Avvalimento
Effemeridi. Pillole di satira e costume
di Fadila
La nostra amata lingua è complessa, affascinante e composta d’innumerevoli parole. Di esse la maggioranza di noi ne usa, nell’arco della vita, qualche centinaia, forse un migliaio. Anche i più eruditi ne conoscono e ne utilizzano solo una parte.
Alcune sono di uso comune, ricorrenti sulla bocca di tutti con continuità di cui, però, non sempre siamo in grado di definirne il significato esatto. Prendiamo ad esempio, il caso del termine congruo; sappiamo che in astratto vuol dire adeguato, ma tale aggettivo quando non è accompagnato dall’indicazione del suo valore diventa di difficile interpretazione.
È il caso della norma sull’indennità di disoccupazione. La sua durata massima è di due anni salvo che, si specifica, il lavoratore non riceva un’offerta d’impiego congrua. Se per l’aspetto retributivo tale aggettivo è chiaro perché c’è la precisazione che non può essere inferiore del venti per cento dell’indennità percepita al momento, resta incognito il significato per quel che riguarda il restante contenuto del rapporto di lavoro. Se, in altri termini è applicabile nel caso di un’occupazione precaria o a termine o disagiata, magari a decine di chilometri dall’abituale residenza del soggetto interessato. In questi casi può anche succedere che bisogna ricorrere al giudice per la sua interpretazione.
Altre sono peculiari di particolari situazioni o attività, utilizzate in modo esclusivo dai rispettivi operatori. In altre parole sono termini specifici per la letteratura, per la scienza per la tecnica, per la burocrazia.
Riguardo a quest’ultimo settore, alla faccia della ribadita volontà politica di rendere accessibile a tutti le disposizioni della pubblica amministrazione attraverso scritti sempre più semplici, ho l’impressione che, invece di andare in quella direzione sia in corso un’involuzione che ne limita la comprensione ancor più di prima.
Ne ho avuto una conferma nel leggere il documento di programmazione triennale dell’attività di vigilanza inviato qualche tempo fa agli uffici periferici, quando sono incappato nel termine avvalimento. Confesso che grazie alla mia ignoranza ho subito pensato a un refuso. La parola con maggiore assonanza poteva essere avvilimento, ma nonostante questo sentimento albergasse nel mio cuore di fronte al contenuto della direttiva, ho rapidamente scartato tale ipotesi perché il discorso con il cambio non filava.
Poiché, nel continuare a esaminare le tredici pagine della convenzione l’ho incrociato altre sette volte, non ho potuto fare a meno di consultare il dizionario. Così sono rimasto scornato perché, anche se molti di voi non ci crederanno, su quella bibbia della nostra lingua il termine c’è con l’indicazione del suo significato. Ho avuto l’impressione, naturalmente immaginaria, che quella pagina arrossisse di vergogna tentando di giustificare la sua inclusione precisando che viene utilizzata solo nel linguaggio burocratico estremo.
Poi sempre nello stesso testo sono incappato in un altro termine che mi ha fatto venire qualche brivido, la dematerializzazione. Il primo pensiero è andato a una qualche seduta spiritica, poi all’ironia è subentrata la rabbia, perché, vedete, posso capire il gusto sadico dell’estensore materiale, mentre mi sfugge, invece, l’indifferenza dei firmatari di un documento certamente non riservato. Devo confessare che al posto loro mi sentirei un poco imbarazzato perché sono sempre convinto che il termine popolare carico di buon senso parla come mangi si possa applicare anche allo scritto di un soggetto pubblico.
Seguiteci su Facebook
>