L’anno che verrà
di Fabrizio Di Lalla [*]
Finalmente ci siamo lasciati alle spalle le votazioni sul referendum. Non se ne poteva proprio più dopo mesi di scontri politici degni di miglior causa, come se, in altri termini, fosse in gioco il futuro dell’Italia che, come tutti sappiamo, è strettamente legato e messo in pericolo dalla difficile, lunga crisi economica. Il contrasto tra i vari gruppi e partiti politici che parteggiavano per l’una o l’altra soluzione, con i loro corifei seguiti da imbonitori senza scrupoli, vessilli logori e sdruciti e slogan inutili e inadeguati se non addirittura menzogneri ha paralizzato la vita politica come se una società che si dibatte in una crisi esistenziale che investe non solo l’aspetto economico, non avesse bisogno d’altro. In testa a tutto questo frastuono, le televisioni pubbliche e private hanno svolto il ruolo di mosche cocchiere con i loro servizi diffusi giorno e notte fino alla nausea, come se stessero commentando la prossima fine del mondo.
È questa a parer mio la dimostrazione che il gruppo dirigente che ha il controllo delle leve del Paese si sta allontanando sempre più dalla vita reale e dalle esigenze concrete della gente. Un elemento importante sicuramente ma non decisivo per le sorti della società, quello della modificazione relativa ad alcuni aspetti della nostra costituzione, che avrebbe richiesto un dibattito pacato sul contenuto, è stato trasformato in una guerra di religione come purtroppo non di rado avviene da noi. È, infatti, la vecchia storia della tendenza tutta italiana, soprattutto nei momenti di crisi, a considerare bene primario il particolare e a dividersi in fazioni e corporazioni. Lo spirito dei guelfi e i ghibellini o dell’appartenenza al campanile, purtroppo è rimasto intatto nel corso dei secoli, nonostante le dolorose conseguenze che sempre ne sono derivate da queste radicali divisioni. Purtroppo, il nostro è un popolo che ama poco la storia la cui conoscenza eviterebbe il ripetersi di errori dannosi.
Il guaio è che questo dibattito assurdo ha fatto passare per lunghi mesi in seconda fila i problemi e gli interessi primari della società., nonostante la loro drammatica attualità. Va detto che pur commettendo gravi errori, finora l’establishment se l’è cavata senza troppi danni, nonostante la continua perdita della sua credibilità. E ciò è dovuto principalmente al fatto che il diffuso malessere non si è trasformato in forza d’urto politica, in quanto coloro che più hanno risentito della crisi economica impoverendosi, e sono milioni e sono in maggioranza giovani, anziché unirsi e fare fronte comune si sono rifugiati nella loro solitudine che li sta portando lungo il sentiero del nichilismo che si traduce in un’indifferenza verso le istituzioni. Né è purtroppo apparso all’orizzonte una forza in grado di coagulare questa massa e di prospettarle obiettivi condivisibili per il bene comune. Meno male che nel frattempo non sono emerse figure in grado di utilizzare lo scontento per fini eversivi e antidemocratici.
Se la situazione, tuttavia, dovesse perdurare nel tempo non è da escludere che ciò possa avvenire, bisognerà adottare misure straordinarie e tempestive perché non c’è spazio per colpevoli perdite di tempo. Bisogna dar atto alle istituzioni di aver risolto celermente la crisi aperta dopo il risultato del referendum. Quel che non convince della situazione, a parere dello scrivente, è il perpetuarsi dell’acceso scontro politico che non promette niente di buono in termini di risultati concreti e incisivi. Ecco perchè, nell’anno che verrà, occorre uno sforzo comune di tutte le realtà politiche a sociali attualmente in campo che devono dedicarsi alla ricostruzione del Paese mettendo da parte i loro particolarismi. Sia quelle che hanno come obiettivo gli interessi generali, sia i corpi intermedi portatori d'interessi di parte. Le une e gli altri in forte discredito, hanno forse quest’ultima opportunità per evitare di essere spazzati via definitivamente. Quest’occasione, anzi, potrebbe ridare loro il consenso di un tempo.
In un paese normale di fronte a gravi situazioni, e la nostra è una situazione complessivamente grave, il gruppo dirigente, a prescindere dalla sua appartenenza politica, fa fronte comune per contrastare le difficoltà, mettendo da parte per il tempo che serve ogni particolarismo. È avvenuto in altre democrazie europee, non vedo perché da noi ciò non debba succedere. Una volta superata in positivo l’attuale drammatica situazione, poi ognuno potrà tornare a volgere il ruolo che gli compete nella normale dialettica democratica.
È da visionario prospettare tale soluzione? Qualcuno o tanti potranno anche pensarlo, ma ritengo sia l’unica strada percorribile per allontanare il nostro Paese dal precipizio che ha davanti.
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