Rinascita dei centri per l’impiego… Tra il dire e il fare… il pensare
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Attorno alla questione inerente la fattività/operatività delle strutture pubbliche deputate istituzionalmente agli interventi in materia di Mercato del Lavoro, ovvero i Centri per l’Impiego, si è sviluppato, nel nostro Paese, un acceso dibattito economico-sociale oltreché accademico-istituzionale su come potrebbero essere e come dovrebbero strutturarsi, anche dal punto di vista di risorse finanziarie destinate, queste strutture operative della PA.
Partiamo da un paradigma che ritengo fondamentale per sviluppare un ragionamento articolato circa la ormai non più rinviabile costruzione di una “piattaforma confederata” quale strumento nazionale (agenzia) deputato, che recepisca in se l’attuale rete pubblica rappresentata dai Centri per l’Impiego nonché da tutte le altre entità private che, in modalità disomogenea e variegata, agiscono nell’ambito della intermediazione-promozione nel campo di politiche attive del lavoro quali Agenzia private (interinali e non).
Un primo aspetto, che giova sottolineare, è la “multiforme tipologia” di soggetti che spontaneamente possono rivolgersi alle strutture maggiormente dedicate oggi all’incontro tra domanda e offerta di lavoro ovvero i Centri per l’Impiego e le Agenzie per il Lavoro private. Ebbene, è di assoluta evidenza il fatto che esistono profonde differenze e specificità tra coloro che annoveriamo nella categoria dei giovani (compresi statisticamente nella fascia di età 15-29 anni) senza titoli di studio, ovvero diplomati o laureati e coloro invece non più giovani fuoriusciti dall’ambito lavorativo quali: disoccupati di lunga durata, lavoratori in mobilità, cassaintegrati, ecc. come anche donne che intendono entrare o rientrare in ambito lavorativo, lavoratori svantaggiati (es. ex reclusi, ex tossicodipendenti, extracomunitari, ecc.).
È proprio questa multiforme tipologia di soggetti alla ricerca di una occupazione che, necessariamente, deve essere destinataria di una qualità e quantità di risposte, opportunamente diversificate, messe in campo da parte di un nascente sistema intermediativo di lavoro, nell’ottica di promuovere rinnovate sinergie, pubblico-privato, sottese ad una idonea Agenzia Nazionale in grado di “prendere in carico” i singoli casi previo orientamento/indirizzamento dei “cercatori di lavoro” così differenti tra loro, per storia, vissuto, esperienze, formazione, esigenze, disponibilità, status sociale.
In buona sostanza una “nuova reingegnerizzazione” dei Centri per l’Impiego, modulata con i restanti interpreti privati e non, del poliedrico mondo dell’intermediazione lavorativa (ma anche dell’orientamento, formazione, promozione, ecc.)dovrà necessariamente esplicarsi su più ambiti, ovverossia: ricollocamento guidato dei lavoratori cassaintegrati di lunga durata e/o in mobilità; promozione dell’occupazione e rioccupazione della manodopera femminile; inoccupati cronici; inserimento delle diverse tipologie dei lavoratori diversamente abili; conoscibilità e diffusione del sistema del “microcredito” applicato all’autoimpiego e alle politiche attive del lavoro; promozione e diffusione del cooperativismo sociale; ecc.
È di tutta evidenza, quindi, che il ruolo che potrebbe svolgere la nuova generazione dei CpI non dovrebbe limitarsi alla trattazione del ristretto mondo dei giovani in cerca di prima occupazione, ma inevitabilmente anche in aderenza alle nuove e crescenti esigenze, appalesatesi a causa della forte e perdurante crisi economica, la più grave, forse, dopo quella del 1929, con la platea in continua espansione dei “senza lavoro”.
