Il regime dell’appalto e la tutela del lavoratore alla luce delle recenti riforme
di Adele Martorello [*]
Nozione e disciplina lavoristica dell’appalto
L’appalto è il contratto mediante il quale una parte (l’impresa appaltatrice) assume l’obbligo di eseguire un’opera o un servizio a favore di un’altra (la committente) con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, a fronte del versamento di un corrispettivo[1].
Il contratto di appalto è un contratto di impresa che consente al committente di traslare all’esterno il rischio inerente l’esecuzione dell’opera o del servizio che costituiscono oggetto dell’accordo. Tale strumento, soddisfacendo l’esigenza di forza lavoro al di fuori dello schema del rapporto di lavoro subordinato, presenta un quid pluris rispetto al più ampio genus rappresentato dai contratti di impresa. Da questo dato muove l’analisi delle motivazioni sottese al divieto di interposizione nei rapporti di lavoro che ha colpito le forme di destrutturazione dell’impresa. Proprio l’utilizzazione mediata delle prestazioni lavorative altrui ha giustificato il sospetto che il legislatore ha riservato per decenni nei confronti di questo strumento contrattuale. Il rischio che il legislatore ha voluto scongiurare è che l’appalto – soprattutto quello di servizi – possa rivelarsi nella pratica camuffamento formale dell’interposizione e che sotto la forma di appalto si nasconda l’affitto di manodopera.
L’esternalizzazione di fasi del processo produttivo – appaltate a piccole imprese e a loro volta subappaltate a micro-imprese – ritenuta necessaria per la sopravvivenza in mercati fortemente competitivi, ha favorito l’uso scorretto di contratti di appalto e subappalto. Le imprese che hanno un minore potere contrattuale possono essere spinte a stipulare appalti discutibili, il cui basso costo è spesso legato alla riduzione degli standard di trattamento riconosciuti ai lavoratori ove la segmentazione dell’impresa è utilizzata come strumento di frammentazione delle responsabilità nei confronti degli obblighi che discendono dal rapporto di lavoro. A ciò si aggiunge il profilo del mancato rispetto degli obblighi di sicurezza, poiché è stato constatato che le imprese che ricorrono a manodopera irregolare sono anche quelle che presentano maggiori tassi infortunistici, stante la mancanza di un’adeguata formazione e informazione ricevuta dalla forza occupata sulla prevenzione dei rischi sul lavoro. Da qui l’esigenza di definire ancor meglio gli ambiti della genuinità dell’appalto individuati nella definizione codicistica e di rafforzare il meccanismo della responsabilità solidale su tutta la filiera degli appalti.
In ordine al primo punto la giurisprudenza si è ripetutamente misurata con la verifica, nei casi concreti, circa la presenza di un genuino contratto di appalto in contrapposizione, tra l’altro, a forme di mera fornitura di manodopera e ha concluso che la gestione promiscua dei dipendenti dell’impresa committente e di quella appaltatrice, cosi come il coordinamento dei lavoratori impiegati dall’appaltatore da parte di un responsabile aziendale della committente e l’inserimento funzionale del dipendente dell’appaltatore nel ciclo produttivo dell’impresa committente, siano tutti indici che escludono la presenza di un regolare appalto, secondo la definizione dell’articolo 29 del D.Lgs. n. 276/2003.
In questi casi il lavoratore, sul presupposto che si è realizzato un fenomeno di interposizione illecita di manodopera, può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dirette dipendenze dell’impresa committente. In ordine al secondo punto il legislatore prevede la responsabilità solidale di tutti gli attori coinvolti nella catena degli appalti (committente, appaltatore e subappaltatore) per le somme di natura retributiva e contributiva, inclusi i premi assicurativi, dovute per le prestazioni rese in esecuzione dell’appalto. Alla contrattazione collettiva è affidata la possibilità di stabilire deroghe al regime della responsabilità solidale, ma solo con riferimento ai trattamenti retributivi e con esclusione dei contributi previdenziali e assicurativi[2]. Il regime di responsabilità solidale che copre le retribuzioni e i contributi maturati dai lavoratori dipendenti impiegati dall’appaltatore ed eventualmente dal subappaltatore, opera entro il limite di due anni dalla conclusione dell’appalto.
