La contrattazione collettiva aziendale in Europa
di Federica Minolfi [*]
Se in linea di principio, e sulla base del solo dato normativo, è possibile ritenere che anche a livello europeo sia il riconoscimento dell’autonomia delle parti sociali ad opera dell’ordinamento statuale a trasformare l’originarietà dell’ordinamento sindacale in vera e propria autonomia[1], diverse sono state le conclusioni sul piano applicativo.
Ripercorse le fasi di evoluzione del dialogo sociale, fino al Trattato di Lisbona, si è rilevato come siano state proprio le nuove disposizioni del Trattato a valorizzare il ruolo dell’autonomia collettiva: l’art. 152 TFUE determina uno “spostamento qualitativo della natura del dialogo sociale verso una maggiore autonomia”[2] e gli accordi collettivi “volontari” e “autonomi” offrono un formale riconoscimento al dialogo sociale “autonomo”, lì dove l’art. 155 TFUE al tradizionale “procedimento integrato” affianca una forma di contrattazione collettiva rimessa alla volontaria attuazione delle parti[3].
Tale conclusione è pero smentita sul piano attuativo. Da un lato, la maggiore parte degli accordi collettivi europei continua a collocarsi nell’ambito del “procedimento integrato”[4], dall’altro la giurisprudenza della Corte di Giustizia conferma la tradizionale estraneità all’ordinamento europeo di una nozione di “autonomia collettiva”. Anche il riconoscimento di efficacia giuridica vincolante della Carta di Nizza ad opera dell’art. 6 TUE non è riuscito a determinare un cambiamento di rotta nella ormai consolidata giurisprudenza della Corte[5], alterando il bilanciamento tra diritti sociali e libertà economiche[6]. I diritti sociali, e in particolare il diritto di contrattazione collettiva, continuano a soccombere nel bilanciamento con le libertà economiche[7]. Vi è una funzionalizzazione dei contratti collettivi a legittimi obiettivi di politica sociale: i “contratti collettivi autonomi”, se non funzionalizzati al perseguimento di obiettivi comunitari, lo sono a obiettivi di politica sociale in virtù del bilanciamento con le libertà economiche. È allora l’ingerenza statuale della Commissione a impedire la configurazione di qualsivoglia ordinamento intersindacale europeo.
L’unica forma di contrattazione collettiva che continua a sopravvivere è quella consultiva o concertativa[8], da cui la debolezza della contrattazione collettiva europea che non è mai riuscita ad affermarsi quale autonomo livello di negoziazione. Un’articolazione contrattuale su più livelli avrebbe consentito di salvare uno dei tratti essenziali del modello sociale europeo, il contratto collettivo, che con i margini di flessibilità che in grado di offrire avrebbe rappresentato un valido strumento per rispondere alla crisi economica e alla globalizzazione dell’economia.
Sono stati numerosi gli strumenti predisposti dai singoli ordinamenti nazionali per rispondere alla globalizzazione e alla pressione competitiva e, tanto nell’ordinamento francese quanto in quello italiano, si è trattato di riforme dirette a introdurre dosi di maggiore flessicurezza nel lavoro. Si assiste, pertanto, allo spostamento delle competenze negoziali a livello aziendale e al diffondersi di una negoziazione in deroga agli standard nazionali. Al riguardo, è stata rilevata una convergenza tra i diversi sistemi europei di relazioni industriali nella comune tendenza al decentramento contrattuale, fenomeno aumentato con la crisi finanziaria ed economica del 2008 e diffusosi in risposta a input che le istituzioni europee hanno adottato anche con atti “atipici”, come l’ormai famosa lettera della Banca Centrale Europea o il cd. Patto euro-plus[9].
Nel sistema francese lo Stato ha avuto tradizionalmente un ruolo determinante per l’individuazione di livelli, soggetti e condizioni di validità degli accordi[10]. Lo Stato interviene in Francia su materie che in altri ordinamenti, primo fra tutti quello italiano, sono riservate alla competenza delle parti sociali. Tale potere discende direttamente dalla Costituzione, pertanto il legislatore è il solo competente a dettare i principi fondamentali in materia di diritto sindacale, tra cui il diritto dei lavoratori alla negoziazione collettiva; potere che non può delegare alle parti salvo disconoscere la sua stessa competenza.
Dopo aver ripercorso le tappe fondamentali del sistema e le difficoltà storicamente incontrate dalla contrattazione aziendale per affermarsi, l’attenzione è caduta sugli strumenti predisposti al fine di incentivare la contrattazione aziendale, a partire dalle leggi Auroux del 1982 che, oltre ad aver istituito un obbligo annuale a negoziare a livello d’impresa, hanno introdotto gli accordi in deroga. Per la prima volta il sistema francese si apre alla possibilità di apportare deroghe al contratto di livello superiore ad opera di quello inferiore, sebbene limitatamente alle clausole salariali.
