Relazioni sindacali sbiadite: l’inconsapevolezza di una grande responsabilità sociale
di Gianna Elena De Filippis [*]
Dai suoi albori e sin dal 1800 nel campo delle lotte collettive, il sindacato è stato il braccio armato delle grandi classi operaie e contadine nell’affermazione e nella conquista di riconoscimenti sul piano del diritto ma anche sul piano della dignità pubblica socio-economica dei lavoratori.
“Sindacato” ha significato sempre unione, armonia di interessi tra i facenti parte, garanzia di protezione e salvaguardia di interessi generali e, solo indirettamente e di riflesso, salvaguardia di interessi particolari: gli interessi dei singoli lavoratori vengono e dovrebbero essere soddisfatti tramite la soddisfazione dell’interesse collettivo.
Benché si scriva comunemente “diritto sindacale”, in realtà, questo settore specialistico dell’ordinamento giuridico, in Italia, consta prevalentemente di “regole di fatto”, che le storiche associazioni sindacali italiane “si sono date” in un sistema di auto-regolamentazione ed hanno riconosciuto, in seguito, come regole inviolabili per la gestione dei loro rapporti. Nel tempo, infatti, queste “regole” sono state formalizzate in accordi collettivi nazionali divenuti vincolanti ed obbligatori per le parti contraenti e per le altre associazioni sindacali minoritarie.
Inevitabilmente, dunque, sulla base del principio della maggiore rappresentatività prima e comparativa maggiore rappresentatività sul piano nazionale dopo, l’area dei “grandi” è giunta ad assorbire le aree periferiche dei sindacati minori annullandone, di fatto, le autonome idee ed azioni.
Sia di esempio, tra i tanti, l’insieme delle regole di cui al Testo Unico sulla Rappresentanza Sindacale, Accordo tra Confindustria – CGIL, CISL, UIL, del 10/01/2014, che recepisce ed armonizza l’Accordo 2011 e l’Intesa 2013, secondo cui per quanto riguarda il CCNL possono partecipare alle trattative solo le OO.SS. che raggiungano almeno la soglia del 5% sommando deleghe per i contributi e voti ottenuti per l'elezione delle RSU, in base alla certificazione dei dati del CNEL. Tutti questi vincoli sono stati fissati proprio da CGIL, CISL e UIL con CONFINDUSTRIA, insieme ad altre numerose “regole” che, per una condivisa e diffusa riconosciuta obbligatorietà generale, sono state accettate da tutti gli altri sindacati, non più alla stregua di un “uso negoziale” la cui efficacia sarebbe circoscritta ai contraenti bensì alla stregua di un vero e proprio “uso normativo” sui generis avente efficacia generale e cogente verso tutti.
Se è vero che la regola della maggioranza e della rappresentatività va senz’altro seguita in un sistema che predilige il principio democratico del “merito”, per cui, secondo un criterio generale, chi ha maggior numero di iscritti ha maggiore peso specifico nelle decisioni, è anche vero che, da diversi anni, la rappresentanza sindacale ha perso lo storico splendore in termini di “fiducia” ed i singoli lavoratori non vedono più il proprio alter ego nell’ente sindacale, che, a prescindere dalla formale iscrizione ad esso, dovrebbe curare l’interesse indiscriminato di tutti i lavoratori. La sfiducia crescente, invece, è il dato fornito da ogni testata giornalistica oltre che dalle testimonianze di tanti lavoratori, delusi. Si verifica un fenomeno di scollamento tra la rappresentanza e la rappresentatività: sarà pur vero che i numeri ancora sono indicativi ed eloquenti per gli storici sindacati ma la loro forza è stata oscurata nelle lotte collettive al punto che molti lavoratori non si sentono più rappresentati da essi e, anzi, sempre più diffusi sono i fenomeni di neo-sindacalismo nelle medie e grandi imprese.
Dietro diretta esperienza professionale, nell’ambito delle medie e grandi imprese, diversi sono gli esempi di nuove organizzazioni sindacali che iniziano ad inserirsi in più settori produttivi. Prototipi significativi si riscontrano nel settore del trasporto pubblico locale e nella categoria degli Autoferrotranvieri. In questi ambiti, gruppi sempre più coesi di lavoratori hanno avviato serii processi di radicamento, operando, laboriosamente e senza troppo spettacolo, nella tutela dei diritti dei lavoratori sui grandi temi e, in alcune occasioni, organizzando scioperi e pubbliche manifestazioni di protesta, secondo le previsioni normative.
Vivendo, inoltre, da vicino, alcune grandi realtà produttive, presso imprese operanti a Fiumicino Aeroporto, nei grandi appalti di sicurezza privata ovvero nel settore del trasporto pubblico, ci si accorge immediatamente che, nella gestione delle dinamiche aziendali, le RSU ovvero le RSA spesso “imbruttiscono” alla presenza di un consulente esterno incaricato dai singoli lavoratori a rappresentarli ed assisterli. A fronte di questa manifesta “diffidenza”, iniziano a snodarsi notevoli perplessità sulla genuinità dei loro intenti nel consesso aziendale. Vengono fuori accordi aziendali inenarrabili, inerzia e indifferenza nelle procedure di licenziamento collettivo, nella contrattazione aziendale e nella gestione dei turni di lavoro, alimentandosi diffuso malcontento.
Ciò nonostante, di fronte a tanto smarrimento e perdita di credibilità, le nuove organizzazioni sindacali, per entrare nel “circuito” delle procedure sindacali, devono soggiacere a regole ferree stabilite da altri sindacati sì rappresentativi nei numeri ma non più veri rappresentanti del gruppo.