L’evoluzione normativa
La disciplina codicistica in materia di appalto contiene una specifica norma avente ad oggetto la tutela delle posizioni creditizie dei lavoratori impiegati in appalti. Come espresso dalla Suprema Corte, la ratio della norma è “ravvisabile nell'esigenza di assicurare una particolare tutela in favore dei lavoratori ausiliari dell'appaltatore atta a preservarli dal rischio dell'[eventuale]inadempimento di questi[3]”. I dipendenti dell’appaltatore, fermo restando il diritto di rivolgersi al proprio datore di lavoro per la soddisfazione del proprio credito, possono pretendere direttamente dal committente il loro compenso economico, però nei limiti del debito residuo che questi ha nei confronti dell’appaltatore al momento della presentazione della domanda. L'articolo 1676 c.c., funziona nel senso che il committente diviene diretto debitore degli ausiliari dell'appaltatore fino a concorrenza del prezzo di appalto.
La tutela delle posizioni creditizie dei lavoratori disciplinata dal codice civile, così come strutturata, è una tutela molto debole, che non può essere estesa al recupero dei versamenti fiscali e previdenziali omessi dal datore di lavoro. Il legislatore degli anni 60 dello scorso secolo ritenne opportuno affrontare l’esigenza di protezione dei lavoratori mediante l’imposizione di un generico divieto di fornitura di mere prestazioni di lavoro, affidate in appalto o in qualsiasi altra forma[4]. Quest’approccio era coerente con quella che era la struttura imprenditoriale dell’epoca, vale a dire, l’industria manifatturiera di stampo fordista, in cui l’intero ciclo produttivo era eseguito all’interno della stessa organizzazione aziendale. Il divieto di appalto di manodopera e la normativa lavoristica in materia di appalti leciti trovano pertanto la loro ratio proprio nell’intento del legislatore di impedire i fenomeni di sfruttamento parassitario del lavoratore (pseudo-appalti e altre figure d’interposizione). Soggetti terzi che si insinuano nel rapporto tra datore e lavoratore e lucrano sulla differenza tra il salario erogato al prestatore di lavoro e il compenso corrisposto dall’interponente, situazioni in cui la dissociazione tra titolare formale del rapporto ed effettivo beneficiario della prestazione lavorativa, si risolve in un ostacolo al diritto del lavoratore di pretendere il più vantaggioso trattamento che gli sarebbe spettato se assunto direttamente dall’appaltante. Le conseguenze della violazione del divieto erano pesanti, ad una sanzione penale, che consisteva nell’applicazione di un’ammenda a carico dell’interponente e del soggetto interposto – commisurata al numero di giornate lavorative e dei lavoratori impiegati in violazione del divieto, si affiancava una sanzione civile: l’accertamento ex lege di un rapporto di lavoro subordinato nei confronti del soggetto che abbia effettivamente utilizzato la prestazione. La norma in esame supera il limite insito nell’art. 1676 c.c. Il vincolo solidale gravante sul committente non è circoscritto al solo debito che questi ha nei confronti dell’appaltatore al tempo in cui i dipendenti propongono domanda, ma racchiude tutti i diritti economici del lavoratore, indipendentemente, quindi, dal fatto che il committente abbia versato o meno il corrispettivo per l’esecuzione dell’appalto. Tuttavia la disciplina della responsabilità solidale e il vincolo della parità di trattamento ed il rafforzamento della tutela dei lavoratori è limitato ai soli appalti da eseguirsi all’interno delle aziende. A differenza dell’apparato sanzionatorio predisposto dalla legge del ’60, nella legge Biagi non troviamo nessuna norma che sanzioni espressamente i rapporti interpositori in quanto tali. Il legislatore definisce l’appalto per differenza rispetto alla somministrazione, individuando quelli che sono i criteri distintivi tra queste due aree adiacenti. Il nuovo precetto suggerisce, in primo luogo, quelli che sono gli elementi tipici del contratto di appalto – quali indici di regolarità dello stesso, mediante la creazione di un collegamento con l’art.1655 c.c.[5]. L’interposizione illecita è così definita in negativo. Affinché si perfezioni un appalto legittimo, è necessaria la presenza simultanea di due requisiti: l’organizzazione dei mezzi, anche immateriali, che costituiscono il complesso aziendale e la gestione a proprio rischio dell’attività d’impresa. L’interposizione costituisce una fattispecie vietata solo nel momento in cui è lesiva.
