmente il legislatore delegante intendeva sottrarre ambiti di intervento nella disciplina degli eventi interruttivi del rapporto di lavoro, sarà chiamata invece a disegnare nuovamente l’impalcatura della controversa materia dei licenziamenti, al fine di renderla conforme alla Costituzione sia scritta che materiale, in quanto è indubbio, a prescindere dai tecnicismi, che un modello di diritto del lavoro corrisponde a un modello di società e laddove maggiore è la crisi della coesione sociale, maggiori sono le difficoltà di tenuta di un sistema, che, invece, si fonda sul compromesso tra le diverse categorie sociali e di cui è figlia la nostra Costituzione.
Anche l’incentivazione all’occupazione ha un limite nella dignità della persona, che non può essere contabilizzata in una voce di bilancio e ciò a maggior ragione se questa forma di incentivazione non è neanche funzionale ad un incremento occupazionale, che non può derivare dalla mera modifica delle regole del contratto di lavoro, ma dall’attivazione di politiche industriali e di sostegno alle imprese e di incentivi all’economia, che siano in grado di rendere conveniente l’esercizio dell’attività imprenditoriale nel nostro paese.
[*] La dott.ssa Graziella SECRETI è Ispettore del Lavoro, Avvocato, in servizio presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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