Caporale amico di chi?
Legalità… non tutto è perduto
di Stefano Olivieri Pennesi [*]
Introduzione
Apriamo questa serie di riflessioni usando, “provocatoriamente”, la locuzione “amico” affiancandola ad una figura, quella del Caporale, che in particolare negli ultimi tempi sta assumendo una notevole rilevanza e trattazione mediatica dal punto di vista giuridico, economico, sociologico, e aggiungo anche antropologico.
A ben vedere, soprattutto in questi ultimi anni, tale particolare fenomeno, ha avuto una sua naturale evoluzione e declinazione anche e in stretto nesso e riferimento con l’esplosione della questione “immigrati”, per la quale il nostro Paese ha rappresentato e rappresenta sempre più il naturale sbocco geografico dei sempre più crescenti flussi umani di immigrazione verso il nostro continente europeo. In tale “coacervo” di disperazione, sfruttamento, violenza, opportunismo, speculazione, “nuovi schiavismi” stanno prendendo il sopravvento. Tutto ciò, evidentemente, è anche frutto di spinte demografiche, principalmente dai continenti Africano e Asiatico, apparentemente inarrestabili; ma anche da fattori più propriamente economici, dove la povertà assoluta ed estesa, risulta essere elemento cardine. Non di meno le questioni riguardanti le instabilità politiche, spesso accompagnate a persecuzioni di etnie e comunità, anche per motivi di credo religioso, guerre, carestie, ricerca di livelli di vita dignitosi, per se e per i propri nuclei familiari, spingono milioni di persone a emigrazioni forzate dove mettere a repentaglio la propria e altrui vita, risulta elemento imprescindibile.
Aspetti generali
In questo generale contesto la certezza del diritto e della legalità dovrebbe assurgere a ruolo fondamentale, anche per consentire una convivenza civile tra popolazioni migranti e comunità ospitanti.
Possibilmente, e in maniera univoca, sarebbe doveroso riflettere su un bene primario, rappresentato dal valore di civiltà umana al momento di mettere in campo tutte le azioni necessarie per “salvare vite umane”.
Altro discorso, di contro, rappresenta la questione della accoglienza e permanenza nel nostro Paese, ovvero transito verso altri Paesi, con flussi migratori ben governati (e aggiungo gestibili adeguatamente) con centri di accoglienza temporanea, ovvero di identificazione, da non trasformarsi, però, in ghetti che diventano fucine di violenze, nefandezze, soprusi, alla mercé di speculatori organizzati frequentemente sottoforma di cooperative, (come recenti casi verificatisi hanno portato alla ribalta nazionale), al solo scopo di realizzare guadagni facili alle spalle della collettività.
Bene sarebbe attivare, con una efficace azione diplomatica permanente, accordi che permettano, in sicurezza, il rimpatrio, anche parziale, dei cittadini extracomunitari che approdano illegalmente nelle nostre coste o varcano i nostri confini terresti. O anche immaginare, come da ultime iniziative del governo, “filtri alla partenza” dove poter effettuare tutti gli adempimenti e verifiche di legalità necessarie per le autorizzazioni e gli ottenimenti degli status di migranti richiedenti asilo, profughi, perseguitati politici, apolidi, ecc.
Ciò detto non deve però deviare la nostra attenzione dagli aspetti squisitamente umanitari, conseguenti. Mi spiego meglio, il solo fatto di “arginare” gli arrivi di migranti nel nostro paese, o in altre nazioni europee, magari definendo accordi con paesi del nord africa, come la Libia, può rappresentare un mero palliativo dal punto di vista proprio umanitario. Si potrebbe scoprire che, con “accordi e sovvenzioni”, promossi dai paesi europei, per bloccare masse emigranti in partenza dal nord africa, si possa al contempo alimentare una sorta di business della sofferenza, cagionando inaccettabili abusi contro persone trattenute forzatamente in centri di detenzione, dove vige unicamente la violenza e le aberrazioni.
Questo è ad esempio l’allarme lanciato dalla organizzazione umanitaria internazionale MsF - Medici senza Frontiere, molto di recente, sulle condizioni di vita riscontrate in questi “campi particolari” di accoglienza.
Anche il tema di ricezione dei richiedenti asilo o rifugiati, deve essere affrontato nel giusto modo. Infatti le stesse procedure amministrative per il legittimo riconoscimento di tali status, dovrebbe potersi esplicare in tempi celeri e certi, e questo evidentemente nel nostro Paese non avviene, per una serie di ragioni non sempre legittime o comprensibili.