L’eliminazione della presunzione d’illiceità dell’appalto prevista dall’ora abrogato art. 1 della legge n. 1369/1960, già mitigata in sede giurisprudenziale per gli appalti labour intensive, rappresenta l’elemento di maggior novità della nuova disciplina. Ma è nel secondo comma dell’art. 29 del D.Lgs. n. 276/2003[6] che il legislatore ha concentrato l’attenzione rispetto alle tutele delle posizioni lavorative degli ausiliari dell’appaltatore, mantenendo e ampliando la regola della responsabilità solidale passiva, gravante su committente e appaltatore, per i trattamenti retributivi e contributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto, superando peraltro la sfuggente distinzione tra appalti interni ed esterni. Il carattere solidale concerne le sole obbligazioni retributive e contributive e non anche il rispetto dei trattamenti normativi. La responsabilità solidale opera entro un determinato limite temporale, fissato in due anni dalla cessazione dell’appalto. Il regime di corresponsabilità è applicabile al solo rapporto che lega il committente all’appaltatore, non trova valenza, nell’ipotesi di frazionamento degli appalti. Il committente non è quindi responsabile dell’adempimento degli obblighi retributivi nei confronti dei lavoratori impiegati nei subappalti, derivanti dalla stessa filiera produttiva in cui è inserito l’appalto principale. L’inapplicabilità del vincolo di solidarietà nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nella filiera degli appalti rappresenta il più grosso ostacolo alla concreta tutela dei diritti dei lavoratori. Il vincolo di solidarietà, inderogabile nella previgente disciplina e applicabile ai soli appalti interni, può essere derogato (anche in in pejus) dai contratti collettivi nazionali, stipulati da associazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative, che possono addirittura escludere l’operatività del principio solidaristico. Le organizzazioni sindacali, in virtù di tale disposizione, possono modellare il vincolo di responsabilità solidale, ampliandone o riducendone l’ambito di applicazione. L’adempimento degli obblighi previdenziali dell’appaltante libera anche l’appaltatore (con diritto di rivalsa sul secondo).
Il comma 911, dell’art. 1 della legge n. 296/2006 – la legge Finanziaria per il 2007 – novella la precedente versione dell’art. 29, sancendo che “in caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”. La responsabilità è estesa a tutto il credito vantato dai lavoratori e non più limitato al debito residuo che il committente ha verso l’appaltatore (e gli eventuali subappaltatori) al tempo dell’istanza. La nuova formulazione dell’art. 29 segna un altro punto a favore dell’effettività della disciplina protettiva dei lavoratori impiegati negli appalti. Tuttavia la normativa ha escluso qualsiasi obbligo solidaristico per le sanzioni civili, in relazione alle quali permane la responsabilità esclusiva del soggetto su cui ricade l’inadempimento[7].
La legge Fornero (92/2012) ha confermato la previsione (introdotta dal Dl 5/2012) per cui il committente convenuto in giudizio unitamente all’appaltatore ed eventuale sub appaltatore può eccepire con la prima difesa utile il beneficio della preventiva escussione del patrimonio del soggetto debitore. Una volta accertata la responsabilità solidale di tutti gli obbligati l’azione esecutiva potrà essere rivolta contro l’impresa committente, solo dopo che sia stato tentato con esito infruttuoso il recupero coattivo nei confronti del debitore principale. In tutti i casi in cui il committente effettua il pagamento del debito (retributivo, previdenziale o assicurativo) potrà esercitare un’azione di regresso nei confronti del coobbligato inadempiente secondo le regole generali.
