Il lavoro diventa agile… mette le ali
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Il “lavoro agile” o come usa chiamarlo “Smart Working” potrebbe definirsi tranquillamente il “mutamento genetico” del più datato “Telelavoro” in versione 2.0 o, per meglio dire, il salto di qualità naturale che gli addetti ai lavoro hanno osservato rispetto a nuove norme/convenzioni che mirano, tra l’altro, ad adeguare il “modo di lavorare” ai tempi che stiamo vivendo attualmente.
Ma andiamo con ordine, “l’archetipo” del “lavoro flessibile” è indubbiamente rappresentato da quello definito, fin dagli anni novanta, anche grazie alla rivoluzione/evoluzione avviata con l’introduzione “massiva” dei computers, nei vari processi produttivi e lavorativi, come “telelavoro”.
I primi passi mossi da questa, per così dire, tipologia lavorativa, risalgono alla fine degli anni novanta con specifici accordi e protocolli di declinazione europea.
In primo luogo quindi è bene affermare che lo smart working, detto anche lavoro agile, non è facilmente assimilabile al più datato telelavoro poiché, la sua peculiarità, consiste non nel semplice svolgimento delle prestazioni lavorative esternamente alla sede aziendale, bensì, all’effettuazione di attività lavorative sulla base di obiettivi e risultati predefiniti, in un contesto organizzativo e progettuale svincolato da orari e sedi fisiche di lavoro.
Il presupposto sul quale si muove il lavoro agile è rappresentato dalla esigenza di prevedere “regole uguali” per chi lavora in ufficio ovvero da luogo diverso, sia esso la propria abitazione, un luogo all’aperto, luoghi e spazi condivisi con altri, vale a dire quei parametri quali: retribuzione, sicurezza, privacy, doveri, diritti, infortuni, ecc.
Quindi possiamo tranquillamente affermare che i principi cardine, del lavoro agile, sono alquanto per così dire semplici.
In primis, i vincoli connessi a luogo e tempo/orario lavorativo si destrutturano, il lavoratore “agile” organizza il proprio impiego in relativa assoluta autonomia e flessibilità; si punta a dare maggiore importanza alla responsabilità personale circa i risultati che si intende ottenere/offrire.
Di fatto, e qui introduciamo un elemento di discrasia, rispetto alla maggiore diffusione dello smart working, il terreno offerto dalle organizzazioni – imprese – amministrazioni – di medie/grandi dimensioni, che sono oggettivamente meglio attrezzate e strutturate per implementare diffusamente tale tipologia di lavoro, se non altro per la conformazione-architettura interna, delle attività, anche rispetto alle varietà di ambiti e competenze, si contrappone, inesorabilmente, con realtà lavorative di minori dimensioni naturalmente vocate ad una maggiore esigenza di rapida interscambiabilità, ma anche relazione costante tra lavoratori, tale da richiedere una quotidianità di frequentazioni e condivisioni sul lavoro.
È anche giusto, però, porre il problema della necessaria modifica di mentalità legata al fatto di ritenere, da parte dei datori di lavoro, indispensabile controllare, per così dire, il lavoratore, con verifiche puntuali degli orari lavorativi svolti e delle relative prestazioni effettuate, dove il rapporto di fiducia è oggettivizzato dalla concreta visione di quanto prodotto materialmente o immaterialmente, e non anche dal raggiungimento o meno, di risultati lavorativi misurati e misurabili per “obiettivi” raggiunti o meno, in tempi ben definiti.
Ciò detto ci conduce a riflettere in merito alle necessità di puntare ad una maggiore e migliore “organizzazione complessiva” dei processi lavorativi.
La definizione puntuale dei progetti e delle procedure serve per far si che i dipendenti possano essere valutati rispetto ai risultati loro assegnati e di conseguenza, ottenuti, e non su quanto tempo vi è stato destinato per il loro ottenimento.
Ecco la cartina tornasole del lavoro agile che è rappresentata dal valore assegnato all’elemento “fiducia” tra datore di lavoro e dipendente. Una nuova cultura aziendale non basata su controlli vecchia maniera, di tradizione “fordista” (quanto tempo impieghi per svolgere una operazione o produrre un componente). L’impiego del lavoro “smart”, evidentemente, può trovare maggiore terreno fertile nelle tipologie di impieghi creativi e di concetto, dove la presenza nel luogo di lavoro può considerarsi accessoria, incidentale.