Con le leggi Auroux si è aperta una breccia nel sistema francese, realizzando un vero e proprio sisma che sarà ripetuto prima nel 2004 e poi nel 2008[11].
La riforma del 2004, recependo la Position commune del 16 luglio 2001, ha consentito di superare il limite del principio del favor. Il legislatore si limita a introdurre un principio di sussidiarietà, principio che può perfettamente coabitare con quello di gerarchia, poiché si tratta solo di intendere in maniera diversa il tradizionale sistema gerarchico[12]. L’intento della riforma del 2004 è solo quello di modificare il criterio che governa il rapporto tra le fonti, criterio individuato nella sussidiarietà.
È vero che si afferma una nuova forma di regolazione delle relazioni di lavoro, l’assenza di uniformità, ma ciò avviene sul presupposto che la tutela è tanto più effettiva quanto più gli agenti negoziali sono vicini alla realtà da regolare: è il livello decentrato, d’impresa o di stabilimento, che consente di adattare la normativa uniforme, legale o contrattuale, alle specifiche condizioni di lavoro.
La decentralizzazione del sistema non avviene ancora a discapito della centralità della contrattazione nazionale che continua a rappresentare il perno del sistema, sebbene il suo ruolo sia parzialmente indebolito. È pur sempre dai contratti di settore che dipende l’apertura di nuovi spazi in favore della contrattazione aziendale: il silenzio del contratto nazionale sul punto legittima l’accordo d’impresa a derogarvi. Tale scelta ha però integrato una delle cause della sfortunata esperienza applicativa della legge del 2004[13].
Se la riforma del 2004 si era limitata a sostituire il criterio di regolazione del conflitto tra contratti di diverso di livello senza intaccare il principio di gerarchia, nel 2008 si configura una vera e propria suppletività dell’accordo di settore rispetto a quello d’impresa, con la conseguente rimozione del criterio gerarchico: la riforma del 2008 fa dell’accordo d’impresa il nuovo centro di gravità del sistema[14]. La legge affida direttamente determinate materie alla competenza della contrattazione decentrata, prevedendo che quella nazionale non intervenga che in via suppletiva.
La legge poi realizza una vera e propria rifondazione del diritto sindacale[15], intervenendo sui criteri di rappresentatività. La riforma non si limita ad aggiornare le regole sulla legittimità degli accordi collettivi, modificando il criterio maggioritario già introdotto nel 2004, ma aggiorna anche i requisiti di rappresentatività sindacale[16], rimuovendo quella presunta. Ora anche le organizzazioni sindacali che fanno parte del cd. Club des Cinqu, nonché i sindacati ad esse affiliati sono tenuti a dar prova della loro rappresentatività.
La riforma del 2008, trasformando i due criteri della majorité d’engagement e della majorité d’opposition da alternativi in cumulativi e abbassando la soglia di rappresentatività da soddisfare nel primo caso dal 50 al 30%[17], è riuscita a rimuovere alcune delle maggiori debolezze della riforma del 2004. Ora è direttamente la legge a individuare il criterio in base al quale deve essere valutata la legittimità o meno degli accordi d’impresa, sottraendo ai contratti di settore quel ruolo di coordinamento che gli stessi si erano dimostrati del tutto incapaci di svolgere[18].
La legge del 2008 è riuscita a incentivare effettivamente la contrattazione aziendale che inizia finalmente a toccare materie nuove, prima fra tutte l’occupazione[19].
Infine per l’ordinamento italiano, dopo aver brevemente ricostruito l’evoluzione di dottrina e giurisprudenza[20] sulla natura collettiva del contratto aziendale, la sua configurazione quale autonomo livello di negoziazione[21] e ripercorso gli snodi fondamentali del sistema contrattuale tra momenti di decentramento e “ricentralizzazione”, si è posto l’accento sugli strumenti predisposti dalle parti sociali al fine di incentivare la contrattazione aziendale.
È a partire dal Protocollo del 23 luglio 1993 che le parti, pur mantenendo una struttura centralizzata, iniziano a introdurre mezzi diretti a incentivare la contrattazione aziendale, tra cui i cd. premi per obiettivi mediante i quali legare l’andamento della retribuzione alla produttività d’impresa e incentivare la negoziazione aziendale per il tramite di un regime contributivo-previdenziale più favorevole.
