Il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato e la disciplina del licenziamento
di Luigi Oppedisano e Erminia Diana [*]
1. Premessa
A decorrere dal 7 marzo 2015, con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6/3/2015 e contenente disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge delega 10/12/2014, n. 183, nasce un nuovo contratto di lavoro che si applica ai lavoratori nuovi assunti e per i quali la norma prevede tutele restrittive rispetto ai lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore della novella legge.
La normativa in questione, approvata dal Governo nel mese di dicembre 2014, è stata presentata alle competenti commissioni permanenti lavoro di Camera e Senato, le quali hanno espresso il loro parere, seppure non vincolante, di apportare alcune modifiche. Al riguardo il Governo non ha tenuto conto del parere espresso dalle predette commissioni Parlamentari[1] ed ha proceduto all’approvazione definitiva della normativa in esame nella seduta del 20 febbraio 2015.
Per come appena detto i destinatari della nuova norma sono i lavoratori neo assunti con contratto a tempo indeterminato con la qualifica di operai, impiegati o quadri, i lavoratori già in forza alla data di entrata in vigore della nuova disciplina con contratto a tempo determinato e da trasformare a tempo indeterminato, i lavoratori già assunti con contratto a contenuto formativo e da qualificare o da stabilizzare e, per il c.d. “effetto di trascinamento” anche i lavoratori reintegrati ai sensi dell’articolo 18, comma 8 e 9, della legge n. 300/1970.
La nuova disciplina non incide sui contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 4/3/2015, n. 23, i quali resteranno regolamentati dalla precedente disciplina prevista dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, rispettivamente nelle piccole e nelle grandi imprese, per i regimi di tutela, a partire da quelle sul regime sanzionatorio dei licenziamenti ingiustificati.
Sono esclusi dal campo di applicazione e, quindi, non soggetti alla disciplina del nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato i lavoratori che saranno assunti con contratto di lavoro di dirigente per i quali rimarranno applicabili le disposizioni più favorevoli previsti dall’art. 18, comma 1, della legge n. 300/1970 e dell’art. 5, comma 3, della legge n. 223/1991 per il licenziamento collettivo imposto senza l’osservanza della forma scritta.
La legislazione del lavoro prevede per le imprese già in essere alla data di entrata in vigore del predetto D.Lgs. n. 23/2015 di avere contemporaneamente in azienda due diverse tipologie di tutele applicabili ai dipendenti che hanno stipulato un contratto di lavoro di natura subordinata: ai vecchi assunti è riconosciuta la cosiddetta tutela reale, al contrario, ai nuovi assunti è riservato il licenziamento benché per gli stessi sia stata prevista una indennità risarcitoria.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015, secondo provvedimento attuativo della Legge delega n. 183/2014, nota come “Jobs act”, sparirà definitivamente la tutela reale, salvi i casi residuali di licenziamenti nulli e discriminatori o di licenziamenti disciplinari in cui risulti manifestamente infondato il fatto materiale posto a base della risoluzione contrattuale, che resterà applicabile esclusivamente ai dipendenti assunti fino al giorno della pubblicazione del Decreto in Gazzetta Ufficiale dai datori di lavoro muniti dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 della L. n. 300/1970.
Per quanto concerne i licenziamenti economici o disciplinari non adeguatamente ben giustificati di lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore della nuova disciplina e il giudice accerti che non siano integrati gli estremi del giustificato motivo oggettivo, soggettivo o della giusta causa, il rapporto di lavoro sarà in ogni caso dichiarato estinto e al lavoratore competerà solamente la nuova tutela risarcitoria, individuata nel pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Il legislatore, intervenendo sostanzialmente sulla modifica del contratto di lavoro a tempo indeterminato, vuole agire profondamente sulla leva del licenziamento: più flessibilità in uscita in cambio di risarcimento monetario. D’altra parte lo scopo del nuovo contratto a tempo indeterminato è proprio quello di sostituire il vecchio regime fondato sulla tutela del posto di lavoro (reintegrazione) con un nuovo regime fondato sulla tutela del lavoro (indennizzo crescente al crescere della durata del rapporto di lavoro).
Le “tutele crescenti” nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato per i nuovi assunti consistono sostanzialmente nella “graduazione” delle indennità economiche cui hanno diritto i lavoratori in caso di licenziamento illegittimo e che aumentano in relazione all’anzianità di servizio. Il “costo del licenziamento” è in questo modo determinato a priori dal legislatore, togliendo al giudice il potere di determinare l’indennità dovuta secondo sue valutazioni.
