La certificazione del contratto di lavoro
di Iunio Valerio Romano [*]
La certificazione dei contratti di lavoro è una procedura volontaria, rivolta ad aziende e a lavoratori, utile a ridurre il contenzioso che spesso deriva da un’errata conoscenza delle conseguenze civili, amministrative, fiscali e previdenziali che discendono dalla fattispecie negoziale a cui le parti hanno fatto ricorso.
L’applicazione di tale istituto, pensato per i rapporti di lavoro posti in essere con soggetti privati ed introdotto nel nostro ordinamento giuridico dalla cd. Riforma Biagi, è stato in seguito esteso a tutti gli accordi negoziali in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro non alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. La relativa disciplina è contenuta nel titolo VIII (artt. 75/84) del D.Lgs. n. 276/2003 e ss.mm.ii.
La certificazione si ottiene dopo che il contratto è stato sottoposto al vaglio di apposite Commissioni[1], le quali hanno la funzione di valutarne la correttezza, apportando, se del caso, le opportune modifiche e/o integrazioni.
Una volta certificato, il contratto di lavoro è conservato presso l’Ente certificatore fino ai 5 anni successivi alla scadenza dello stesso.
La L. n. 183/2010 (cd. Collegato Lavoro) ha dettato specifiche disposizioni per rafforzare il valore vincolante, anche nei confronti del giudice, dell’accertamento effettuato in sede di certificazione.
Peraltro, la certificazione del rapporto di lavoro, nella sua attuale connotazione, può avere ad oggetto anche contratti già in essere e, pertanto, esplicare “effetti retroattivi”. In tal modo, il procedimento in parola può, persino, “sostituirsi” alla verifica ispettiva, talché all’organo di vigilanza non resterebbe che agire in sede giudiziaria per sconfessare, sussistendone i presupposti, il contenuto del provvedimento certificatorio. In verità, la cd. certificazione retroattiva assume più le vesti di una transazione, con riferimento evidentemente a diritti già acquisiti nascenti dal rapporto di lavoro.
In definitiva, in una prospettiva deflativa del potenziale contenzioso, è possibile certificare non solo il tipo (qualificazione giuridica) di rapporto ma anche il contenuto del negozio posto in essere, ovvero le singole clausole, e la certificazione può riguardare non più soltanto il contratto di lavoro in senso stretto, bensì qualsiasi contratto, anche commerciale, purché almeno bilaterale, che preveda una relazione con una prestazione lavorativa (ad es. contrato di appalto), o meglio qualsiasi atto negoziale che abbia riflessi su prestazioni lavorative. Si potrebbe, persino, ritenere certificabile, in linea di principio, l’accordo sul trasferimento del lavoratore o altre condizioni contrattuali, che, pur non integrando il regolamento negoziale nella sua integrità, costituiscono modifica al contratto. In quest’ottica, si ritiene viepiù certificabile l’accordo relativo alle modalità orarie della singola prestazione lavorativa.
La commissione di certificazione, quale organo terzo di controllo, deve attenersi alla valutazione o, meglio ancora, alla volontà, libera e cosciente, delle parti, alla quale non può essere sovrapposta la “visione” dell’organo certificatorio.
Il provvedimento di certificazione conferisce piena forza legale al contratto nei confronti di tutti quei soggetti terzi nella cui sfera giuridica esso è destinato ad avere riflessi e tale efficacia permane fino alla eventuale sentenza di merito del giudice ordinario o alla decisione in primo grado del giudice amministrativo, deputati rispettivamente a dichiarare, se del caso, la disapplicazione o l’annullamento del provvedimento certativo.
Si può, dunque, sostenere che si è di fronte ad una volontà assistita delle parti, alla quale l’istituto in questione conferisce certezza giuridica, senza, peraltro, “ridurre l’area della inderogabilità delle norme a favore del lavoratore né restringere i poteri del giudice di verificare la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”, stante il fondamento costituzionale di alcuni principi, diritti e tutele, che neppure il Legislatore può elidere[2].
Resta, altresì, al Giudice, la possibilità di accertare e dichiarare l’erronea qualificazione del contratto.
L’Autorità Giudiziaria non può discostarsi dalla valutazione delle parti espressa in sede di certificazione, fatto salvo il caso dell’erronea qualificazione del contratto, del vizio del consenso o della difformità tra quanto prima certificato e quanto dopo effettivamente attuato (cfr. art. 30, comma 2, L. n.183/2010).
Gli effetti della certificazione si producono dal momento di inizio del contratto, ove la commissione abbia appurato che l’attuazione del medesimo sia stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto certificato; al contrario, in caso di contratti non ancora sottoscritti, gli effetti si producono soltanto nel momento dell’effettiva sottoscrizione.
Le parti o i terzi (in linea di massima gli istituti previdenziali) possono presentare ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di certificazione. Prima però devono rivolgersi alla Commissione per esperire un tentativo di conciliazione, che risulta obbligatoriamente prescritto dalla legge, così atteggiandosi a vera e propria condizione di procedibilità per l’eventuale seguito giudiziario.
Se l’esito del tentativo di conciliazione presso la Commissione di certificazione è negativo, si fa ricorso al giudice del lavoro competente per territorio in caso di erronea qualificazione del rapporto, difformità tra quanto dichiarato e quanto posto in essere, ovvero vizio del consenso.
L’onere probatorio del ricorrente è duplice, atteso che dovrà dimostrare non solo gli elementi di fatto costitutivi della fattispecie rivendicata, ma, prima ancora, sconfessare quanto certificato, per vincere la presunzione iuris tantum che dalla certificazione deriva. Il provvedimento certificatorio dovrà, peraltro, essere impugnato espressamente, atteso che la domanda di tutela giurisdizionale esperita dal lavoratore non può di per sé integrare gli estremi di un’impugnazione implicita dello stesso, trattandosi di un negozio abdicativo “assistito” e formalmente valido.
