Una dote importante per le relazioni sindacali
Lavoro ed empatia
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Partiamo da un assunto: lavorare è dignità, offre dignità e si estrinseca, concretamente, in quello che possiamo definire nel nostro essere interiore, il “sentimento” del fare, con tutto il suo portato di conoscenze, materiali e immateriali, in una parola dare un’anima al nostro agire produttivo e quindi anche sociale.
Per dare un’anima alle nostre azioni, ed in particolare nei contesti lavorativi, sempre più pregnanti nelle esistenze umane, il processo “empatico” assume un ruolo fondamentale o per meglio dire l’empatia stessa migliora e umanizza i rapporti di lavoro sottostanti.
Al riguardo, lo studioso psicologo statunitense, “Daniel Goleman” afferma, con il suo più famoso volume - Intelligenza emotiva - e nei suoi studi seguenti, che il poter disporre della cosiddetta “intelligenza emotiva” è un elemento fondamentale per aspirare anche ad un elevato successo nell’ambito del lavoro, offrendo contestualmente “benessere lavorativo”.
L’intelligenza emotiva si estrinseca su due piani, uno personale, connesso alla capacità di controllo e quindi autocontrollo di noi stessi, e uno relazionale, connesso al modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri. Questi due aspetti, quindi, si riverberano, inesorabilmente, sul contesto delle nostre vite ed in particolare in ambito lavorativo.
È innegabile che esistono dei fattori/aspetti che conducono gli individui ad avere successo e gradimento nei propri percorsi di vita e di lavoro (sempre più connessi), fattori sia oggettivi che soggettivi. Tra i primi possiamo enunciare: un cursus di studi brillante, una specificità di competenze professionali, l’appartenenza ad una specifica categoria sociale, la provenienza geografica da paesi economicamente sviluppati ed evoluti, ulteriori aspetti aleatori come l’intelligenza e l’aspetto fisico. Tra i secondi fattori, ossia aspetti soggettivi, enunciamo: il carattere più o meno arrogante o irascibile, la capacità di trattare ed intrattenere rapporti con altri soggetti, il saper gestire le proprie emozioni e sentimenti, ecc.
È proprio la “modulazione” di detti fattori, oggettivi e soggettivi, che permettono agli uomini di potersi identificare in situazioni appaganti e/o di successo, rispetto al proprio contesto professionale e lavorativo.
Torniamo a considerare, più puntualmente, il termine “empatia”, che può considerarsi come un insieme di “abilità” nelle relazioni interpersonali. “Essere empatici” rappresenta, sostanzialmente, la capacità di riconoscere i sentimenti altrui, armonizzandoli con i propri, in una sorta di vicinanza emotiva; accettando gli stati d’animo che emergono nelle relazioni interpersonali e di gruppo. E ancora essere empatici, oltre che condivisione di sentimenti rappresenta la concreta valorizzazione degli altri, credere nelle potenzialità delle persone, saper mettere in risalto e potenziare le abilità altrui. Sostenere i vari gradi di autonomia, rispettare le diversità individuali, di religione, razza, ideologiche; poter utilizzare le differenze come una opportunità scevri da ogni pregiudizio di sorta.
Da qui possiamo assumere, come fatto concreto, che nelle comunità sociali esistono soggetti dotati, dualmente, di intelligenza sia di tipo “cognitivo” come anche di tipo “emotivo”.
Ambedue queste intelligenze concorrono alla formazione degli aspetti di tipo relazionale e ciò consente di capire meglio noi stessi ma anche di interagire al meglio con i nostri simili.
Essere “emotivi” in ambito lavorativo può rappresentare una risorsa, spesse volte però esternare le nostre emozioni anziché aiutare può produrre delle penalizzazioni. Avere quindi delle “relazioni sane”, in questo caso, nei luoghi di lavoro, dovrebbe rappresentare l’optimum, creare un clima sereno aiuterebbe certamente il miglior raggiungimento degli obiettivi produttivi.
È indubitabile, ritengo, che il lavoro, qualunque esso sia, si basa, ancorché sulla mescolanza dei classici “fattori produttivi”, di natura economica, anche su un complesso rapporto di relazioni permeate da competenze intrinseche.
