Fatigare nell’epoca 4.0
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Avviamo queste nostre riflessioni cercando di fornire alcune chiavi di lettura del nuovo modo di concepire e produrre beni e servizi e, quindi, del conseguente, necessario, lavoro dell’uomo, nella attuale tumultuosa società, osservata agli albori del terzo millennio.
Nella accezione più comune si parla di industria, o meglio economia 4.0, riferendosi ad un ripensamento complessivo dei vari processi produttivi che vengono adottati nei vari settori economici che prendono avvio dall’applicazione sistematica di nuove tecnologie.
In primo luogo viene enfatizzato il ruolo e la fondamentalità della conoscenza e gestione dei “dati” e più precisamente la loro raccolta e conseguente analisi valoriale, sfruttando le basi conoscitive dell’agire umano, in un quadro economico globale ed interconnesso con l’uso crescente delle tecnologie.
È giusto individuare la cosiddetta economia 4.0 non limitandosi ad assimilarla ad una mera automazione dei processi della produzione. Questa novella, ulteriore, rivoluzione industriale, della nostra società, basata sul “digitale” tra i vari aspetti novativi, rispetto alle passate tre rivoluzioni, enuncia il rapporto esistente o meglio la “interazione” tra uomo e macchina mettendo in atto, al contempo, un maggiore efficientamento, sia dal punto di vista della produzione, che da quello riguardante l’energia necessaria per produrre.
Per chiarezza rammentiamo che le tre rivoluzioni industriali precedenti sono state: la prima, dopo il 1784, quella del vapore, ossia dell’applicazione dello stesso, alla macchine, sfruttando acqua e vapore, con la diffusione, ad esempio, dei trasporti ferroviari e delle locomotive, nonché delle prime produzioni industriali meccanizzate; la seconda, sul finire del 1800, basata sull’energia elettrica e la elettrificazione ad ampia diffusione, l’avvento del motore a scoppio e l’uso del petrolio, iniziando dalle grandi città europee e statunitensi; la terza, avvenuta negli anni 70 e 80 del 1900, basata sulla crescente automazione, grazie anche al diffondersi della informatizzazione e diffusione dei computers. La quarta rivoluzione, quella che stiamo vivendo attualmente, si basa sulla cosiddetta digitalizzazione dei processi, non soltanto legati alla produzione, ma anche ai servizi alla persona, alle tecnologie applicate all’uomo e all’ambiente.
Certamente l’Industria 4.0 ha con se un portato che gli studiosi sociali, quali: economisti, sociologi, psicologi, antropologi, demografi, statistici, stanno attentamente indagando, come in particolare il problema dei problemi, se possiamo dire, ossia: come impatterà tale rivoluzione rispetto alle ricadute lavorative per l’uomo? O più precisamente, cosa si potrà o dovrà fare per accompagnare la forza lavoro che si troverà soppiantata dalle macchine?
Al riguardo è possibile menzionare una specifica ricerca dal titolo “The future of Jobs” il futuro del lavoro, presentata a Davos al “Word Economic Forum” nello scorso gennaio 2016, per la quale si ipotizza che entro l’anno 2020 si perderanno circa 5,1 milioni di posti di lavoro a causa di un impiego massivo dell’Hi-Tech.
Tale ricerca è basata su un sondaggio/interviste somministrate ai responsabili delle risorse umane, svolto durante la seconda metà del 2015, nei dipartimenti delle R.U. di 371 aziende mondiali presenti in quindici paesi, a marcata industrializzazione, tra cui l’Italia.
Vengono descritti gli effetti della tecnologia sul mercato del lavoro, da più parti. Più nel dettaglio vengono stimate perdite, pari a 7,1 milioni, di posti di lavoro, appunto nelle maggiori quindici economie mondiali, che assommano 1,86 milioni di occupati, pari a circa il 65% della forza lavoro mondiale, parzialmente compensato, questo decremento di 7,1 milioni di persone, dalla creazione di circa 2 milioni di nuovi posti di lavoro definibili ad alto contenuto tecnologico e quindi con un saldo negativo, di occupati, pari a 5,1 milioni.