In alcune dinamiche, l’impressione avuta è stata quella in cui l’attività sindacale abbia totalmente perso di vista la meta finale cui essa dovrebbe proiettarsi: si è perso di vista, cioè, il principio democratico e partecipativo dei lavoratori alla realizzazione dei loro interessi collettivi e, di riflesso, individuali. Quando, per citare un esempio, la legge n. 223/1991 identifica le RSA e/o rispettive associazioni di categoria quali soggetti legittimati all’esercizio dei diritti e delle facoltà di cui all’articolo 4, medesima legge, questa legittimazione andrebbe interpretata nel senso ampio ed estensivo tenuto conto del quadro sistematico in cui si inserisce. Si vuole suggerire che, aldilà della disposizione secondo cui i rappresentanti sindacali dei lavoratori possono farsi assistere da esperti, in realtà, essendo l’oggetto dell’esame congiunto di enorme spessore e di considerevoli conseguenze per l’intera compagine dei lavoratori, andrebbe il più possibile garantita la libera partecipazione di tutti i lavoratori, soli o accompagnati da un proprio consulente di fiducia e liberamente scelto. Un grave sintomo di sfiducia verso le RSA/RSU è dato, invece, proprio da una “chiusura” verso l’insieme dei lavoratori, i quali vengono redarguiti se manifestano la volontà di partecipare a riunioni e incontri con l’azienda anche accompagnati da un legale o da un consulente. E’ un atteggiamento non apprezzabile ed anzi è il sintomo che qualcosa non va.
Il problema, oggi più che mai, è che la prassi sindacale a livello aziendale spesso soffre di un conflitto di interessi ineguagliabile: la RSA/RSU è un lavoratore dipendente dell’azienda presso cui dovrebbe esercitare i propri diritti e prerogative sindacali, anche con azioni di acceso contrasto con l’azienda stessa. Se è vero che la realizzazione, la protezione e la promozione di un interesse vengono effettuate in maniera efficace soprattutto attraverso la maggiore vicinanza del suo promotore al livello cui quell’interesse appartiene (quindi al livello aziendale, piuttosto che provinciale, regionale o nazionale), secondo un principio generale di sussidiarietà e di “prossimità”, è anche vero che c’è un margine di rischio medio-alto di conflitto di interessi. Alla RSU/RSA, infatti, in forza del potere di rappresentanza conferitole, viene affidata e attribuita un'alta responsabilità decisionale e di scelta avendo, nel contempo, propri interessi personali o professionali sul posto di lavoro, ed entrando in contrasto, inevitabilmente, con i generali doveri di imparzialità, trasparenza, correttezza, prerogative richieste da tale responsabilità. Del resto, ogni rappresentante sindacale è prima di tutto “uomo” ed in quanto tale influenzabile da promesse di premi, aumenti di retribuzione, promozione di carriera all’interno dell’azienda, regalie di vario tipo.
Questi ed altri fattori stanno determinando un allontanamento massivo dal sindacato ed una connotazione individualista della protezione dei diritti: sempre più singoli lavoratori cercano di “farsi giustizia da sé”, ignorando e scavalcando le associazioni sindacali quali mezzi di lotta e di resistenza. Riecheggia il quesito del “chi rappresenta chi” di Massimo D’Antona, al quale vanno ad affiancarsi altri quesiti riguardanti l’identità e la funzione del sindacato, sul perché esistano le azioni collettive, le relazioni sindacali e con quali modalità dovrebbero svolgersi per essere efficaci.
Aldilà di questi gravissimi fatti degenerativi del sindacato e della sua attività, bisogna avere anche la consapevolezza che il diritto del lavoro non può avere una “curvatura” individualista e non può vivere senza l’azione ed il supporto della contrattazione collettiva a tutti i livelli. A livello aziendale, allora, bisognerebbe adottare un sistema di garanzia partecipativa “allargata”; superando i vincoli standard secondo cui possono accedere ai tavoli di trattativa e discussione solo le rappresentanze dei sindacati maggiormente rappresentativi o comparativamente più rappresentativi a livello nazionale (a seconda di come disponga la legge caso per caso), bisognerebbe sperimentare sistemi di rilevazione del consenso dei non iscritti alle sigle sindacali di rilievo, onde evitare forme di imposizione, malcontento e degenerazione irreversibile del sindacato.
Non si dimentichi, in ogni caso, che la contrattazione aziendale potrebbe apportare grandi vantaggi all’impresa e risultati di alta qualità in termini di condivisione di idee, di risoluzione di problemi e buon andamento aziendale se le decisioni venissero prese con il confronto-scontro allargato tra i rappresentanti aziendali e tutti i lavoratori. Insomma, per ricostruire un dialogo costruttivo tra le parti occorre restituire valore al parere dei “rappresentati” nei grandi processi decisionali. D’altro canto, persino lo strumento del referendum, di cui all’articolo 21 della legge n. 300/1970, non è più utilizzato come un tempo, per recepire la volontà dei lavoratori appartenenti all’unità produttiva sui grandi temi inerenti al rapporto di lavoro.
Questo clima di oligarchia decisionale sta diventando molto pesante e chi subisce decisioni non condivise ha iniziato da qualche tempo a studiare modelli alternativi di tutela e resistenza.
La base per ripartire sarebbe la condivisione di disagi ed agi tra l’azienda e i lavoratori; la sede migliore per affrontare la crisi e il disagio è la contrattazione aziendale quale tavolo di confronto tra le parti in contraddittorio e sede di consapevolezza delle rispettive distinte responsabilità nell’impresa.
Sull’argomento si proseguirà nei prossimi articoli.
[*] Consulente del Lavoro, www.sibillaconsulting.com, la Dr.ssa Gianna Elena De Filippis ha vinto nel 2012 il Premio Massimo D’Antona.
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