Il Jobs act riconosce ai lavoratori che operano nell’ambito di un appalto di opere e servizi una particolare forma di garanzia, nel caso in cui si realizzi una successione nella gestione dell’appalto ed essi continuino a prestare servizio per l’impresa subentrante, il diritto di conservare l’anzianità aziendale maturata nel periodo precedente, pur derivando da questa situazione la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro[8]. L’art.48 del D.Lgs. n. 81/2015 in materia di riordino delle tipologie contrattuali stabilisce che, fatte salve specifiche ipotesi definite con decreto del Ministero del lavoro, è vietato il ricorso al lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere e servizi [9].
Regime dell’appalto e “pacchetto depenalizzazioni”
Il pacchetto “depenalizzazioni” ex D.Lgs. n. 8/2016, nell’ambito di una più generale depenalizzazione dei reati in materia di lavoro e previdenza e, in particolare, delle figure di interposizione di manodopera normate ex D.Lgs. n. 276/2003, modifica l’apparato sanzionatorio riguardante l’utilizzo illecito delle missioni del lavoratore presso terzi a titolo di appalto, nel senso che sottrae la violazione in materia di appalto alla adozione del provvedimento di prescrizione obbligatoria ex art. 15 D.Lgs. n. 124/2004 e sostituisce le sanzioni penali con nuove sanzioni amministrative non diffidabili.
Sicché l’aver stipulato un contratto e posto in essere l’esecuzione dell’opera o lo svolgimento del servizio per un appalto illecito, in assenza dei requisiti previsti dalla legge (art. 29, D.Lgs. n. 276/2003) se fino al 5 febbraio 2016 è stato sanzionato con il previgente disposto normativo, ovvero con ammenda pari euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ciascuna giornata di occupazione, con un calcolo di natura meramente matematica (numero lavoratori x numero giorni/lavoro) e, senza alcun limite massimo di pena, a decorrere dal 6 febbraio 2016 la sanzione applicata ha assunto la connotazione di illecito amministrativo punito con una sanzione amministrativa quantificata sempre nelle medesime modalità ma con un minimale che non può essere inferiore a 5.000 euro, né superiore a 50.000 euro, come disposto dall’art. 1, comma 6, del D.Lgs. n. 8/2016. Così nel caso dell’appalto non genuino/utilizzazione illecita (art. 29, comma 1 D.Lgs. n. 276/2003) l’ammenda per l’originario reato era pari ad euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata di lavoro per cui nel caso di un solo lavoratore per 10 giornate si ha una sanzione amministrativa pari a 500 euro (50 x 10), che essendo inferiore all’importo minimo di riferimento, impone come sanzione da irrogare quella di 5.000 euro che in misura ridotta (art. 16, legge n. 689/1981) è pari a 1.666,67 euro; nel caso in cui però la sanzione derivata dal calcolo è superiore a 5.000 euro, si procederà alla determinazione della sanzione ridotta direttamente sull’importo risultante: così se sono interessati 10 lavoratori per 15 giornate si avrà una sanzione di 7.500 euro (50 x 10 x 15), pari in misura ridotta a 2.500 euro.
Il trasgressore o l’obbligato in solido che paga entro 60 giorni dalla notificazione la sanzione in misura ridotta, oltre alle spese del procedimento, consegue l’estinzione dell’illecito (art. 9, commi 5-6, D.Lgs. n. 8/2016). Se invece il trasgressore o l’obbligato in solido non dovessero versare l’importo in misura ridotta, trovano applicazione le disposizioni della legge n. 689/1981, con riferimento alla redazione del rapporto al Direttore della DTL ai sensi dell’art. 17 con presa in carico per l’istruttoria conseguente da parte dell’Area legale e contenzioso, con redazione e notificazione dell’ordinanza-ingiunzione ai sensi dell’art. 18, nella quale, per effetto dell’art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 8/2016, la quantificazione della sanzione ai sensi dell’art. 11 della legge n. 689/1981 dovrà comunque rispettare l’originario limite massimo della pena prevista per il reato depenalizzato.
Regime Intertemporale
Come evidenziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con la circolare n. 6/2016 l’art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 8/2016 sancisce la retroattività delle sanzioni amministrative che sostituiscono le sanzioni penali, stabilendo l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, anche nei riguardi delle violazioni commesse prima del 6 febbraio 2016, se il procedimento penale non è stato definito con sentenza o con decreto irrevocabili.