È pur vero che il “faro” internazionale e nazionale, posto sui “fondamentali” della nostra economia, polarizza l’attenzione sul dato monstre riguardante la percentuale degli inoccupati giovani (15-24 anni) che nel nostro Paese si è attestato, come risulta dagli ultimi dati Istat pubblicati, paurosamente e stabilmente ben al di sopra del 40%, e precisamente al 41,6%, con una disoccupazione complessiva sull’intera forza lavoro disponibile del 12,7% che in valori assoluti corrisponde a circa 3 milioni e 254 mila unità. Anche il dato statistico riguardante la categoria dei cosiddetti “scoraggiati”, ovvero coloro che sfiduciati non cercano più lavoro, sono cresciuti spaventosamente raggiungendo la cifra che sfora i due milioni di persone, più esattamente 1 milione e 900 mila.
Tornando alle problematiche ricadenti sui CpI e quindi conseguentemente ad una loro riprogettazione, risulta sempre più evidente che è la produttività o per meglio dire l’efficacia dell’azione, di questi uffici, che deve essere assolutamente migliorata.
Il conto rilevato dalla Ragioneria Generale dello Stato, che sfiora i 500 milioni di euro annui, copre per i ¾ gli oneri del personale applicato ai CpI. Certamente, esaminare acriticamente dati numerici in assenza di retro pensieri e necessarie contestualizzazioni, non conduce da nessuna parte. Quello che sicuramente va approfondito, per ridisegnare e riformare i CpI, è la loro concreta operatività che si deve basare, in primo luogo, su un riaddestramento/riqualificazione del personale ivi applicato capace di interpretare fattivamente l’essenziale processo di presa in carico degli utenti aspiranti lavoratori, sapendo svolgere un lavoro di gruppo dove devono coesistere professionalità diversificate che vanno dal formatore, allo psicologo, dal sociologo, all’informatico, dallo statistico all’assistente sociale, all’amministrativo puro; tutte figure queste indispensabili alla costruzione, il più possibile personalizzata, di quei percorsi formativo/lavorativi da potersi sviluppare a favore dei “privi di lavoro”. Da ultimo, ma non ultimo, la indispensabile ideazione/creazione, all’interno di questi riconfigurati CpI, di sezioni, che denominerei di pura “analisi”, operanti quale osservatorio previlegiato dei contesti socio-ambientali dove andrebbero ad innestarsi le sedi dei rinnovati Centri per l’Impiego.
È indubitatamente vero, al contempo, che oggi i maggiori aspetti di criticità evidenti nell’azione degli attuali CpI sono l’evidente eccessiva burocratizzazione delle mansioni svolte, dove l’interfaccia per l’utenza è rappresentata da un mero impiegato svolgente, anche in maniera diligente, una semplice raccolta di elementi generici, da doversi inserire in una banca dati, quasi mai integrata, che viene interfacciata “acriticamente” con le esigenze da desumersi nelle offerte di lavoro presenti.
Quello che oggettivamente manca ai tanto vituperati uffici pubblici, denominati centri per l’impiego è, a parere di chi scrive, un giusto appeal da doversi però conquistare sul campo con le imprese italiane ed estere, per le ricerche assunzionali. Oggi, infatti, assistiamo ad un crescente crollo del ricorso ai CpI per il procacciamento di manodopera rispetto alle altre modalità di ricerca esistenti, quali: segnalazioni personali, banche dati aziendali, agenzie private interinali, siti web, annunci negli old media, ecc. Da osservare, inoltre, il dato nel dato fornito dalle differenze di performance tra i CpI distribuiti nel territorio dove, certamente, i risultati migliori vengono raggiunti negli uffici ubicati al nord del nostro Paese rispetto al sud, questo anche relativamente al numero degli addetti applicati e quindi all’incidenza sulla produttività media rilevata territorialmente nonché rapportata alle unità lavorative.
Altro tema di rilevante interesse, strettamente connesso con la nuova stagione che riguarderà i CpI è quello riconducibile al “piano nazionale garanzia giovani” inserito nel progetto più generale dell’Unione Europea “Youth Guarantee” che si prefigge, tra l’altro, di offrire, ai giovani europei in stato di disoccupazione, entro un periodo di quattro mesi, l’opportunità di un lavoro, di uno stage aziendale, di un ciclo formativo culturale-professionale, per gli appartenenti alla fascia di età 15-24 anni, eventualmente estendibile ai 29 anni.
