Le “nuove” collaborazioni coordinate e continuative tra limiti e potenzialità
di Graziella Secreti [*]
Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 15 giugno 2015 n. 81 scompaiono i contratti a progetto, ma non certo le collaborazioni coordinate e continuative, che sopravvivono e indirettamente vengono rivisitate dal legislatore nella rilevanza degli elementi che le contraddistinguono.
Difatti l’art. 52, comma 2, del D.Lgs. 81/2015 stabilisce espressamente la sopravvivenza dell’art. 409, n. 3, c.p.c., ossia della norma alla quale va riconosciuta una sorta di primogenitura delle collaborazioni in questione.
Certo è che – eccezioni esplicite a parte – le sole collaborazioni coordinate e continuative possibili sono quelle che non si concretizzano in prestazioni esclusivamente personali e le cui modalità di esecuzione non siano organizzate dal committente con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro. Questi sono gli elementi su cui occorre concentrare le indagini volte a rilevare la genuinità del rapporto e da cui dipende l’applicazione della relativa disciplina.
Difatti il comma 1 dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 sancisce che a partire dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche alle collaborazioni che presentano il carattere personale e l’etero-organizzazione logistica e temporale della prestazione.
È importante evidenziare che il legislatore non prevede il meccanismo della presunzione del rapporto come subordinato, incidendo quindi sull’aspetto sostanziale dello stesso, ma si limita ad estendere la disciplina del lavoro subordinato anche a quelle collaborazioni che presentano le suddette caratteristiche.
Ciò significa che gli organi di vigilanza e l’Autorità Giudiziaria non dovranno compiere istruttoria sulla sussistenza dei tradizionali indici rivelatori della subordinazione, ma soltanto sulla componente personale della prestazione e sulla etero-determinazione logistico-temporale della stessa.
In vigenza della nuova disciplina potrà, pertanto, accadere che vengano stipulate collaborazioni coordinate e continuative che sotto alcuni profili si svolgono secondo i caratteri dell’autonomia, in quanto ad esempio non sussiste la soggezione al potere direttivo di controllo e disciplinare del committente, ovvero l’obbligazione è puramente di risultato con assunzione del rischio a carico del prestatore.
Ebbene, anche in questi casi, se la prestazione è resa con le modalità previste dall’art. 2 del D.Lgs. 81/2015, per effetto di espressa previsione di legge scatta automaticamente l’applicazione della disciplina della subordinazione a prescindere dal carattere sostanziale del rapporto, che può continuare a svolgersi con le modalità autonome eventualmente esistenti.
Naturalmente i principi ispiratori della riforma, nel tentativo di dare massima centralità al rapporto di lavoro subordinato, si propongono di offrire una soluzione pratica al dilagare delle fasulle collaborazioni a progetto che si sono affermate immediatamente dopo il D.Lgs. 276/2003, il quale, a sua volta, aveva cercato di arginare il fenomeno delle collaborazioni coordinate e continuative dietro cui di fatto si celava un rapporto di lavoro subordinato.
All’epoca si ritenne sufficiente ancorare la prestazione ad un progetto ben definito oppure ad un programma o una fase di lavoro per qualificare come effettivamente autonoma l’attività resa dal collaboratore.
La prassi affermatasi di seguito, il proliferare dei contenziosi e i massicci interventi della giurisprudenza volti a qualificare come subordinate diverse collaborazioni in cui, a prescindere dalla specifica individuazione del progetto, ricorrevano di fatto gli elementi della dipendenza e dell’inserimento del collaboratore nel contesto organizzativo datoriale, hanno di fatto sconfessato la visione ottimista del legislatore del 2003.
Reduce da questa esperienza, il legislatore della recente riforma favorisce la preminenza di alcuni indici della subordinazione, al ricorrere dei quali ritiene ci siano condizioni sufficienti per l’applicazione della normativa che regolamenta la subordinazione.
Il tentativo presenta da una parte limiti di intervento e dall’altra ampie maglie in cui è possibile che si affermi nuovamente una prassi fraudolenta della disciplina.
I limiti di intervento sono legati al fatto che l’abrogazione dei contratti a progetto presenta alcune eccezioni tassativamente indicate dal legislatore, il quale al 2° comma dell’art. 2 D.Lgs. 81/2015 sancisce “la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento:
a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
b) alle collaborazioni prestate nell'esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi professionali;
c) alle attività prestate nell'esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
d) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall'articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289;
d-bis) alle collaborazioni prestate nell'ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367”.
L’eccezione che tra tutte occorre attenzionare è quella di cui alla lettera a), in quanto quelle previste dalle lettere successive sono prestazioni che probabilmente si atteggerebbero come autonome anche in mancanza di un progetto.
La lettera a) sembra essere confezionata proprio per salvare legislativamente le collaborazioni coordinate e continuative stipulate nei call center, che sono il settore in cui di fatto si è avuta la maggiore speculazione dell’istituto contrattuale abrogato.