Citiamo ad esempio il fatto che le cosiddette “Commissioni territoriali” di valutazione, presenti nel nostro Paese, che si occupano di esaminare le domande di “asilo”, pur essendo passate numericamente da 20, quali erano, a 41, ancora esercitano le loro istruttorie con tempistiche chiaramente non rispondenti alle esigenze di maggiore celerità che le situazioni e il numero di richieste richiederebbero.
È anche indiscutibile che tale fattispecie di migranti richiedenti asilo, in numeri assoluti, non dovrebbe rappresentare un grave problema di recettività complessiva, per qualsivoglia nazione, proprio perché oggetto di attente e stringenti valutazioni e prescrizioni, in quadri giuridici ben definiti e direi anche doverosamente condivisi, tra Paesi della comunità internazionale.
Ciò detto aggiungo prevedendo, in particolare nel nostro Paese, la possibilità di attuare una politica di “distribuzione diffusa” dei migranti con micro insediamenti da garantire, d’intesa, nei comuni, con una azione ”condivisa”, tenendo ben presente l’adeguatezza dei rapporti percentuali tra residenti e ospitati, tali da non pregiudicare i necessari equilibri, la tenuta sociale e la civile convivenza.
Nel nostro Paese è vigente, bene dirlo, il sistema dei cosiddetti Bandi SPRAR (Sistema di protezione e accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo) che prevedono, tra l’altro, la corresponsione di importi erogati principalmente a cooperative, dagli enti locali, finalizzati per le spese di gestione dei rifugiati, pari a circa 35/40 euro al giorno, di cui circa 5 euro riconosciuti e assegnati direttamente agli immigrati sottoforma di “poket money”. Trattasi di fondi disponibili da un capitolo di spesa ordinario assegnato al Ministero dell’Interno.
Differentemente dalla Germania, altro paese di particolare attrazione per i flussi immigrati, dove i profughi richiedenti asilo sono tenuti a frequentare corsi di lingua, di cultura, di legislazione, oggetto di successive regolari verifiche dell’apprendimento raggiunto; e per chi non adempie si provvede al ritiro progressivo dei benefici previsti.
Ad onore del vero anche in Italia, in questi giorni, il nostro Governo, in particolare su impulso del Ministro dell’Interno, sta elaborando delle disposizioni che prevedono appunto degli obblighi stringenti per tali categorie di immigrati, che al fine di migliorare la loro capacità di integrazione debbono evidentemente garantire migliori standard di conoscenza della lingua italiana, come pure della nostra legislazione e regole civiche, con lo scopo anche di migliorare una possibile opportunità occupazionale, che garantirebbe meglio la concreta integrazione sociale.
Legge anticaporalato
Con l’attuale legge in materia di caporalato la n.199/2016 il legislatore ha finalmente completato un percorso per il quale si aggiunge al codice penale un nuovo articolo, riscrivendolo, che integra il già grave reato di “sfruttamento lavorativo” appunto il 603bis.
La legge menzionata, infatti, oltre che perseguire il vero e proprio caporale, quale figura fondamentale per lo sfruttamento delle braccia in agricoltura, ma non solo, mette in risalto, includendolo, anche chi oggettivamente utilizza mano d’opera attraverso il cosiddetto mercato informale del lavoro, ossia viene reclutata manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori.
È bene dirlo, quindi, che con tale ultima legge, che di fatto riscrive il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, non solo vengono inasprite le pene per la figura del caporale, aumentando il periodo di reclusione comminabile, ma anche gli altri aspetti penali vengono opportunamente estesi altresì ai datori di lavoro, che si approvvigionano, “consapevolmente”, di mano d’opera, attraverso questi intermediari, prevedendo la norma per i casi più gravi, quale responsabilità diretta, della confisca dei beni e/o il loro commissariamento, o per meglio dire il “controllo giudiziario dell’azienda” presso cui è stato commesso il reato, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale.
La legge precedente del 2011, istitutiva di detto originario articolo 603bis del codice penale, ha necessitato dell’attuale integrazione/completamento, stante la sua passata difficile applicazione, dovuta principalmente alla previsione giuridica di un reato che si doveva sostanziare con la evidenza e prova di minacce e intimidazioni perpetrate verso i lavoratori e suffragate da “prove schiaccianti”, evidentemente non sempre e facilmente ottenibili e quindi da poter esibire legittimamente in giudizio.
Allo stato attuale, invece, violenze, minacce, intimidazioni, soprusi, non assurgono a prove dirimenti per la fattispecie giuridica di reato di caporalato, ma vengono considerate delle “pratiche” aggravanti di vessazione, tali da sostanziare l’opportunità di inasprimento di pene da poter comminare.
