Un settore da valorizzare
La conciliazione nell’Ispettorato Unico del Lavoro
di Carla Lombardi [*]
È ormai chiaro il quadro complessivo della manovra che il Governo ha progettato per riformare la materia del lavoro. In questo momento, in esecuzione della legge n. 183/2014, stiamo assistendo alla creazione di una struttura organizzativa interna che le Direzioni territoriali del Lavoro sono chiamate a realizzare con un notevole impegno burocratico, ma che è destinata ad esser soppiantata, nel giro di pochi mesi, dalla nuova organizzazione dell’Agenzia dell’Ispettorato del Lavoro. È evidente che il “core business” degli Ispettorati territoriali sarà l’attività di vigilanza, ma è anche necessario sottolineare come le altre attività non possano essere abbandonate o messe in secondo piano, anche alla luce delle recenti novità contenute nei decreti attuativi della legge n. 183/2014, rispetto ai quali, finora, l’Amministrazione del Lavoro è stata particolarmente avara di indicazioni.
A partire dal mese di marzo 2015, infatti, tanti sono i provvedimenti di riforma entrati in vigore e la mole di norme che li sorreggono rischiano di vanificare lo sforzo del legislatore di dare ordine e trasparenza alle materie trattate.
Tante e forse troppe sono, infatti, le novità introdotte dai predetti provvedimenti legislativi e ciò non facilita nell’immediatezza il compito demandato all’operato che dovrà affrontare la pratica attuazione di tali norme prima fra tutte quelle che riguardano la riforma del licenziamento.
Di tale istituto si è ampiamente scritto e discusso in ordine alla bontà o meno delle norme chiamate a disciplinarlo. Le novità apportate all’art. 18 della legge n. 300/1970 in tema di licenziamento sono state analizzate, sviscerate, rivoltate ed interpretate secondo il gusto e l’opinione politica.
Diversamente, poca attenzione sembra essere stata posta alla conciliazione che pure, accettata, malgrado o non, la nuova disciplina del licenziamento, potrebbe costituire, e questa sembra essere l’orientamento del legislatore, il luogo ove trovare valide soluzioni al paventato licenziamento.
Ovviamente mi riferisco alle conciliazioni che possiamo definire “su base volontaria” che differiscono nettamente dalla conciliazione monocratica prevista dal D.Lgs. 23/4/2004, n. 124, art. 11 che è indotta dalla richiesta d’intervento del lavoratore del servizio ispettivo della Direzione Territoriale del Lavoro e costringe, nella maggior parte dei casi, il datore di lavoro a transigere al fine di evitare l’accesso ispettivo.
Qui sarà trattato il tema delle conciliazioni che avvengono nelle commissioni costituite ai sensi dell’art. 410 cpc e dell’art. 76, del D.Lgs. n.276/2003.
Si tratta di Commissioni che, poco conosciute nell’ambito del servizio ispettivo, e che si potrebbero definire di “nicchia” rispetto alla sua più conosciuta e temuta conciliazione monocratica, sono, in realtà, molto attive e sempre più chiamate ad intervenire in un momento in cui lo stato della giustizia del lavoro non può certo dirsi soddisfacente, con tempi dilatati in modo incontrollato fino ad assumere dimensioni inaccettabili.
A partire dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella G.U. avvenuta il 6/3/2015, n. 54, il D.Lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 all’art. 6 ha dato nuovo volto a tali Commissioni, prevedendo una nuova procedura di conciliazione da espletarsi presso le predette Commissioni per i lavoratori assunti e licenziati dopo tale data; procedura che ha operato una rottura normativa con quella conciliativa prevista dall’art. 1, comma 40 della legge n.92/2012.
Per i lavoratori, infatti, assunti precedentemente al 7 marzo 2015 continuerà ad applicarsi nel caso di licenziamento per motivo oggettivo in aziende con più di 15 dipendenti, la procedura di cui alla legge n.92/2012, mentre una diversa procedura è prevista nel caso di licenziamento di lavoratori assunti con contratto c.d. “a tutela crescente”.