Motori innovativi, per tale rivoluzione, saranno: l’internet mobile e lo I-Cloud Compiuting, la diffusione dei Big-data e dell’Open-data, il Crowd-sourcing, la Sharing economy, la Gig economy, l’Intelligenza artificiale e la diffusione dei sistemi di stampa 3D, la Biotecnologia e la Telemedicina, ecc. solo per offrire qui alcuni esempi.
Il Report menzionato indica, altresì, quali settori saranno maggiormente interessati dalla creazione di occupazione nei prossimi cinque anni, ovviamente: l’informatica nelle sue varie declinazioni, l’ingegneria, l’architettura anche ambientale e ogni altra attività richiedente competenze matematiche, come pure, al contempo, le diverse aree del management, della finanza e della vendita.
L’avanzamento tecnologico dovrà portare con se, quindi, una riqualificazione permanente ed un affinamento di competenze, sia all’interno delle medesime aziende, e sia pure rivisitando e migliorando, riattualizzando, i programmi scolastici e universitari, cercando magari una maggiore collaborazione tra imprese e istituzioni per la continua ricerca e sostegno dei talenti e delle eccellenze umane.
La domanda che sempre più frequentemente scuote le nostre menti, di addetti ai lavori, è se l’automazione del lavoro, in futuro, pregiudicherà definitivamente i già precari equilibri nella economia mondiale, tra produzione e forza lavoro ad essa necessaria. Quanto e in che misura le macchine sostituiranno i lavoratori, quanti nuovi disoccupati ci saranno a causa della contrazione del lavoro manuale.
Il tutto, però, deve essere letto, come osserva uno dei maggiori esperti di sistemi di produzione, tecnologie e trend tecnologici, il prof. Taisch del Politecnico di Milano, alla luce di come da una mera automazione industriale, si stia passando, progressivamente, ad una “automazione collaborativa e cognitiva”.
Si avranno quindi fabbriche sempre più automatizzate ma anche interconnesse, che si baseranno su big data e creazione di valore, ma ciò sconta ovviamente il bisogno assoluto di ridurre, il così denominato, “Digital divide” che nel nostro Paese rappresenta una aggravante rispetto ad altri paesi economicamente ugualmente evoluti, con i quali bisognerà confrontarsi nel mercato mondiale dei prossimi anni.
È un fatto che nelle fabbriche ci sono generazioni che fanno fatica ad approcciarsi all’uso di strumenti digitali. È un fatto anche che il fenomeno tende ad ampliarsi stante il progressivo aumento dell’età media, di quella pensionabile e quindi il bisogno di maggior accantonamento di contributi previdenziali, nel nostro Paese come negli altri necessario e ineludibile, per garantire la cosi denominata “sostenibilità” del sistema previdenziale collettivo.
Ebbene assisteremo sempre più all’aumento del gap legato alle competenze digitali detenute da nuove e vecchie generazioni, anche nell’ambito lavorativo, come pure un uso difforme degli strumenti informativi e della tecnologia a disposizione delle aziende.
È pertanto fondamentale investire in formazione permanente, ma anche in aggiornamento tecnologico, nelle aziende come nella società. Ciò detto perché, con l’avvento dell’industria 4.0, si apriranno ambiti e produzioni sempre più precise ma al contempo flessibili ed efficienti, non di meno frequentemente orientabili, diminuendo, quindi, di conseguenza, i rischi di impresa circa eventuali produzioni invendute o anche imperfette; ottimizzando, pertanto, l’utilizzo di risorse umane e finanziarie, realizzando prodotti più specifici ed in numeri rilevanti. Avremo, quindi, produzioni in tempi più rapidi e maggiormente rispondenti al mercato.
Una delle tesi particolarmente in auge, nel dibattito economico in atto, è che l’ulteriore sviluppo della robotica e delle nuove tecnologie della digitalizzazione condurrà, fatalmente, ad una crescente e grave perdita di posti di lavoro. Ma non tutti gli studiosi sono però, in assoluto, concordi in questo, e sommessamente anche il sottoscritto si annovera in tale pensiero pur anche minoritario.
Quello che è possibile configurare si lega alla consapevolezza, e quindi ad ipotizzare, in uno scenario prospettico caratterizzato dalla presente e futura economia 4.0, una fattuale, per così dire, “collaborazione” tra uomo e macchina.