Nell’eventualità in cui il giudice accerti un’errata qualificazione del contratto di lavoro, l’accertamento giudiziale ha efficacia dal momento della conclusione dell’accordo contrattuale, con conseguente disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo. Se viene accertata la difformità tra programma concordato ed effettiva realizzazione, la sentenza ha effetto dal momento in cui è stata accertata la difformità, in ossequio al principio dell’effettività.
È possibile, altresì, ricorrere contro l’atto di certificazione innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale nel termine decadenziale di 60 giorni dalla sua emissione, tanto in caso di violazione del procedimento di certificazione quanto nell’ipotesi di eccesso di potere da parte della Commissione. Non appare, invece, possibile la revoca in autotutela nei casi indicati dall’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, in quanto ciò comporterebbe un’elusione della previsione di cui all’art. 80, comma 1, del D.Lgs. n. 276/2003, avendo il Legislatore tipizzato i rimedi esperibili contro l’atto di certificazione.
La certificazione è, dunque, un atto ricognitivo, con efficacia preclusiva sul piano probatorio, che ha il fine di riconoscere certezza legale, con effetti erga omnes, ad un determinato rapporto di lavoro.
Trattasi, pertanto, di una manifestazione di scienza e non di volontà. Con riguardo all’attività di vigilanza in materia di lavoro e di legislazione sociale, comportando la certificazione un’inversione dell’onere probatorio, spetterà all’organo di vigilanza dimostrare la difformità del rapporto certificato rispetto a quello di fatto posto in essere. Ciò significa che, pur essendo riconosciuta per legge “fede privilegiata” all’accordo contrattuale certificato, non è affatto preclusa la possibilità di accertamento da parte del personale ispettivo. In proposito, il Ministero del Lavoro, già con nota 31 maggio 2006, prot. 25/I/21, aveva chiarito che il procedimento di certificazione non è idoneo ad incidere sul procedimento ispettivo in corso; pertanto, qualora entrambi gli accertamenti risultino contestualmente in svolgimento, devono proseguire autonomamente e separatamente fino alla relativa conclusione.
Il procedimento di certificazione deve, inoltre, proseguire e concludersi autonomamente anche quando si venga a conoscenza di un procedimento ispettivo in corso.
Peraltro, in ossequio al cd. principio dell’effettività, qualora l’ispettore rilevi una discrasia tra la situazione di fatto relativa alla reale modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e la previsione contrattuale, l’accertamento ispettivo può sicuramente proseguire e concludersi con l’adozione dei relativi provvedimenti, indipendentemente dal procedimento di certificazione. Solo nell’ipotesi in cui venga in rilievo una questione relativa alla formale qualificazione giuridica del rapporto, cioè qualora, pur essendovi corrispondenza tra la disciplina del rapporto di lavoro contenuta nel contratto e quanto di fatto riscontrato nella situazione concreta, ma appaia errata la denominazione del contratto stesso, è opportuno che l’attività ispettiva sia sospesa fino al termine di scadenza previsto per la conclusione del procedimento di certificazione.
In assenza di una espressa indicazione di legge, sussistono perplessità circa il decorso dei termini di cui all’art. 14 della L. n. 689/1981, nel caso in cui sia attivato il contenzioso giudiziario. Atteso che tali termini non risultano sospesi né tanto meno interrotti, vi è da pensare che gli stessi decorreranno dalla comunicazione della decisione giudiziaria e che l’accertamento giudiziario, ai fini sanzionatori, va, in tal caso, a sostituirsi a quello ispettivo.
Ogni atto che presupponga una qualificazione del contratto diversa da quella certificata sarà da ritenere nullo sino a quando l’imprimatur certativo non sia rimosso con sentenza, fatti salvi i provvedimenti cautelari. Resta, inoltre, impregiudicato l’esercizio del potere di accertamento, finalizzato alla tutela lavoristica e previdenziale e, come tale, sotteso dai principi di indisponibilità e obbligatorietà. Le relative risultanze, qualora portino alla contestazione di violazioni non connesse alla qualificazione del rapporto certificato, non sono, peraltro, condizionate all’impugnazione del provvedimento di certificazione, essendo i conseguenti provvedimenti perfettamente validi e non suscettibili di nullità, salvo ulteriori vizi.
Note:
[1] Sono organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro: le commissioni di certificazione istituite presso gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento ovvero a livello nazionale (qualora la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale); le Direzioni territoriali del lavoro; le Province; le università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, registrate in apposito Albo ed esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo; il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro, esclusivamente nei casi in cui il datore di lavoro abbia le proprie sedi di lavoro in almeno due province anche di regioni diverse ovvero per quei datori di lavoro con unica sede di lavoro associati ad organizzazioni imprenditoriali che abbiano predisposto a livello nazionale schemi di convenzioni certificati dalla commissione di certificazione istituita presso il predetto Ministero; i consigli provinciali dei consulenti del lavoro, esclusivamente per i contratti di lavoro instaurati nell’ambito territoriale di riferimento.
[2] Cfr. Corte Suprema di Cassazione - Quaderni del Massimario, COLLEGATO LAVORO E TUTELA GIURDISZIONALE, a cura di F. Buffa, cap. I, § 4.
[*] Il Dr. Iunio Valerio Romano è Responsabile dell’Unità Operativa Vigilanza Ordinaria II presso la Direzione Territoriale del Lavoro di Lecce. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’amministrazione di appartenenza ai sensi della circolare del Ministero del Lavoro del 18 marzo 2004.
Seguiteci su Facebook
>