In sostanza, il nostro portato cognitivo, ma anche di umanità e quindi di fragilità, deve poter trovare espressione altresì nelle questioni e nei contesti lavorativi oltreché sociali.
Concretamente una “reazione emotiva” che sia però per così dire, modulata, o per meglio affermare, adeguatamente contenuta, può rappresentare per i nostri ambiti lavorativi, tangibilmente formati da colleghi, superiori o sottoposti, un canale conoscitivo del nostro animo e del nostro essere persone, e quindi non semplicemente merce o numeri utili solamente per la produzione.
In sostanza, aprendoci anche con i nostri sentimenti, risulterà più agevole, per gli altri, per il mondo che ci circonda, l’intesa, la comprensione e il venirsi incontro.
Spesso però le emozioni possono apparire talvolta imbarazzanti o peggio intempestive o ancora inappropriate, in altre occasioni, invece, permettono di aprire linee di comunicazioni, altrimenti inattuabili.
Nei contesti lavorativi sarebbe opportuno superare i consueti stereotipi legati alla emotività come il fatto che il semplice pianto denoti una interiore debolezza di carattere; come gli sfoghi di ira una oltremodo insensibilità umana. Ebbene, se tali esternalità di sentimenti fossero moderatamente presenti nel nostro agire, senza eccessi, risulterebbero quali elementi di “normalità”, in un umus naturale di relazioni, lavorative e non, a tutto vantaggio per l’ambito organizzativo in cui operiamo.
Il contesto lavorativo è anche un coacervo di relazioni con persone e ruoli rivestiti, che agiscono in tale ambiente; come anche la ribalta, il palco, dove si esternano elementi più intimi legati a emozioni ed esperienze che inevitabilmente interagiscono e si miscelano con le dinamiche lavorative.
La conseguenza logica è che il posto di lavoro che dovrebbe rappresentare un luogo primariamente di “condivisione” e collaborazione, per eccellenza, può anche diventare, al contempo, posto ideale per esprimere rivalità, gelosie, invidie, prevaricazioni, tali da influenzare negativamente il cosiddetto “clima lavorativo”.
Il lavoro può e aggiungiamo deve essere elemento sul quale riversare parte delle aspettative di vita, conferme del proprio valore professionale, riconoscimento del proprio ruolo ed ambito sociale di appartenenza.
Allo stesso tempo fa emergere anche le capacità dell’individuo/lavoratore di affrontare e risolvere i propri compiti/obiettivi lavorativi in coesistenza, spesso, con realtà frequentemente conflittuali o semplicemente competitive, soprattutto in quei contesti di lavoro dinamici che implicano, obbligatoriamente, attività di gruppo.
Continuando nel nostro ragionamento sugli aspetti positivi offerti, in ambiti lavorativi, dal miglioramento dei nostri canoni empatici, è utile porsi il quesito su come è possibile diventare maggiormente empatici nel lavoro.
In tale contesto (il lavoro) emergono svariati fattori che tendono a provocarci una sorta di emotività negativa, o peggio causarci stress, insoddisfazione, quand’anche frustrazione, o addirittura depressione. Tutto ciò può essere ovviamente combattuto e meglio contrastato.
Nel lavoro, l’“altro”, inteso come collega e non importa in quale scala gerarchica, può essere simpatico o antipatico, collaborativo o meno, disponibile o reticente, burbero o gioviale; tutti aspetti, questi, che però non debbono impedirci di avere l’intelligenza di sapersi collocare su un diverso punto di vista del nostro.
Ciò non vuol dire condividere a pieno il pensiero o essere totalmente in accordo.
Normalmente si tenderebbe a disconoscere tutto quello che si discosta dal nostro pensare, dalle nostre determinazioni. Ma non c’è nulla di più sbagliato di questo. È bene invece sfruttare le capacità che abbiamo di sapersi “contagiare” con gli elementi emotivi e caratteriali degli altri.
Per dirla in maniera semplice spazio all’empatia, ossia la capacità di comprendere, profondamente e/o al meglio, lo stato d’animo dell’altro, quale essere diverso da noi, sia per situazioni piacevoli e/o gioiose, sia per accadimenti dolorosi, come anche per problematiche lavorative.
Capire appieno lo stato d’animo altrui sicuramente genera appunto empatia. Creare sintonia con gli altri può generare, ritengo, i migliori presupposti per il successo e anche gradimento per il proprio lavoro.