Più chiaramente e specificamente la crescente utilizzazione e sviluppo dei robot industriali potrebbe far presagire una quasi automatica e corrispondente contrazione degli attuali livelli occupazionali “umani”.
Ma è già esempio concreto come diverse aziende mondiali hanno messo in uso dei robot in grado di percepire e quindi coesistere con una presenza umana affiancata durante un’attività lavorativa “comune” e di contro un nuovo modo di lavorare ambivalentemente.
L’automazione robotica risulta quindi essere la risposta più immediata per corrispondere, adeguatamente, allo sviluppo nel web dell’e-commerce, soprattutto per garantire una velocizzazione nei processi produttivi, e nei cicli continuativi delle produzione, al fine anche di garantire adeguatamente le distribuzioni massive e globali dei beni.
Come ogni innovazione, così come avvenuto in passato, si darà sfogo certamente alla riduzione o anche addirittura alla scomparsa di alcune professioni, ma al contempo si potrà assistere alla creazione di tipologie di lavoro e/o specializzazioni del tutto nuove e per lo più ad alto valore aggiunto, di tipo creativo ed intellettuale, sconosciute nei decenni passati.
È quindi di tutta evidenza che assisteremo ad un radicale mutamento, direi meglio evoluzione del mercato del lavoro mondiale. Cambierà il tipo di personale richiesto dalle aziende riducendo la cosiddetta domanda di lavoro “Low skilled” aumentando però, al contempo, la domanda di personale specialistico in ambito, ad esempio, della IT Information Tecnology e tecnologico in generale, come pure in data science, in un contesto sempre più globale di Digital Trasformation.
Nel menzionato Report del WEF viene altresì stimato che nel 2020 i lavoratori maggiormente, per così dire appetibili, saranno quelli aventi doti, quali: capacità critica, problem solving, creatività, intelligenza emotiva, negoziazione, flessibilità mentale. Tutte doti, queste, legate profondamente e rilevantemente a professionalità “Higt-skilled”.
Passiamo ora ad esaminare, brevemente, la situazione italiana circa questa nuova rivoluzione industriale 4.0 e di come impatta nell’evoluzione del lavoro. Partiamo da un assunto alla luce di conoscenze dirette di distretti industriali produttivi presenti nel nostro Paese. La ricerca/sviluppo e gli investimenti nelle aziende di casa nostra, anche in considerazione della prolungata crisi economica, sono andati progressivamente riducendosi, lasciando spesso il campo all’azione residuale di “giovani avventurosi” portatori e ideatori di “start up” ed idee innovative applicate a produzioni frequentemente ad alto valore tecnologico.
Quello che però servirebbe maggiormente, per uno sviluppo omogeneo nel nostro Paese, con produzioni all’avanguardia mondiale, dovrebbe essere un ripensamento complessivo dei variegati processi produttivi, partendo da una sistematica applicazione delle nuove tecnologie recentemente sviluppatesi.
Si deve iniziare anzitutto dai “dati” in quanto le macchine devono essere sfruttate rispetto anche alla loro capacità di acquisirli, raccoglierli e analizzarli in quantità enormi.
Potremmo avere una rivoluzione industriale basata sul digitale, immaginando un nuovo rapporto uomo-macchina anche per mezzo di simulazione virtuale dei processi produttivi prima della messa in atto; non semplice automazione ma bensì il perseguimento di un più vasto efficientamento produttivo ed energetico.
Internet of Things - IoT - Domotica
Abbiamo fin ora compreso che Industry 4.0 ovvero quarta rivoluzione industriale sono sostanzialmente sinonimi, come anche similarmente assimilabili alla definizione “IoT” acronimo che sta per “Internet of Things”, Internet delle cose.
Tra gli elementi fondamentali della quarta rivoluzione industriale troviamo, appunto, l’applicazione sistematica della tecnologia IoT, proprio per i processi produttivi svolti su scala globale. Ciò si lega inevitabilmente ad una conseguente rivoluzione nella organizzazione delle aziende che, come precedentemente accennato, vede il nostro Paese, con ancora troppo ridotte capacità di ricerca e specifici investimenti, tra le retroguardie dei Paesi maggiormente industrializzati che hanno, come al solito, la Germania in prima fila, esempio in tal senso può essere certamente il settore della produzione automobilistica.