Il mezzo più rilevante è rappresentato dall’introduzione, una volta entrato in crisi il Protocollo, delle cd. “clausole d’uscita” dal contratto nazionale. Tali clausole, già emerse in alcune prassi contrattuali e riconosciute dalla giurisprudenza, sono state dapprima inserite nelle proposte di riforma del sistema contrattuale[22] e poi riconosciute formalmente dall’Accordo quadro e Accordo Interconfederale del 2009[23], e successivamente dall’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 e dall’art. 8 della legge n. 148/2011[24].
Partendo dalla riforma del 2009 si è cercato di verificare se tali clausole siano riuscite effettivamente a stimolare la contrattazione aziendale. L’attenzione è stata rivolta anche ad altri strumenti predisposti al medesimo fine, tra cui i premi di produttività, quale forma più evoluta dei premi per obiettivi, cui ora si collegano sgravi non solo contributivi ma anche fiscali. Si conferma pertanto l’utilità di legare gli incrementi retributivi al raggiungimento di determinati obiettivi di produttività/qualità o di redditività/competitività concordati tra le parti, e ciò senza che si faccia più alcun riferimento al livello nazionale perché ora la competenza in materia è riconosciuta unicamente al contratto aziendale. Diversamente, l’introduzione del cd. “elemento economico di garanzia” ha finito per disincentivare la contrattazione aziendale a causa della sua esigua entità.
Le conclusioni non sembrano essere smentite neppure dalle prassi esistenti: spesso le possibilità aperte dall’Accordo quadro, che avrebbero potuto condurre a una maggiore diffusione della contrattazione aziendale, vengano ridimensionate dall’Accordo interconfederale che in sostanza finisce per riconfermare il sistema previgente, come nel caso della clausola di congelamento delle prassi esistenti. In alcuni casi l’Accordo interconfederale irrigidisce ulteriormente il sistema, ciò vale ad esempio per la clausola di non ripetibilità che come nel 1983 viene estesa a tutte le materie e istituti già disciplinati dal contratto nazionale, o per l’uso del termine “delegate” al fine di individuare le materie di competenza della contrattazione decentrata.
Nello specifico, l’Accordo quadro autorizza “specifiche intese modificative” della disciplina di categoria al ricorrere di ipotesi e condizioni piuttosto ampie. L’Accordo interconfederale, riprendendo sul punto alcuni dei criteri già previsti dalle ipotesi di accordo, restringe nuovamente le ipotesi di legittime intese modificative e le limita alla sola sede territoriale. La circostanza sembra essere dettata dall’esigenza di porre un freno o un rimedio all’operazione del tutto “agiuridica” realizzata dalla Fiat, che dapprima aveva firmato degli accordi aziendali in deroga, peraltro di dubbia legittimità giuridica, e poi aveva scelto la via hard della fuoriuscita dal sistema confindustriale.
È stata proprio la vicenda “Fiat” a mettere in luce la debolezza del sistema italiano che, prima ancora di una nuova struttura contrattuale, necessita di regole sulla rappresentatività sindacale. Sul punto è poi intervenuto l’Accordo interconfederale del 2011 che, oltre a confermare le clausole d’uscita, ha dettato i tanto auspicati criteri di misurazione della rappresentatività sindacale cui poter collegare l’efficacia generalizzata dei contratti aziendali. A tal fine, l’Accordo introduce un principio maggioritario riferito in un caso al consenso maggioritario delle RSU, nell’altro alla composizione delle RSA integrata dalla volontà maggioritaria dei lavoratori mediante referendum.
I nuovi criteri di rappresentatività sono stati in effetti confermati dal successivo art. 8 della legge n. 148/2011 che però, facendo solo un generico richiamo al principio maggioritario, ha posto non pochi problemi applicativi. L’art. 8, lungi dal configurarsi quale mera legislazione di sostegno alla contrattazione collettiva come auspicava già da qualche tempo la dottrina[25], ha esteso i risultati dell’Accordo interconfederale ben al di là del settore industriale e delle ipotesi contemplate dalle parti. Il legislatore ha esteso i criteri di rappresentatività, cui è legata l’efficacia erga omnes, a tutti i soggetti legittimati alla stipula dei cd. “contratti di prossimità”, comprese le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, delle quali non si comprende quale debba essere il parametro per misurarne la rappresentatività. L’Accordo, infatti, lasciava del tutto aperta e irrisolta la questione dell’efficacia erga omnes a livello nazionale, facendo riferimento per tale livello alla sola legittimazione negoziale.