Quotidianamente dobbiamo entrare in contatto con persone quali colleghi, collaboratori, direttori, utenza, ecc. e, non capirsi, inevitabilmente, innesca malumori e conflitti. Ovviare alle incomprensioni e dispute è possibile, basterebbe entrare nel mondo dell’altro senza giudizi e preconcetti, saper quindi dare ascolto senza “giudicare preventivamente”.
Si parla sempre più frequentemente di empatia. In ogni ambiente lavorativo, e non, riecheggia questo termine, anche se frequentemente si ha la sensazione che tale locuzione venga usata senza una precisa cognizione di causa, pur riconoscendone l’importanza nei più variegati contesti lavorativi e comunicativi.
Ciò detto, senza dimenticare, però, che oggi si vive in un tempo in cui si fanno sempre più rarefatte le occasioni di incontro, dello stare insieme, del comunicare e scambiare idee, e anche gli ambiti lavorativi stanno subendo delle rapide trasformazioni.
Verifichiamo l’esistenza di sempre meno luoghi fisici comuni, dove produrre beni e servizi, che vengono progressivamente soppiantati dalle reti intranet ed internet, dall’uso massivo di mail e poste elettroniche certificate, dalle applicazioni su e per social media, dove corsi, seminari, briefing, sono sempre più spesso svolti e somministrati a mezzo videoconferenze, dove il telelavoro e lo smart working vengono rivalutati ed intrapresi alla luce dell’abbattimento dei costi economici.
A questo punto permettiamoci una “asserzione” che è anche il titolo del presente contributo, vale a dire “lavorare è anche sentimento”. Ebbene, enunciare il sentimento quale attributo del nostro operare, in ambito lavorativo, rappresenta lo sdoganamento dell’agire umano di per se non esclusivamente economico o almeno parzialmente psicologico e per questo anche empatico.
Empatia quindi caratterizzata come competenza distintiva, a cui non si può rinunciare, al fine di qualsiasi ruolo lavorativo, professionale, sociale. Quando parliamo di empatia, pertanto, è giusto indicarla come una preziosa abilità sociale, una competenza da detenere, uno strumento indispensabile per una efficace e positiva gestione dei rapporti, soprattutto quelli di natura lavorativa e organizzativa manageriale.
Prendendo spunto dai precedenti passaggi mi accingerei, coraggiosamente, ad una affermazione, che può essere anche però un interrogativo; vale a dire che “l’empatia può essere il mezzo per salvare (o meglio salvaguardare) il lavoro umano”. Cerchiamo di spiegarci meglio.
In una epoca che possiamo assumere come post industriale o forse anche post tecnologica o per meglio dire ultra tecnologica, dove l’impatto delle nuove tecnologie, sul lavoro e l’occupazione umana, rende l’agire dell’uomo sempre più dematerializzato, delocalizzato, destrutturato, e dove il manufatto è sempre più per così dire, “tecno-fatto”; dove la componente creativa si sostanzia e prende forma grazie all’uso di tecnologie telematiche, dove la stessa diffusione e distribuzione delle produzioni segue frequentemente le vie immateriali del web; ebbene in tale nuovo universo economico-produttivo, l’uomo, per non relegarsi ad un ruolo marginale, necessariamente dovrà seguire traiettorie per dire storiograficamente di “rinascimento sociale”, anche per poter scongiurare il rischio di pervenire ad una possibile “irrilevanza economica”.
Riscoprire quindi, ruoli e compiti sociali, abilità dell’intelletto, al di sopra e oltre i parametri produttivi che sempre più vanno verso una economia fortemente automatizzata.
È necessario quindi riscoprire il “desiderio di contatti umani” facendoli contaminare e riflettere sulla nostra economia di nuovo millennio, in modo da poter rendere l’interazione umana (possibilmente maggiormente empatica) non marginale, ma anzi essenziale per le transazioni/produzioni economiche.
È anche giusto significare che i cosiddetti “bisogni economici” possano essere soddisfatti, possibilmente, in maniera esaustiva, ineludibilmente, da esseri umani, in quanto tali.
«Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io» (Luigi Pirandello).
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direttore della DTL di Prato. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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