Giova ricordare nel merito che, giusta quanto stabilito dalla preesistente disciplina, il licenziamento deve risultare sempre sufficientemente motivato. Infatti, la legge n. 604/1966, che detta norme sui licenziamenti individuali, stabilisce che “il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa o per giustificato motivo” [2]. Inoltre, “il licenziamento per giustificato motivo …è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.
La nuova disciplina supera, così, il principio della proporzionalità fra la mancanza contestata e la sanzione del licenziamento applicata dal datore di lavoro, rendendo possibile il recesso da parte di questi sulla base della materiale sussistenza del fatto contestato, impedendo così al giudice ogni valutazione di merito.
Di seguito si riporta una sintesi del nuovo sistema sanzionatorio applicabile ai licenziamenti individuali e collettivi eventualmente dichiarati illegittimi, sia per le aziende con meno di 15 dipendenti che per quelle superiori a 15 ed in agricoltura fino a 5 dipendenti o più di 5.
2. Il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.
La tutela reale non è del tutto scomparsa. Infatti, l’articolo 2 della nuova disciplina ha lasciato in vita l’istituto della reintegra quando lo scioglimento del rapporto del lavoratore risulti illegittimo perché discriminatorio, nullo e intimato in forma orale. La norma prevede che il giudice, con la pronuncia della sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Tali ipotesi di licenziamento rimangono gli unici casi in cui la disciplina sui licenziamenti prevede la reintegrazione nel posto del lavoro.
Gli atti discriminatori a cui si riferisce il legislatore sono quelli indicati all’art. 15 della legge 30 maggio 1970, n. 300, c.d. statuto dei lavoratori. In particolare, si tratta di quegli atti indirizzati a condizionare l'occupazione di un lavoratore all’obbligo di aderire o non aderire ad una associazione sindacale o di cessare di farne parte; quegli atti finalizzati a licenziare un lavoratore, discriminandolo in ogni forma possibile, recandogli pregiudizio per effetto di appartenere o fare attività sindacale o per la partecipazione ad uno sciopero; inoltre tutti quegli atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali[3].
Per le aziende che occupano più di 15 dipendenti la reintegra è prevista quando il licenziamento viene dichiarato illegittimo poiché discriminatorio, oppure per mancanza della forma scritta, per l’insussistenza del fatto materiale, per difetto di giustificazione del motivo, per tutti i casi di nullità previsti esplicitamente dalla legge (licenziamento nullo perché intimato durante il periodo di tutela della maternità o intimato durante il periodo di tutela del matrimonio). Mentre per le aziende che occupano meno di 15 dipendenti la reintegra è prevista quando il licenziamento viene dichiarato illegittimo perché discriminatorio, ovvero per mancanza della forma scritta, per tutti i casi di nullità previsti esplicitamente dalla legge, perché intimato durante il periodo di tutela della maternità o perché intimato durante il periodo di tutela del matrimonio.
La tutela reale può essere negoziata. Infatti, il D.Lgs. n. 23/2015 all’art. 2, comma 3, prevede la possibilità per il lavoratore di potere scegliere: reintegra o indennità sostitutiva. Al lavoratore è riconosciuta la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in cambio della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità corrispondente a quindici mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta e la comunicazione comporta la risoluzione del rapporto di lavoro. La norma prevede che l’indennità non è soggetta a contribuzione previdenziale benché la stessa sia soggetta all’imposizione fiscale.
3. Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa
L’articolo 3 del D.Lgs. n. 23/2015 regolamenta la tutela obbligatoria [4]. La norma nel prevedere che nel caso in cui sia accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (c.d. licenziamento economico) o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (c.d. licenziamento disciplinare), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. L’indennità non è soggetta a contribuzione previdenziale, ma rimane soggetta all’imposizione fiscale.
La norma prevede, inoltre, ma solo nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente provata l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, che il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento e fino a quello della reintegrazione. La misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità. In tal caso il datore di lavoro è condannato, anche, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione, senza però l’applicazione di sanzioni per l’omissione contributiva.
Quando il datore di lavoro può provare di avere indicato nella lettera inviata al lavoratore i motivi del licenziamento e questi sono concreti ed esistono realmente (ad esempio: chiusura dell’unità produttiva che ha comportato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratori) allora il licenziamento è legittimo e nei confronti del datore di lavoro è previsto solamente un indennizzo economico per il lavoratore. Al contrario, se manca il motivo del licenziamento il lavoratore può impugnare il licenziamento e con sentenza del giudice può essere reintegrato per assenza di motivazione, sia formale (mancanza di forma scritta dei motivi) che sostanziale.