Altro elemento fondante, del lavoro agile, e che può poggiarsi, tranquillamente, sia su contrattazioni collettive, come anche su semplici accordi scritti, stipulati tra singolo lavoratore e datori di lavoro, in una rispettiva/vicendevole, utilità, dove da un lato sono evidenti i benefici ricadenti su migliore conciliazione tempi di vita e tempi di lavoro, e dall’altro lato benefici inerenti maggiori e migliori performance di produttività.
È evidente, quindi, cosa rende oggettivamente differente il telelavoro dallo smart working. In primo luogo la maggiore flessibilità di quest’ultimo, in quanto per il telelavoro si rende necessario individuare un luogo fisico chiaramente presente e rigidamente strutturato, per caratteristiche fisiche e tecnologiche, come la postazione fissa, con cui si lavora, la collocazione in un ambiente casalingo rigorosamente adattato ai requisiti di sicurezza ed igiene dei luoghi di lavoro, nonché standard dimensionali; al fatto che le attrezzature devono essere fornite e manutenute dal datore di lavoro, alla esistenza di infrastrutture tecnologiche pre individuate ed adeguatamente presenti, ecc.
Di contro, lo smart working, si può svolgere semplicemente utilizzando un “device” e una “connessione internet” efficiente, ma è altresì possibile lavorare nei luoghi più disparati: dal parco pubblico, ad un centro benessere, da un albergo o resort, ad un circolo ricreativo, da un locale pubblico ad un albergo, un polo museale, in viaggio all’estero o in Italia, su un mezzo di trasporto sia esso treno, aereo, nave, pulmann, autonolo, taxi, ecc.
Insomma, in sostanza, possiamo affermare che il lavoro agile meglio si attaglia alle “moderne vicende di vita”, stili, abitudini, bisogni, senza per questo privare le persone da attività lavorative idonee a produrre sufficienti redditi, collegati ai “risultati” lavorativi raggiunti, più che alla presenza fisica in un luogo di lavoro per un orario prestabilito e/o rigido.
L’Osservatorio sul lavoro agile, presente nella Scuola di Managment del Politecnico di Milano, ha calcolato che nel 2015 più del 17% delle imprese di grandi dimensioni, del nostro Paese, ha in essere progetti di smart working, più del 14% sta svolgendo azione di scouting per questa tipologia lavorativa, e un altro 17% ha già progettato iniziative e ambiti/settori, per possibili utilizzazioni di lavoro agile. Parliamo quindi di un quasi 50% delle imprese che si sta approcciando concretamente a questa nuova realtà lavoristica.
Discorso però nettamente diverso riguarda il segmento delle aziende italiane medio-piccole, dove è stato calcolato un esiguo 15% di realtà dove si sta sperimentando una qual si voglia tipologia “agile” di lavoro.
Dal punto di vista più prettamente economico, lo smart working, calcola sempre l’Osservatorio del Politecnico di Milano, solo in Italia produrrebbe un incremento di ricavi di circa 27 miliardi e, parallelamente, un risparmio di costi per altri circa 10 miliardi.
Lo smart working, precisiamo, si supporta su un accordo europeo risalente al 16 luglio 2002 recepito in seguito, in Italia, da un accordo interconfederale del 9 giugno 2004, che però riguardava esplicitamente il Telelavoro, pensato per coloro, quali lavoratori, non avevano la possibilità di spostarsi da casa, quasi sempre per motivazioni legate al proprio stato di salute e quindi, per tale ragione, permettere l’esecuzione delle prestazioni fuori dalle mura aziendali.
Questo può definirsi il vero punto di contatto con il “lavoro agile” che è bene dirlo, riveste in se modalità di esecuzione enormemente più elastiche rispetto al vecchio “telelavoro” in quanto si da opportunità di lavorare all’esterno della azienda/Amministrazione, con meno rigidità rispetto a luoghi, attrezzature, spazi dedicati, ecc. anche per un solo giorno a settimana, fino ad un massimo del 50% della complessiva attività lavorativa da svolgere.
Accenniamo però, a questo punto, l’aspetto che si ritiene, tra gli addetti ai lavori, maggiormente problematico sia per il classico telelavoro (in misura maggiore) che sia per il più evoluto e moderno lavoro agile (in misura inferiore).