Preliminarmente si deve affermare che l’unico elemento che accomuna entrambe le procedure è dato dal ricorso all’istituto della Conciliazione con il preciso scopo di deflazionare il carico pendente dinnanzi ai tribunali chiamati a risolvere controversie che in molti casi potrebbero definirsi con una opportuna dose di buon senso.
Al di là di tale comunanza varie sono le differenze. In primo luogo diverso è il campo di applicazione, la procedura prevista dalla legge n. 92/2012, infatti, trova ambito esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo con l’ulteriore limite dato dal numero dei dipendenti dell’azienda, superiori a 15, laddove il campo di applicazione della nuova procedura si estende a tutti i licenziamenti di qualsiasi natura ma sempre per coloro che sono stati assunti dopo il 7 marzo 2015 o per quei lavoratori che assunti in precedenza in aziende che dopo l’entrata in vigore del decreto supereranno la soglia di 15 dipendenti.
Inoltre, ulteriore differenza la si rinviene nella obbligatorietà del ricorso alla Commissione di Conciliazione nel licenziamento per motivo oggettivo, rispetto alla facoltà data, dalla nuova disciplina, al datore di lavoro di offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, … un importo…, per cui si è parlato di conciliazione volontaria.
A ben riflettere, però, tale differenza, a parere della scrivente, è soltanto apparente in quanto l’integrazione prevista di una ulteriore comunicazione rispetto alla cessazione obbligatoria telematica del rapporto di lavoro prevista dall’art. 4 bis del D.Lgs. n.181/2000 e successive modificazioni ed integrazioni, in cui il datore di lavoro deve indicare l’avvenuta o la non avvenuta conciliazione e la individuazione di un’altra sanzione amministrativa dello stesso importo di quella prevista dal citato art.4 bis nell’ipotesi in cui, entro 65 giorni dalla cessazione del suddetto rapporto, tale comunicazione non venga effettuata, comporta conseguentemente una obbligatorietà indiretta o al più un onere a carico del datore di lavoro volto ad evitare l’applicazione della sanzione.
È vero che in tal caso il legislatore sembra voglia sanzionare una violazione di comunicazione di tipo formale e non sembra essere interessato a collegare la sanzione al mancato espletamento del tentativo di conciliazione, ma “l’avvenuta o non avvenuta conciliazione” induce a pensare ad un comportamento concludente che la parte datore di lavoro è tenuta ad osservare se vuole definitivamente evitare l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore.
L’offerta di conciliazione di cui all’art. 6 del D.Lgs. n.23/2015 non investe, però, soltanto la Commissione di Conciliazione di cui all’art. 410 cpc e la procedura prevista ai sensi dell’art. 411 cpc, ma va oltre ed investe anche la Commissione di Certificazione, nel tentativo di dare nuova linfa ad un istituto che non ha avuto nella pratica molta diffusione.
In verità, nulla sembrerebbe innovato rispetto al compito che il legislatore ha demandato alla Commissione di Certificazione. Si è qui sempre in presenza di un contratto di lavoro che certificato dalla Commissione sia oggetto di opposizione; rimedio questo dell’opposizione che potrà essere promosso soltanto a seguito di tentativo di conciliazione presso la Commissione ex art. 410 cpc che, in questo caso, il legislatore ha previsto come obbligatorio.
Il richiamo che il legislatore ha operato dell’istituto della certificazione nell’art 6 del richiamato D.Lgs. n.23/2015, rimarrebbe così ancorato alla sua funzione originaria, ossia alla funzione deflattiva del contenzioso. La certificazione è definita, infatti, una speciale procedura finalizzata ad attestare che il contratto che si vuole sottoscrivere abbia i requisiti di forma e contenuto richiesti dalla legge. È una procedura a carattere volontario, può essere eseguita solo su richiesta di entrambe le parti lavoratore e datore di lavoro e ha lo scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione di tutti i contratti di lavoro.