Tale percorso prevedrebbe, nel nostro Paese, la necessità che i giovani, che hanno concluso il loro ciclo di studi (secondari di I e II grado e/o universitari) ovvero in stato di disoccupazione, debbano iscriversi in uno dei Centri per l’Impiego pubblici, (ma valevoli sarebbero anche le Agenzie private per il lavoro), al fine di essere accolti per la cosiddetta “presa in carico” del centro, con preliminari informazioni, necessarie per la stipula di un “patto di servizio”. Seguentemente avverrà una valutazione di competenze, di capacità e quindi, a seguire, la fase dell’orientamento. Un ulteriore passo sarà la formazione di ulteriori conoscenze di base e trasversali da far conseguire con un tirocinio aziendale o anche un contratto di apprendistato o altra tipologia lavorativa, come anche una tipologia di servizio civile operativo. Da ultimo, ma non secondario, la creazione di un canale di accompagnamento per giovani alla ricerca di occupazione che intendano cimentarsi nella creazione di una attività autonoma/libero professionale.
Tale piano “garanzia giovani” dovrà necessariamente prevedere il coinvolgimento attivo delle Regioni, che nella loro sfera di autonomia detengono un patrimonio esperenziale di conoscenze sulle specificità territoriali, fortemente differenziato, in materia di lavoro, mercato, politiche attive e passive, sostegno alle imprese, start up, formazione, ecc. Ebbene, per tale ragione si ritiene necessaria/essenziale una “regia nazionale” che possa dettare strategie e criteri uniformi per tale contesto, anche alla luce di necessarie distribuzioni di risorse, di provenienza sia comunitaria che nazionale, che possano validamente veicolarsi anche quali “incentivi” sia per le strutture pubbliche che private sostenendo gli interventi che si dimostrano fattivamente incisivi e realizzino concrete “creazioni” di posti di lavoro nei territori, anche nelle zone più svantaggiate del Paese.
In sostanza, viene richiesto a questo auspicabile “sistema integrato” di “avvicinare” le richieste alle offerte di lavoro favorendo la transizione dalla scuola al lavoro dando risposte certe, soprattutto ai giovani alla disperata ricerca di occupazione, sfruttando al meglio le risorse e le rinnovate attenzioni politiche, anche a livello europeo, per la sempre più evidente “piaga” rappresentata dalla mancanza di lavoro in generale e in particolare per intere nuove generazioni.
Tornando all’argomento emergenziale inerente i giovani e il lavoro, come sopra ricordato, ciò rappresenta il vero problema, non solo per l’Italia ma anche per il resto d’Europa. Si tratta quindi con “l’European Youth Guarantee” di trovare una “risposta continentale” alla gravissima crisi dell’occupazione giovanile, non tralasciando le spinte sociali-umanitarie provenienti dai Paesi Arabi del sud mediterraneo come anche da altri Paesi dell’Est, orientali e mediorientali, prevedendo, a carico di ogni Stato membro, l’impegno ad assicurare, per ogni giovane al di sotto dei 25 anni, una offerta di lavoro qualitativamente idonea ovvero proseguimento studi, apprendistato o tirocinio entro pochi mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione o uscita dal sistema formale d’istruzione. Tutto questo anche in considerazione degli obiettivi sottesi alla “strategia Europa 2020”. Il programma garanzia giovani beneficerà appunto, a partire dal 2014 fino al 2020 di un finanziamento complessivo, per tutti i Paesi della UE, pari a 6 mld di €, per metà provenienti dal Fondo Sociale Europeo per l’altra metà da uno stanziamento specifico tratto direttamente da capitoli di bilancio comunitario. L'ottenimento dei fondi prevede comunque che le opportunità occupazionali offerte siano ritenute valide, soprattutto dal punto di vista “qualitativo”, qualità richiesta, altresì, anche per le altre attività di sostegno e supporto all’occupazione; in buona sostanza il piano mira, al contempo, a contrastare i fenomeni di falsa o cattiva occupazione concentrando gli sforzi per supportare e ritrovare “lavoro sano-vero”, con il fine superiore di contrastare l’inattività giovanile.