La disciplina riserva al lavoratore la facoltà di potere chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità e tale richiesta comporta la risoluzione del rapporto di lavoro. Tale indennità non è soggetta a contribuzione previdenziale, ma rimane comunque sottoposta a tassazione ai fini fiscali.
La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se questa è anteriore al predetto avviso.
L’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 riguarda i vizi formali e procedurali del licenziamento, stabilendo che nel caso di licenziamento intimato in difetto del requisito di motivazione o della procedura prevista per i licenziamenti disciplinari di cui all’art. 7 della legge n. 300/1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento, salvo ovviamente che non accerti la nullità o la natura discriminatoria del recesso e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata a contribuzione, pari ad una mensilità per ogni anno di servizio, non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità.
L’art.5 della disciplina riprende un principio già noto ed introdotto dalla legge n.92/2012: la revoca del licenziamento. La norma prevede che nei 15 giorni successivi alla data di ricezione dell’impugnazione del licenziamento il datore di lavoro può revocare il licenziamento. In tal caso il rapporto di lavoro viene ripristinato senza soluzione di continuità ed il lavoratore ha diritto alla retribuzione nel frattempo maturata che al massimo può arrivare a 75 giorni.
La normativa[5] in commento, relativamente al risarcimento derivante dall’illegittimo licenziamento del lavoratore dipendente da piccole imprese, ha previsto una tutela attenuata. Le tutele crescenti variano anche in base alla consistenza aziendale. Bisogna verificare se l’azienda occupa fino a 15 lavoratori o più di 15 e per le aziende agricole se fino a 5 lavoratori o più di 5. La disciplina prevede un regine di tutele crescenti dimezzato rispetto agli altri lavoratori. Infatti, la norma prevede il dimezzamento dell'ammontare dell’indennità pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio in misura non inferiore a due e non superiore a sei mensilità. Inoltre, l’indennità prevista per vizi formali e procedurali è pari ad una mezza mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio in misura non inferiore a una e non superiore a sei mensilità. A parere dello scrivente la norma a questo punto non sembra rilevarsi equa: l’entità risarcitoria derivante dall’illegittimità del licenziamento non può creare disparità tra i lavoratori.
4. Il licenziamento collettivo
L’art. 10 del D.Lgs. n. 23/2015 si occupa del licenziamento collettivo disciplinato dalla legge 23 luglio 1991, n. 223. Il licenziamento collettivo si verifica quando una impresa, per motivi di crisi, di ristrutturazione aziendale o di chiusura dell'attività, effettua una rilevante riduzione di personale.
Il licenziamento collettivo è possibile solo in casi particolari ed indicati dalla legge e soltanto dopo la definizione di un articolato procedimento al quale devono prendere parte anche le rappresentanze sindacali presenti in azienda ed i sindacati maggiormente rappresentativi.
Il datore di lavoro non è libero nella scelta dei lavoratori da licenziare, lo stesso deve attenersi ai criteri stabiliti dalla contrattazione collettiva e se la contrattazione nulla prevede, la predetta disciplina prevede dei criteri generali in base ai quali l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire tenendo presente dei carichi di famiglia, dell’anzianità del lavoratore e delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative dell’impresa.
La norma prevede che qualora il licenziamento collettivo venga intimato senza aver rispettato la forma scritta, si applica il regime sanzionatorio previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015, cioè la reintegra prevista per il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale.
Inoltre, qualora il datore di lavoro dovesse violare le procedure descritte all’art. 4, comma 12 o dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 1, della legge n. 223/1991, si applica il regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015, cioè la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
5. Conclusioni
I partiti politici ideologici che hanno dato corso alla nascita della Repubblica Italiana nel ridisegnare i nuovi assetti costituzionali hanno voluto progettare una Costituzione sorretta da grandi pilastri. Infatti, proprio al primo articolo, nel sancire che “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, si è voluto dare al lavoro un valore molto importante per gli italiani, un popolo rimasto povero, ma orgoglioso e soprattutto capace di promuovere la ripresa, puntando sul lavoro e sulla produzione, creando occupazione e benessere.
L’economia e la produzione del paese hanno registrato una forte ascesa per oltre mezzo secolo, ma il declino ha avuto inizio con il nuovo secolo (2000) che si presenta caratterizzato da diversi contesti sfavorevoli: alto tasso di illegalità, economia sempre decrescente, disoccupazione costantemente in crescita ed assenze di efficaci misure di intervento pubblico, alta tassazione fiscale. Ancora oggi, nonostante gli interventi legislativi, quelle condizioni un tempo favorevoli stentano a decollare: l’indice della produzione e dell’occupazione non cresce e conseguentemente la ricchezza degli italiani continua a diminuire.
Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali in una recente dichiarazione ha affermato che “Il lavoro lo creano le imprese che investono, dimostrando fiducia nel futuro”. Con la legge delega 10/12/2014, n. 183, le aspettative del Governo in ordine alla ripresa dell’occupazione sono molto ottimiste. Le recenti statistiche sulla disoccupazione a fine aprile 2015 segnano un dato favorevole: il tasso di disoccupazione risulta in discesa, il numero degli occupati è in crescita, il tasso di disoccupazione scende di 0,2 punti, mentre quella giovanile di 1,6 punti.
Il governatore della Banca D’Italia[6] ha affermato che un “segnale positivo”, favorito dal Job act e dai nuovi sgravi fiscali in vigore dall’1/1/2015, è dato dalla crescita delle assunzioni a tempo indeterminato dei primi mesi dell’anno 2015, ma una “valutazione completa degli effetti di tali provvedimenti è possibile solo a medio termine”. Le considerazioni del governatore mettono in evidenza come la “dinamica dell’occupazione rifletta lo stato di debolezza della domanda e gli ampi margini di capacità produttiva inutilizzata”.
Le attese degli italiani oggi sono quelle di una rapida ripresa della produzione e, quindi, dell’occupazione, soprattutto per i giovani i quali rimangono i maggiori soggetti più a rischio di esclusione dal mercato del lavoro. Nel merito non pochi studiosi della disciplina[7] hanno comprensibilmente affermato che la recente riforma del lavoro (Jobs act) vuole “attuare e combattere la crisi economica in essere facendo leva su un bene lavoro che non c’è. La causa principale è da ricercare nelle motivazioni che spingono gli imprenditori italiani a produrre fuori dai confini del paese Italia. Perché gli imprenditori non producono più nel territorio italiano?
La disoccupazione negli ultimi tempi in Italia ha raggiunto livelli ormai insostenibili. Eppure lo stato democratico, costituzionalmente fondato sul lavoro, deve provvedere con ogni mezzo a rimuovere quegli ostacoli che impediscono la crescita economica ed il benessere dei cittadini. I lavoratori non vogliono essere degli assistiti che ricorrono ai benefici degli ammortizzatori sociali, ma dignitosamente chiedono lavoro.
L’Italia oggi ha bisogno di notevoli cambiamenti strutturali, una giusta redistribuzione del reddito, piccole leve, ma capaci di rilanciare la produttività e la competitività e conseguentemente l’occupazione. In sintesi, serve un grande piano industriale che premi la meritocrazia e la legalità e coinvolga gli imprenditori, preferibilmente italiani, capaci di mettere in moto quelle opportunità naturali che questo nostro meraviglioso paese può ancora offrire.
Note
[1] Si evidenzia che le osservazioni espresse dalle commissioni lavoro del Senato e della Camera allo schema del decreto legislativo in argomento, in merito alla previsione della tutela indennitaria per alcuni casi di licenziamenti collettivi dichiarati illegittimi dal giudice, il Governo non ha inteso apportare alcuna modifica al provvedimento governativo.
[2] Nel merito l’articolo 2119 del c.c. a proposito del recesso per giusta causa stabilisce: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto [c.c. 1373] prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto [c.c. 2103]. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l'indennità indicata nel secondo comma dell'articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell'imprenditore [c.c. 2221] o la liquidazione coatta amministrativa dell'azienda [c.c. 2111].
[3] L’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 stabilisce: “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a:
a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte;
b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.
[4] Pierluigi Rausei – Le sanzioni per i licenziamenti a tutele crescenti – in Diritto & Pratica del lavoro n. 13/2015.
[5] L’art. 9 del D.Lgs. n. 23/2015, per le piccole imprese e organizzazioni di tendenza, prevede: “1. Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970, non si applica l'articolo 3, comma 2, e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità. 2. Ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, si applica la disciplina di cui al presente decreto”.
[6] Ignazio Visco, Considerazioni finali del Governatore della Banca D’Italia all’assemblea ordinaria dei partecipanti del 26 maggio 2015.
[7] Stefano Olivieri Pennesi, Agenzie … Uno … Nessuna … Centomila! - in Lavoro@confronto n.9 – Maggio/Giugno 2015.
[*] Il dott. Luigi Oppedisano è funzionario ispettivo, responsabile Linea Operativa “Edilizia – autotrasporti – industria e artigianato” Vigilanza Ordinaria della Direzione Territoriale del Lavoro di Cosenza. La dott.ssa Erminia Diana è funzionario area amministrativa e giuridico contenzioso, responsabile dell’Ufficio relazioni con il pubblico della Direzione Territoriale del Lavoro di Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero degli autori e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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