Per le “intese modificative”, è vero che l’Accordo interconfederale conferma la possibilità di derogare alla disciplina nazionale al ricorrere di crisi aziendali o grandi investimenti, ovvero in un numero amplissimo di casi, ma tale eventualità è ora condizionata alla preventiva autorizzazione a livello nazionale o alla presenza delle organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle Confederazioni firmatarie dell’Accordo. Il coordinamento affidato al livello di categoria scompare del tutto nell’art. 8, ove le intese modificative non sono più condizionate ad alcuna preventiva autorizzazione o peculiare procedura di approvazione.
La difformità maggiore tra i due testi emerge sicuramente con riguardo alle finalità che legittimano le “specifiche intese”, finalità a tal punto ampie da risultare onnicomprensive fino a ricomprendere la quasi totalità della disciplina del rapporto di lavoro, dalla sua costituzione alla sua estinzione. La deroga viene ora legittimata anche nei confronti della legge: è la stessa legge, come in Francia, a definire direttamente le materie in cui la contrattazione decentrata – in particolare aziendale – è abilitata a derogare a quella nazionale, materie di fatto sottratte alla competenza esclusiva di quest’ultimo livello per essere attribuite legislativamente con una sorta di delega in bianco a quello decentrato[26].
In definitiva, ciò che sembra emergere dalla comparazione sembra essere proprio un progressivo avvicinamento dei due ordinamenti in ordine al diverso grado di giuridificazione dei rispettivi sistemi di relazioni industriali, sebbene in origine molto diversi. Mentre l’Accordo interconfederale del 2011 si inserisce nell’ambito del tradizionale ordinamento intersindacale italiano, l’art. 8 si traduce in un intervento particolarmente incisivo del legislatore in una materia tradizionalmente riservata alle parti sociali. Tale intervento, peraltro, è realizzato in palese contrasto con i risultati positivamente conseguiti dalle parti con gli Accordi interconfederali del 2009 e 2011, traducendosi in un sostanziale disconoscimento dell’autonomia collettiva.
Mentre in Italia si assiste alla crisi della nozione di autonomia collettiva, in Francia invece, ordinamento cui era estranea una nozione di autonomia collettiva, è stato valorizzato il ruolo delle parti sociali nella definizione del nuovo sistema di relazioni industriali. In Italia una soluzione per uscire dallo stallo in cui si trova oggi il sistema contrattuale potrebbe essere offerta dal recupero della concertazione, abbandonata dal 2001, che sull’esempio francese potrebbe condurre alla definizione di un sistema maggiormente coerente. In Francia, infatti, è stato proprio il ruolo assunto dalle parti nella definizione del sistema a favorire un crescente ricorso agli accordi d’impresa. Sempre sull’esempio della vicenda francese, ciò che oggi sembra necessario in Italia è intervenire in maniera decisiva sulla rappresentatività sindacale, a tutti i livelli. Solo nel momento in cui il legislatore francese ha scelto di intraprendere la strada di una vera e propria rifondazione della democrazia sociale, si è raggiunta una effettiva diffusione della contrattazione aziendale. Se, come sembra, il medesimo obiettivo si vuole raggiungere anche in Italia è allora questa la strada che insieme parti e legislatore devono percorrere.
Note
[1] Cfr. PERUZZI M., La contrattazione collettiva Europea cd. autonoma. Funzioni attuali e possibili inquadramenti teorici, in DLM, 2008, n. 3, pp. 578-580; PERUZZI M., L’autonomia nel dialogo sociale europeo, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 64-68.
[2] Cfr. CARUSO B. – ALAIMO A., Il contratto collettivo nell’ordinamento dell’Unione europea, WP CSDLE “Massimo D’Antona”. INT, n. 87/2011, pp. 21-22; FONTANA G., Libertà sindacale in Italia e in Europa. Dai principi ai conflitti, WP CSDLE “Massimo D’Antona”. INT, n. 78/2010, p. 32.
[3] Cfr. CARUSO B. – ALAIMO A., Il contratto collettivo nell’ordinamento dell’Unione europea, cit., pp. 33, 42-44; FONTANA G., Libertà sindacale in Italia e in Europa, cit., pp. 32-34.
[4] Sono solamente quattro gli accordi collettivi stipulati in base a quanto previsto dalla prima parte dell’art.155 TFUE e tutti “funzionalizzati” alla realizzazione degli obiettivi della Strategia di Lisbona e della Strategia europea per l’occupazione.
[5] Cfr. CGCE 11 dicembre 2007, Viking, in C-438/05; CGCE 18 dicembre 2007, Laval, in C-341/05; CGCE 3 aprile 2008, Ruffert, in C-346/06; CGCE 19 giugno 2008, Luxembourg, in C-319/06.