Passiamo ora ad accennare, brevemente, al ruolo assegnato alle Regioni per il contrasto della disoccupazione giovanile. Ebbene, un primo aspetto da segnalare è sicuramente quello inerente l’eccessiva diversificazione e parcellizzazione delle iniziative di politica attiva messe in campo nei diversi consessi regionali e inerenti strumenti di “contrasto alla disoccupazione”. Un elemento rilevante, da dover evidenziare, è rappresentato dal fatto che buona parte delle iniziative messe in campo: dall’offerta di corsi di formazione alla concessione di incentivi alle strat-up, dallo svolgimento di tirocini, alla stabilizzazione dei lavoratori precari, dai contratti di apprendistato alla ricollocazione dei lavoratori in mobilità o cassa integrazione, vengono a sostanziarsi previa “interposizione” dei CpI ovvero agenzie private del lavoro che attuano le cosiddette prese in carico.
Quindi, il fattivo inserimento lavorativo ossia conclusione dei percorsi di formazione, riqualificazione, promozione di autoimpresa, ecc. possono rappresentare obiettivi concreti sui quali far confluire una “dote finanziaria” specifica legata al reale raggiungimento di risultati in politiche attive del lavoro. Esempi in tal senso, di buone pratiche, sono rappresentati dalle Regioni: Lombardia, Basilicata, Emilia Romagna, Puglia.
Altra tematica che vedrebbe assegnarsi un ruolo da protagonista svolto dai futuribili Centri per l’Impiego può desumersi dalle recenti proposte avanzate in sede di dibattito politico ed inerenti lo strumento del Sia “sostegno di integrazione attiva”, come anche il cosiddetto “reddito di inclusione” o ancora il “reddito minimo o di cittadinanza”.
Andiamo pertanto ad indagare quante diverse tipologie di “welfare diffuso”, in modalità reddituale esistono, soprattutto per quanto attiene le ricadute inerenti il sostegno ai cittadini con risorse necessarie e disponibili.
Una prima considerazione pregiudiziale, sull’argomento, introduce il problema di coniugare la destinazione di qualsivoglia reddito, condizionandolo all’inserimento lavorativo, ovvero riconoscimento di un reddito disgiunto dal perseguire una finalità di ricerca occupazionale. Nel merito, un obiettivo alto di qualsivoglia Nazione moderna dovrebbe consistere nel facilitare una agevole occupabilità della forza lavoro di un Paese progredito.
In tale contesto si potrebbe appunto collocare lo strumento sopra citato di welfare positivo denominato Sia, che mirerebbe non al semplice sostegno reddituale, destinato ai lavoratori occupati in aziende in crisi ciclica o strutturale che però insieme ai datori di lavoro “contribuiscono” alla irrorazione dei fondi deputati, ma bensì il Sia dovrebbe avere il duplice obiettivo di contrastare la povertà unitamente alla promozione di occupazione/ricollocazione/stabilizzazione per i lavoratori, anche per mezzo della mediazione fornita dai canali istituzionali quali i Centri per l’Impiego.
Ulteriore aspetto economico virtuoso sarebbe quello di riuscire nell’intento di collocare, fuori dal Patto di Stabilità, ogni investimento pubblico destinato a tali politiche di sostegno attivo al lavoro. Il Sia si differenzierebbe, in maniera sostanziale, dal cosiddetto strumento del reddito minimo o di cittadinanza che, di contro, si inquadra in una misura di welfare orientata a promuovere quel minimo di autonomia finanziaria e di sussistenza valevole per ciascun cittadino, universalmente inteso, che per alcuni versi si può paragonare all’istituto della cassa integrazione in deroga, messo però in campo per la sola categoria degli individui “occupati” in aziende/settori in crisi e non coperti dalla cassa integrazione ordinaria o straordinaria (per la quale i lavoratori e i datori di lavoro versano specifici contributi) e pertanto il loro sostegno al reddito viene garantito dalla fiscalità generale, come appunto dovrebbe gravare il reddito minimo o di cittadinanza.