Altro termine con il quale dovremo sempre più abituarci, nel comune lessico di derivazione IoT, è la cosiddette “Domotica” ossia la traduzione del termine ribaltato sul settore della “tecnologia domestica”. Anche in questo campo dell’economia e quindi dell’industria 4.0, più incentrato ai bisogni e ai consumi delle comunità umane, ci aspettiamo grandi trasformazioni. Assistiamo oggi alla creazione di piattaforme uniche collegate alla rete nella gestione, presso le nostre case, degli impianti di riscaldamento/raffreddamento, l’avvio telematico da remoto degli elettrodomestici, degli antifurti, degli impianti di videosorveglianza, delle apparecchiature bio medicali, degli impianti audio-video ecc. Tutti o quasi apparecchi tradizionali ma dotati di appositi sensori e wi-fi, centraline elettroniche e collegamenti alla rete, interconnessi a piattaforme di coordinamento da noi accessibili on line, o per mezzo di Hub personali
E torniamo quindi anche in questo caso, parlando di gestioni domestiche, a considerare il fondamentale ruolo dei “dati” e la loro applicazione, cosa ancor più articolata e complessa se consideriamo l’ambito industriale e produttivo.
Economia digitale
Parlando di economia digitale o anche di capitalismo digitale, nella quarta rivoluzione industriale a cui stiamo assistendo, viene subito alla mente uno degli aspetti maggiormente identificativi, cioè una elevata disintermediazione, come pure la centralità delle piattaforme digitali e un complessivo riposizionamento dei ruoli che diventano sempre più sfumati di consumatori, imprenditori, dipendenti, lavoratori altri.
Caratteristica dell’Economia digitale è anche la novità introdotta con forme di scambio di beni e servizi denominata “Sharing economy”, mercato e scambi si intersecano velocemente e sempre più frequentemente in maniera decentralizzata, con la sola mediazione di nuovi aggregatori posizionati in specifiche piattaforme digitali, che svolgono solamente un ruolo di intermediazione tra domanda e offerta, ma di più accentrano elementi e “conoscenze collettive” di mercato, implementando i relativi “Big data” quali strumenti dinamici e al contempo di informazioni massive, funzionali all’economia digitale di terzo millennio.
È indubbio che si sta andando verso un aumento di spazi per gli scambi economici dove controllo e organizzazione del mercato diventano sempre più multipolari, e al contempo inediti, scardinando forme di organizzazione e rendendo più efficienti gli investimenti, come anche le valorizzazioni del capitale umano, sempre più “free lance”, orientato maggiormente all’innovazione. Nel nuovo mercato è facile immaginare che crescerà, notevolmente, il divario di capitalizzazione tra imprese tradizionali e le altre della new economy.
È d’obbligo, a questo punto, dedicare l’attenzione sulle ricadute, in ambito lavorativo, di questi iniziali avanposto di “economia digitale” verso cui si stanno orientando molte grandi aziende globali e non solo, quali ad esempio nuove o piccole start up.
Parliamo di imprese che con l’ausilio di piattaforme digitali mettono in contatto la domanda di clienti con una offerta, grazie anche all’ausilio di singoli e/o gruppi di lavoratori utilizzati per prestazioni parcellizzate, vedi: i colossi Amazon, Alibaba, Uber, Apple e le più recenti Foodora, Airbnb, Deliveroo, ecc.
Osservando queste tipologie di lavoro emerge sempre più di frequente una modalità di “subordinazione” rivisitata e aggiungerei creativa, dove loro malgrado, i lavoratori/collaboratori hanno a loro sostanziale carico gli strumenti di lavoro (siano essi bici, moto, auto, smartphone, tablet, palmari, ecc.) facendo si che le aziende possano ribaltare, altresì, tutti gli altri rischi e costi strumentali, sul lavoratore medesimo, come ad esempio l’impossibilità ad operare per malattia o altre cause di impedimento allo svolgimento dell’attività, come pure l’assenza completa di ogni altro vincolo regolamentare e/o contrattuale.