[6] Anche il cd. Regolamento Monti II del 21 marzo 2012 che avrebbe dovuto dirimere il conflitto nato con le sentenze Viking e Laval ha finito in sostanza per confermare la posizione della Corte di Giustizia.
[7] Cfr. CGCE 15 luglio 2010 Commissione c. Repubblica Federale di Germania (C-271/08), ove ancora una volta e dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Corte, richiamando le sentenze Viking e Laval, riconosce la soccombenza del diritto di contrattazione collettiva di fronte alla libera concorrenza tra imprese.
[8] Al riguardo si sono tracciate le analogie con l’ordinamento francese.
[9] Conclusioni del Consiglio Europeo del 24/25 marzo 2011, Patto euro-plus. Coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza, Bruxelles, 20 aprile 2011 (29.04), EUCO 10/1/11, REV 1.
[10] BEVORT A., JOBERT A., Sociologie du travail. Les relations professionnelles, Armand Colin, collection U, Paris, 2011, p.
[11] DUFOUR C., HEGE A., Evolutions et perspective des systèmes de négociation collective et de leurs acteurs: six cas européens. Allemagne, Espagne, France, Grande-Bretagne, Italie, Suède, IRES, Décembre 2010, pp. 91 ss.
[12] ANTONMATTEI P.-H., «Négociation collective: brève contribution au débat sur la réforme» , in Dr. Social, 2003, n° 1, janvier, pp. 89 e 90.
[13] BELIER G. – LEGRAND H.J., La négociation collective en entreprise. Nouveaux acteurs, nouveaux accords, après la loi du 20 aout 2008, Editions Liaisons, 2011, pp. 270 ss.
[14] JOBERT A., «La négociation collective du temps de travail en France depuis 1982», Dr. Social, n° 4, avril, 2010, pp. 371-373.
[15] Cfr. BARTHELEMY J. – CETTE G., Refonder le droit social. Mieux concilier protection du travailleur et efficacité économique, dF, Paris, 2011.
[16] I cinque criteri di rappresentatività, che ora diventano 7 (v. nuovo art. L. 2121-1 Code du Travail), non erano stati più aggiornati dal 1945.
[17] RAY J.E., «L’accord d’entreprise majoritaire», Dr. Social, 2009, n° 9/10, septembre-octobre, p.889; BELIER G. – LEGRAND H.J., La négociation collective en entreprise, op. cit, p. 209.
[18] RAY J.-E., «Les curieux accords dits majoritaire de la loi du 4 mai 2004», Dr. Social, 2004, n° 6, juin, pp. 593 ss.; RAY J.E., «L’accord d’entreprise majoritaire», cit., pp. 889 ss.
[19] V. BETHOUX E. - JOBERT. A. – SURUBARU A., «Quel renouvellament de l’action syndicale sur l’emploi», in CFDT, n° 107, 2012, pp. 52-58
[20] SANTORO-PASSARELLI F., Nozioni di diritto del lavoro, VI edizione, Jovene, Napoli, 1952.
[21] GRANDI M., Rapporti tra contratti collettivi di diverso livello, in Atti del Convegno AIDLASS del 15-16 Maggio 1981, Giuffrè, Milano, 1982.
[22] ICHINO P., A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino, Mondadori, Milano, 2006.
[23] CARINCI F., Una dichiarazione di intenti: l’Accordo quadro 22 gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali, in RIDL, 2009, n. 2, pp. 177-200; LASSANDARI A., Contrattazione collettiva e produttività: cronaca di evocazioni (ripetute) e incontri (mancati), in RGL, 2009, n. 2, pp. 299-333.
[24] CARINCI F., L’accordo interconfederale del 28 giugno 2011: armistizio o pace?, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT, n. 125/2011; FERRARO G., Il contratto collettivo dopo l’art. 8 del decreto n. 138/2011, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT, n. 129/2011.
[25] MARIUCCI L., Contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale: qualche idea per rilanciare il tema, in Rappresentanza, rappresentatività, sindacato in azienda ed altri studi. Studi in onore di Mario Grandi, CEDAM, Padova, 2005, p. 472.
[26] CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT, n. 133/2011; SCARPELLI F., Rappresentatività e contrattazione tra l’accordo unitario di giugno e le discutibili ingerenze del legislatore, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT, n. 127/2011; PERULLI A. – SPEZIALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”. IT, n. 132/2011.
[*] Assegnista di Ricerca in Diritto del Lavoro Università G. D’Annunzio di Pescara – Vincitrice del Premio Massimo D’Antona 2015.
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