Centrali, per questa misura di sostegno all’inclusione attiva, quale anche strumento nazionale tendente ad una forma di contrasto alla povertà, risultano essere le “declinazioni operative” dei servizi all’impiego offerti dai “centri pubblici” che dovrebbero operare in un contesto coordinato che indirizzi le variegate azioni specifiche messe in campo sia dalle Regioni che dalle strutture private.
Ma è di tutta evidenza, soprattutto nell’attuale contesto economico, come un tale intervento di welfare richieda risorse al momento di non agevole reperimento nel nostro Paese. Ciò però non deve distogliere dal traguardo di un miglioramento delle politiche di welfare tendenti a fornire, da una parte redditi minimi universali, dall’altra parte reali opportunità di lavoro in un “bilanciamento virtuoso” tra abbattimento delle povertà e ricerca di una piena occupabilità, della propria forza lavoro disponibile, contrastando, possibilmente, forme di lavoro nero e utilizzazione delle forme estreme di precariato lavorativo, nel pieno rispetto, quindi, della dignità umana.
Per tutto questo è certamente necessario un sistema trasparente modernamente poggiato su strumenti tecnologicamente avanzati e su banche dati dinamiche, gestito e governato da una moderna macchina pubblica che sia in grado di coordinare un complessivo apparato ancorato e coadiuvato dalle realtà private, anch’esse altamente orientate ad un sistema generale di efficienza che operi nell’articolato mondo del lavoro.
Il Sia, quale programma strutturato di sostegno per l’inclusione attiva, dovrebbe quindi prevedere una sorta di acquisizione umana che oltre ad essere svolta dai CpI vedrebbe coesistere il ruolo attivo dei Comuni, per la parte inerente le verifiche sulle azioni parallele di welfare, quali la scolarizzazione obbligatoria per i figli dei beneficiari dei redditi di sostegno, la fattività di cure sanitarie, lo svolgimento di programmi di formazione e riqualificazione professionale propedeutica a proposte occupazionali di impiego offerte a componenti di famiglie povere/indigenti.
In un quadro di ridefinizione complessiva dei servizi per l’impiego, anche nell’ottica di una revisione della spesa pubblica che, certamente, riguarderà anche l’ottimizzazione ed efficientamento degli attuali centri per l’impiego, un contributo attivo dovrebbero fornirlo gli Enti Locali. In particolare sarebbe positivo il ruolo e il patrimonio di conoscenze detenuto sostanzialmente dai Comuni.
Si potrebbe quindi ipotizzare, in primis, una distribuzione di Uffici da ubicarsi in ogniuno dei Comuni superiori ai 15 mila abitanti (che su tutto il territorio nazionale sono circa 500) e parallelamente individuare un “presidio per il lavoro”, una sorta di “job match”, di derivazione europea, in ciascuno dei rimanenti quasi 8 mila comuni italiani che potrebbero dotarsi di una o più postazioni telematiche, appositamente destinate, da potersi gestire con risorse umane, già presenti per le esigenze degli uffici URP, che dovrebbero integrare le proprie conoscenze con percorsi conoscitivi sulle tematiche di politiche del lavoro. Una siffatta operazione mirerebbe a “viralizzare” sull’intero territorio nazionale, una rete di uffici, da innestarsi nelle municipalità esistenti, sfruttando, in modalità di avvalimento, sufficienti risorse umane attualmente operative per attività/servizi offerti alla cittadinanza in materie complementari ed integrative alle tematiche presenti nel mercato del lavoro, quali: servizi sociali, sportello unico per le imprese, uffici diritti per il cittadino, politiche abitative e per la casa, commercio artigianato e agricoltura, ecc.