In pratica il legislatore sembra dire che alle collaborazioni per le quali sono stipulati accordi economici collettivi non si applica la disciplina del lavoro subordinato, ma solo il trattamento economico e normativo previsto da questi accordi.
Ebbene, fatta eccezione per l’antica tradizione degli accordi economici degli agenti di commercio, il cui carattere parasubordinato non è in discussione, l’unica categoria per la quale sussiste un accordo economico collettivo è proprio quello dei call center.
Né appare prevedibile una proliferazione futura di detti accordi, perché al di là delle problematiche giuridiche legate alla rappresentatività sindacale di categorie di autonomi, è necessario che si tratti di settori di lavoro molto numerosi e per i quali ricorra una comunanza d’interessi.
Il legislatore ha quindi scelto ancora una volta (dopo che a farlo fu la Legge n. 92/2012) di mantenere in vita quelle collaborazioni dietro cui si cela un’evidente dipendenza e che paradossalmente in alcuni territori costituiscono l’unico “sbocco lavorativo” di personale anche altamente qualificato.
La scelta è condizionata dal timore della delocalizzazione minacciata dai soggetti economici che operano nel settore.
Nell’attuale momento storico è quindi evidente che le leggi di rigido mercato purtroppo sono in grado di condizionare le politiche sociali e legislative delle Istituzioni, che invece dovrebbero esser in grado di governare gli investimenti economici, coniugandoli con la tutela dei diritti e la salvaguardia della giustizia sociale, come l’art.41 della Costituzione prevede e come i principi essenziali su cui si fonda la nostra Carta fondamentale sanciscono, nel porre al centro del sistema l’individuo in quanto persona.
Sinora abbiamo visto che il comma 1) dell’art. 2 prevede la regola e cioè l’abrogazione dei contratti a progetto, mentre il comma 2) ne sancisce le eccezioni.
Proseguendo l’analisi della disposizione, si osserva che il comma 3) traccia la strada da percorrere per mettersi al riparo dall’applicazione della normativa in materia di subordinazione: la certificazione del contratto.
Non era necessario che il legislatore esplicitasse in quest’articolo la facoltà delle parti di autenticare il contratto dinnanzi alle commissioni di certificazione, perché l’art.75 del D.Lgs. n. 276/2003, prevede in via generale che “le parti possono ottenere la certificazione dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro”.
Tra i contratti certificabili rientravano anche le collaborazioni coordinate e continuative.
Non è da sottacere, tuttavia, che la disposizione è scritta in negativo, cioè sono indicati gli elementi la cui assenza è possibile certificare: “...le parti possono richiedere alle commissioni di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la certificazione dell’assenza dei requisiti di cui al comma 1”.
Il ribadire della facoltà e la forma utilizzata probabilmente hanno la finalità di incitare l’utilizzo dell’istituto al fine di prevenire il moltiplicarsi dei contenziosi.
D’altro canto, l’intero testo di legge è ispirato dal tentativo di ridurre il più possibile l’intervento dell’Autorità Giudiziaria e comunque la discrezionalità del Giudicante nell’ambito dei rapporto di lavoro.
Potrebbe quindi affermarsi una prassi in grado di far dilagare i contratti di collaborazione in cui si certifica il carattere non personale della prestazione e la mancanza di etero-organizzazione logistica e temporale.
In questo caso appare evidente che per contenere il fenomeno, l’attenzione degli operatori dovrà concentrarsi sulla valorizzazione dell’iter istruttorio di certificazione, che vede coinvolti una pluralità di organi pubblici, quali gli Ispettorati Territoriali del Lavoro, l’INPS, l’INAIL, ecc. che hanno un margine di intervento anche quando l’attività certificativa è svolta da Università e Ordini dei Consulenti.
Dovrà porsi scrupolosa attenzione alle dichiarazioni rese dalle parti e dare un giusto peso all’assistenza del lavoratore e difatti lo stesso comma 3) ribadisce “...il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.
Gli effetti della certificazione sono infatti rilevanti.
Essa è opponibile nei confronti di qualunque terzo, è sottoposta, prima dell’impugnativa giudiziale, al tentativo obbligatorio di conciliazione presso l’organismo che l’ha rilasciata e conserva i propri effetti fino alla emanazione di una sentenza di primo grado che ne annulli le conseguenze giuridiche prodotte.
In mancanza della dovuta prudenza operativa, il testo di legge può consentire un abuso dell’istituto volto a compromettere i diritti dei lavoratori.
È evidente che le prassi fraudolente non sempre possono essere sconfitte con una mera modifica della disciplina normativa, ma soprattutto nel settore lavoristico, si possono combattere con più azioni di intervento, che, attraverso un’efficiente politica economica, un’azione di sostegno alle start-up e una virtuosa rivisitazione dei costi del lavoro, siano in grado di coniugare, soprattutto nell’attuale contesto storico, la libertà di iniziativa economica e la tutela dei diritti dei lavoratori.
[*] Avvocato, Funzionario ispettivo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro in servizio presso l’ITL di Cosenza.
Le considerazioni contenute nel presente scritto sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno in alcun modo carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.
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