In particolare secondo le previsioni dell’art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 8/2016 per le condotte illecite poste in essere prima del 6 febbraio 2016 con procedimento penale non definito, il giudice, entro il 6 maggio 2016, trasmette all’autorità amministrativa competente gli atti del procedimento, ad eccezione dell’ipotesi in cui il reato risulti già prescritto o estinto per altra causa a quella stessa data. La circolare n. 6/2016 pone in evidenza la circostanza che nel caso in cui l’azione penale non è stata esercitata, provvede alla trasmissione il pubblico ministero (art. 9, comma 2, primo periodo, D.Lgs. n. 8/2016), mentre se il reato è estinto (a prescindere dalla causa) il pubblico ministero chiede l’archiviazione (art. 9, comma 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 8/2016). Nel caso in cui l’azione penale sia già stata esercitata, invece, il giudice pronuncia sentenza inappellabile (di assoluzione o di non luogo a procedere) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (art. 129 c.p.p.), disponendo contestualmente la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente, mentre in caso di sentenza di condanna già pronunciata, spetta al giudice dell’impugnazione dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato (art. 9 comma 3, del D.Lgs. n. 8/2016). Per la definizione del procedimento sanzionatorio, le Aree Vigilanza delle Direzioni Territoriali del Lavoro devono notificare, mediante il verbale unico di accertamento e notificazione, gli estremi della violazione al trasgressore e all’eventuale obbligato in solido entro e non oltre 90 giorni dalla ricezione degli atti se residenti in Italia, ovvero entro 370 giorni se residenti all’estero (art. 9, comma 4, D.Lgs. n. 8/2016).
In conclusione
La normativa più recente in materia di appalti ha registrato interventi palesemente indirizzati a incrementare le tutele nei confronti dei dipendenti dell’appaltatore attraverso il rafforzamento del principio di solidarietà enucleato nel codice civile, vietando il ricorso al lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere e servizi, garantendo nel caso di successione nella gestione dell’appalto l’anzianità aziendale maturata nel periodo precedente. In tale contesto resta difficile stabilire a priori se la depenalizzazione operata dal legislatore in materia di appalti irregolari avrà come effetto quello di rafforzare le tutele dei lavoratori. Atteso che con la depenalizzazione viene meno anche la possibilità di una successiva regolarizzazione attraverso la adozione della prescrizione obbligatoria ex art.15 D.Lgs. n. 124/2004. Vero è che l’intervento in esame nasce principalmente “con l’intento di liberare le procure da affari di scarsa rilevanza che troppo spesso non trovano sanzione a causa dell’ingolfamento degli affari in ambito penale” ma con la consapevolezza che “la certezza di una sanzione pecuniaria civile di carattere economico abbia più forza di prevenzione e di tutela della persona offesa” [10]. È su questo secondo aspetto che si dovrà far leva per valutare se andare oltre il totem della risposta penale farà registrare in concreto una riduzione delle violazioni, prendendo atto che talora le sanzioni penali sono meno afflittive e spesso meno efficaci di quelle di altro tipo.
Note
[1] Art.1655 c.c.
[2] Art. 9 D.L. n. 76/2013.
[3] Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, massima del 19 marzo 2008, n. 7384.
[4] Legge n. 1369/1960.
[5] D.Lgs. n. 276/2003, art. 29.
[6] Il 2 comma dell’art. 29 del D.Lgs. 276/2003, come modificato dalla legge n. 92/2013, dispone: Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell'inadempimento. Il committente imprenditore o datore di lavoro e` convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali.
[7] Art. 21 DL n. 5/2012.
[8] Art. 27 D.Lgs. n. 23/2015.
[9] Art. 48 D.Lgs. n. 81/2015.
[10] Relazione del Governo al D.Lgs. n. 7/2016.
[*] L’Avv. Adele Martorello è funzionario ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in servizio presso la DTL di Cosenza. Le considerazioni sono frutto esclusivo del libero pensiero dell’autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l`Amministrazione di appartenenza.
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