Un tale programma vedrebbe crescere, anche se in maniera non esclusiva, il numero di addetti operanti nel sistema complessivo dei servizi per l’impiego, mirando, al contempo, ad una capillarizzazione dei presidi fisici a tutto vantaggio dei cittadini alla ricerca occupazionale, non tralasciando, comunque, una riconfigurazione delle reti telematiche, al momento presenti, in grado di dialogare con la più generale rete e base dati pubblica. La suddetta rete ITC pubblica dovrà, inevitabilmente, migliorare con i riattualizzati programmi previsti per la nuova/rinnovata “agenda digitale” che vedrà, al contempo, perfezionata la propria missione aggredendo quindi il “digital divide” ovvero l’arretratezza tecnologica infrastrutturale, di cui soffre questo Paese, implementando la “banda larda e ultra larga” con fondi pubblici anche di provenienza comunitaria, destinati allo sviluppo (da ultimo i fondi strutturali 2014/2020).
Per concludere il presente contributo è doveroso fare anche brevi riflessioni circa il dibattito che si è recentemente innescato sul funzionamento dei nostri CpI e segnatamente sulle tangibili variabili di performance esistenti tra i diversi Centri, in particolare, tra quelli presenti al nord e al sud d’Italia, per i quali si sta dibattendo se e come conferire risorse, a fronte di concreti risultati ottenuti, rispetto alla reale collocazione lavorativa misurabile in posti di lavoro conseguiti. Parallelamente, sono iniziati ragionamenti diffusi circa l’instaurazione di “meccanismi di premialità” da promuovere sottoforma di voucher da conferire a favore di quei soggetti, siano essi privati ovvero pubblici che, concretamente, individuano e collocano le varie categorie di inoccupati in contesti lavorativi certi, tali da incidere sull’abbattimento delle troppo alte percentuali dei senza lavoro.
Da ultimo, in tale contesto generale, risulta di estrema utilità fare menzione del recentissimo primo rapporto, elaborato dal Ministero del Lavoro, sul “Monitoraggio dei Servizi per l’Impiego 2013” che ha visto la luce grazie all’esigenza di conoscere, dettagliatamente, l’organizzazione, l’entità e la distribuzione delle risorse umane disponibili presso i Servizi Pubblici per l’Impiego, oltreché la platea degli utenti di tali servizi e la sua distribuzione territoriale.
Per tale monitoraggio sono state intercettate le necessarie collaborazioni delle Regioni e delle Province unitamente alla decodifica delle informazioni (derivanti anche da uno specifico questionario tecnico) detenute direttamente dal Ministero del Lavoro in base alla piattaforma tecnologica costituita dal portale Cliclavoro nel quale confluiscono una serie di “comunicazioni obbligatorie” nonché altri elementi di conoscenza fondamentali quali le percentuali di utenti definiti Neet, codificati nei Centri, o anche la quota di disoccupati che effettuano la “dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro” in acronimo DID.
Comunque si voglia intendere, la sempre più grave e stringente crisi occupazionale obbliga il nostro Paese a dover intervenire nella “manutenzione” del CpI che dovrebbero essere intesi come rinnovato fulcro per il “rinascimento” delle politiche per il lavoro superando, altresì, la dicotomia politiche attive-passive del lavoro, riconducendo ad un unicum l’intervento regolativo pubblico anche per le necessarie riforme degli strumenti esistenti che vanno dalle varie tipologie di cassa integrazione, alla mobilità, dai sussidi di disoccupazione, agli incentivi alle imprese, dai programmi di formazione-riqualificazione, all’accompagnamento per l’esodo volontario, nell’ottica di una non più praticabile dispersione o eccessiva frammentazione delle sempre troppo scarse risorse finanziarie disponibili.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata – Roma – titolare della cattedra di “Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro”.
Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza ai sensi della Circolare del Ministero del Lavoro del 18 marzo 2004.
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