Mi riferisco al possibile ”senso di isolamento” che si può sviluppare tra chi pratica il lavoro fuori dagli spazi aziendali. Per questa ragione sono stati ideati e realizzati i cosiddetti “spazi di coworking” al di fuori dei plessi lavorativi legali/istituzionali, consistenti in uffici, appartamenti, loft, locati in gruppo, anche tra coloro che praticano professioni ed attività diverse, come anche appartenenti ad aziende/imprese distinte; luoghi questi dove ogniuno svolge il proprio lavoro, ma dove si possono condividere anche esperienze, conoscenze, utilità, possibilmente in modalità trasversale.
Quello dell’isolamento è quindi un aspetto superabile in vario modo, permettendo la creazione e l’interscambio tra lavoratori di diversa estrazione e dipendenza funzionale.
Un’altra caratteristica del lavoro agile, differenziandosi per questo dall’ormai obsoleto telelavoro, è il fatto che si rivolge preminentemente a professionalità maggiormente elevate, anche e soprattutto di tipo manageriale, usando strumenti tecnologici mobili come: smartphone, tablet, notebook, pc portatili, palmari, ecc.
Anche il tema di lavoro per cosi dire “in esterna” è sostanzialmente “fluttuante” e può riguardare uno o più giorni a settimana, alcuni pomeriggi, alcune fasce orarie, ecc. senza alcuna particolare rigidità, relegando il lavoro svolto tradizionalmente al resto del tempo lavorato, insomma i lavoratori dipendenti potranno definirsi “diversamente presenti”.
Passiamo ora ad analizzare alcuni aspetti inerenti la effettiva utilità circa una maggiore diffusione dello smart working. Risulta, di tutta evidenza, che il lavoro agile si configura come opportunità per migliorare i livelli di produttività e al tempo stesso ridurre costi, sia aziendali che dei lavoratori, ottimizzando, al tempo stesso, i tempi e migliorando la qualità della vita dei dipendenti, ed aggiungo, come non secondario, il beneficio a vantaggio della collettività, per il minore impatto ambientale sull’inquinamento e una più fluida mobilità delle popolazioni soprattutto nei maggiori centri urbani/metropoli.
La vera novità però consiste, appunto, in un diverso approccio organizzativo e gestionale del lavoro, scollegando la prestazione lavorativa dagli orari di lavoro, definiti e rigidi, collegandolo invece alla mera qualità misurabile sugli obiettivi fissati e risultati ottenuti.
È quindi altresì evidente che non tutte le tipologie di mansioni possono esplicarsi in tali modalità.
Sempre l’Osservatorio sullo smart working, del Politecnico di Milano, ha calcolato che questa forma di lavoro potrebbe far incrementare la produttività nella misura del 35-40% con una contestuale riduzione del tasso di assenteismo di quasi il 63%.
A questo punto reputo necessario fare un accenno anche al significato che può darsi al cosiddetto “lavoro intelligente” ossia la diretta conseguenza dell’applicazione ed implicazione dello smart working.
Ebbene questo innovativo “sistema” di lavoro contiene in se ricadute rispetto alla revisione degli spazi fisici di lavoro, l’adozione di tecnologie digitali anche per facilitare i cosiddetti spazi di lavoro virtuali, ma soprattutto riguarda il cambiamento della cultura anche “comportamentale” dei vari soggetti umani rispetto un diverso “ambiente di lavoro”.
Revisionare, pertanto, gli spazi lavorativi, sarà la nuova sfida per imprese a amministrazioni, tale da prevedere, per il prossimo futuro, una profonda trasformazione degli “uffici tradizionali”, come oggi si conoscono, che evolveranno, certamente, in contesti fisici, diversamente modulati e quindi più duttili, dove condivisione e versatilità di ambienti ed arredi/attrezzature, saranno imprescindibili.
Da ultimo una necessaria attenzione merita porla, rispetto alle implicazioni dirette scaturenti dal lavoro agile. In particolare mi riferisco a rischi, evidentemente insidiosi, riguardanti la conseguente “totale promiscuità” tra luoghi e tempi lavorativi, rispetto ai tempi dedicati al riposo, al benessere, agli affetti. Il pensiero volge alla conseguente creazione di generazioni di lavoratori definibili “perennemente connessi” in quanto reperibili in ogni momento e luogo, che, per così dire, non staccano mai la spina. Possiamo quindi dire, a ragione, per chiudere relativamente al lavoro agile… “…eppur si muove!…”.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direttore della DTL di Prato.
Seguiteci su Facebook
>