Il rapporto stesso così “destrutturato”, sovente, viene governato dalle aziende, in maniera virtuale, in remoto, ad esempio a mezzo chat. La presente forma di precariato estremo, camufatto da connotati di modernità, contempla che i lavoratori impiegati previo uso di piattaforme digitali, non hanno una sede fisica in cui operano o si ritrovano insieme, (come avviene ad esempio per gli operatori dei call center) facendo si che risulti pressoché impossibile essere contattati, sindacalizzati, formati e informati comunitariamente, riducendosi quindi ad una categoria di persone legate all’azienda di riferimento con una semplice App-applicazione sul proprio smartphone.
Da qui la ragione di legittime istanze e preoccupazioni emerse dal mondo sindacale, associativo, dagli stakeholders e delle rappresentanze in genere che risultano essere sostanzialmente tagliati fuori da ogni forma di collegamento, interposizione, con le masse dei lavoratori come quelle che, per antica memoria, erano presenti nelle fabbriche e negli uffici della Old economy. Si procura, quindi, in tal modo, una sorta di “patologia della solitudine” dei singoli “free workers” sempre più numerosi in questa economia digitale declinata in Gig Economy, ossia tradotta in economia dei lavoretti, esplosa per mezzo del web e della capillarizzazione degli strumenti digitali.
Il rischio tangibile, emerso anche da approfondimenti di studiosi e addetti ai lavori, è che tale organizzazione del lavoro, e metodi operativi collegati per gestire delle risorse umane, unito a condizioni di lavoro totalmente destrutturato, possa assumere connotati di un nascente e rischioso “caporalato digitale”. Ma qui si apre un nuovo capitolo anche dal punto di vista di una cogente e più specifica normazione e contrattualistica, per nascenti tipologie lavorative.
Tornando sulla cosiddetta Gig Economy, appellata verosimilmente e frequentemente come App Economy, ossia più prosaicamente economia dei lavoretti, ci si sta rendendo conto che essa sviluppa una “forza lavoro” sostanzialmente nuova e comunque fatta di uomini e donne, in carne ed ossa, non necessariamente e solamente anagraficamente giovane, spesso di contro, si tratta di persone anche in la con gli anni.
Ebbene, il loro lavoro necessario per assolvere servizi o produrre beni, in modalità “on demand” prevede un modello organizzativo del tutto diverso da quelli conosciuti fino ad oggi, dove la “disgregazione” dei rapporti lavorativi e dei contratti di lavoro diviene una costante, dove domina la “individualizzazione” della prestazione, dove non viene remunerato il tempo di lavoro offerto/prestato, ma bensì la quantità di lavoro svolta, in un “cottimo” estremo
Il costo delle attrezzature con cui si lavora, come prima accennato, sono a carico personale e non dell’azienda, come appunto il mezzo di trasporto: auto, bici, moto; le manutenzioni, le assicurazioni, le spese e i consumi dello smartphone; inoltre se ci si ammala o ci si infortuna, non è prevista alcuna copertura, come non sono contemplati sussidi di disoccupazione per tali tipologie lavorative.
È un fatto, quindi, che tale mercato del lavoro risulti più complesso e articolato, con andamenti incostanti, con picchi durante le giornate o anche le settimane e i mesi di lavoro. I flussi sono governati, come più volte detto, da piattaforme digitali e algoritmi unipersonali, con il fine di intermediare le richieste tra cliente ultimo, fornitore del bene o del servizio, e prestatore di lavoro. Si passa, quindi, evidentemente, da rapporti lavorativi “duali” a rapporti di lavoro ”multipolari”.
I Gig Workers non possono, ne devono, definirsi lavoratori di serie B, o peggio lavoratori per puro hobby, in quanto anche essi svolgono la loro attività, ancorché destrutturata e relativamente free, con meccanismi di reclutamento istantaneo e non certo, con il solo primario bisogno di produrre ma anche per percepire adeguato reddito.
Essi vengono utilizzati fin quando c’è qualcuno che ha un “bisogno immediato” di merce o servizi che vengono garantiti da una azienda che “organizza la forza lavoro” per rispondere efficacemente a tali richieste.
In conclusione mi permetto un passaggio ironico, ma non troppo: un’App non salva una vita, ma anche no… non crea lavoro, ma anche no… ci avvicina maggiormente e rende più prossimi, ma anche no…
ci apre una porta verso il futuro… questo forse si!
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata, Roma, titolare della cattedra di “Sociologia dei processi economici e del lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”.
Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Direttore della DTL di Prato. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
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