Senonché l'art. 3 del successivo D.Lgs. n.81/2015, modificando l’art. 2013 c.c. che prevedeva il divieto di modifica in pejus delle mansioni, ha previsto il patto di demansionamento, cioè la possibilità di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Tale accordo deve, però, essere stipulato nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle Commissioni di Certificazione. Cambia allora la prospettiva, in quanto la Commissione di Certificazione pur essendo chiamata a deflazionare il contenzioso, svolge il compito primario di garantire la conservazione dell’occupazione, compito che in effetti quasi mai svolge la Commissione di Conciliazione nella procedura prevista dall’art. 410 cpc. chiamata a dirimere altri tipi di conflitti (differenze retributive, TFR, ecc.).
Si abbandona l’idea della certificazione tesa ad accorpare ed incanalare verso schemi negoziali tipici e regolari tipologie di forme di lavoro irregolare e contra legem e si sostituisce la “deflazione” con la “conservazione del posto di lavoro” a condizioni derogatorie dei requisiti di forma e contenuto richiesti da una legge ormai superata.
D’altronde già l’art. 76, del D.Lgs. n. 276/2003 assegnava la competenza alle sedi di certificazione di certificare le rinunzie e transazioni di cui all'articolo 2113 del codice civile a conferma della volontà di dare valore alla intenzione abdicativa o transattiva delle parti stesse.
Oggi la Commissione di Certificazione è chiamata a svolgere diversi compiti: modifica da parte del datore di lavoro delle clausole elastiche nei contratti part time (il datore di lavoro, con preavviso di 2 giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata, nonché la misura massima dell'aumento, che non può eccedere il limite del 25% della normale prestazione annua a tempo parziale).
Con l'abrogazione del contratto a progetto, le parti possono richiedere alle Commissioni di certificare la genuinità, cioè l'assenza di quei requisiti che invaliderebbero l'autonomia del rapporto di lavoro, in particolare la mancata ingerenza sui tempi e sul luogo di lavoro da parte del committente, oltre al carattere non personale e non continuativo delle prestazioni. Dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretizzano in prestazioni di lavoro personali e continuative, le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
L'art. 54 del D.Lgs. n.81/2015 prevede che al fine di promuovere la stabilizzazione dell'occupazione mediante il ricorso a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, nonché di garantire il corretto utilizzo dei contratti di lavoro autonomo, a decorrere dal 1° gennaio 2016, i datori di lavoro privati che procedano alla assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto e di soggetti titolari di partita IVA con cui abbiano intrattenuto rapporti di lavoro autonomo, godono dell'estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all'erronea qualificazione del rapporto di lavoro, salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente all'assunzione. Presso le sedi di certificazione, i datori di lavoro possono stipulare accordi in cui il collaboratore si impegna a non impugnare il pregresso rapporto, a fronte di un obbligo del datore a non recedere (salvo giusta causa o giustificato motivo soggettivo) per almeno 12 mesi.
Alla luce delle suesposte argomentazioni si assisterà, a parere della scrivente, con particolare riferimento alle Commissioni attivate su base volontaria istituite presso la Direzione Territoriale del Lavoro, da un lato ad una Commissione di Conciliazione di cui all’art. 410 cpc che, su richiesta congiunta del lavoratore e del datore di lavoro o atto di adesione del datore di lavoro, sarà chiamata a definire controversie sorte per omesso pagamento di emolumenti e spettanze dovute e non corrisposte nel corso e/o alla cessazione del rapporto di lavoro ed alleviare quindi il carico di lavoro della magistratura; e dall’altro ad una Commissione di certificazione indirizzata a mantenere in vita il rapporto di lavoro nel rispetto della dignità della persona.
Sarà forse giunto il momento che venga alla luce il fantomatico “codice di buone pratiche”, citato nel D.Lgs. n. 276/2003, con specifico riferimento ai diritti e ai trattamenti economici e normativi dalle quali le parti non possono discostarsi nel tentativo di salvare il posto di lavoro?
[*] Responsabile dell’Area Conflitti di Lavoro della DTL Cosenza. Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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