Il nuovo testo della legge del 2016 prevede anche, però, sconti di pena per chi collabora; come pure l’aumento del fondo istituito ad hoc per le vittime di tratta, l’arresto in flagranza di reato, l’estensione alle persone giuridiche della responsabilità per il reato di caporalato, il potenziamento della cosiddetta “Rete del lavoro agricolo di qualità”.
Ovviamente, il quadro generale che si delinea è rappresentato da una possibile sana intermediazione lavorativa combinandola, al meglio, intervenendo in maniera forte sul mercato del lavoro e sui servizi delle politiche attive, che dovrebbero accompagnarla, in particolar modo nei settori dell’agricoltura, dell’edilizia e dei servizi.
Il fenomeno del caporale oggi rappresenta un sistema complesso e articolato che trae fondamento nello sfruttamento della persona umana, aggravato, se vogliamo, dall’estremo stato di bisogno in cui uomini e donne lavoratori versano.
Spesso si viene al corrente di situazioni che sorgono addirittura nei Paesi di origine dei lavoratori extracomunitari, e li che frequentemente gli intermediari stranieri svolgono il ruolo di procacciatori di braccia.
Sappiamo che masse imponenti di persone pagano cifre esorbitanti per raggiungere il nostro Paese, con una remota prospettiva di sottoscrivere un regolare contratto di lavoro. Braccianti stranieri che invece, nella stragrande maggioranza dei casi, soggiaceranno a più probabili sfruttamenti lavorativi informi, non soltanto in alcune zone meridionali, ma anche in vaste zone del centro e del nord Italia.
Ad onore del vero sappiamo anche che si sta tentando di affrontare dal punto di vista dell’umana accoglienza, soprattutto nell’ambito delle reti del Volontariato: Caritas, Croce Rossa, Comunità Sant’Egidio, Libera, solo per citare alcune maggiori Associazioni, il tema Immigrati, Caporalato, sfruttamento, tratta umana, integrazione, ecc.
Gli ambiti affrontati sono i più vari e vanno dalla assistenza legale, alla costruzione di condizioni di maggior integrazione dei lavoratori immigrati, dall’allestimento di centri di accoglienza, limitrofi alle zone di produzioni agricole, a presidi sanitari temporanei e delocalizzati, da sedi provvisorie per gestire l’impiego e le opportune e conosciute “liste di prenotazione” per lavoratori stagionali extracomunitari, da occupare lecitamente, alla gestione/organizzazione del trasporto dei lavoratori su linee e percorsi temporanei, dai centri di ospitalità provvisori ai luoghi e zone di lavoro.
Altro dato evidente, emerso in questi ultimi anni, è che tutto ciò venga fatto dalle istituzioni pubbliche o reti solidaristiche del volontariato, per far emergere situazioni diffuse di illegalità, rappresenta un ostacolo alla “azione predatoria” e di guadagni immensi, gestiti anche dalla criminalità organizzata, sulle pelle di uomini e donne del Nord Africa come pure dell’Africa subsahariana come Somalia, Mali, Sudan, Burchina Faso, Nigeria, Gana, ma anche dal Bangladesh, India, Pakistan, Sri Lanka. Non di meno sono pure presenti i flussi da paesi esteuropei, dell’oriente estremo, ovvero da tutte quelle zone del pianeta che vivono in povertà estrema.
Come detto poter offrire, ad esempio, assistenza legale e patrocinio gratuiti, permette di affrontare le questioni quali: rinnovo dei permessi di soggiorno, ricongiungimenti familiari, ottenimenti di visti di cittadinanza, ricorsi avverso decreti di espulsioni illegittimi, ecc.
Ciò evidentemente attiene ad un sistema di legalità e certezza del diritto, che funziona, neutralizzando o limitando quelle aree grigie dove la fanno da padroni le organizzazioni malavitose, nostrane e straniere, per il tramite di personaggi dediti a piccoli o grandi traffici, intermediari truffatori, ma anche colletti bianchi corrotti o uomini delle istituzioni conniventi.
In sostanza si assiste sempre più con frequenza al dipanarsi di sodalizi con la malavita organizzata locale, presente sui diversi territori, per lo sfruttamento dei soggetti deboli della catena immigrata.
Allo stato, proprio per contrastare questo stato di illegalità non tollerabile esiste un “protocollo” sperimentale nazionale denominato: “Cura legalità uscita dal ghetto”, coordinato dalle Prefetture ideato appunto per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento in agricoltura, ma anche per garantire adeguata accoglienza dei lavoratori stranieri stagionali.
Al riguardo è utile portare ad esempio dei casi di buone pratiche che si stanno mettendo in campo in diverse Regioni del nostro Paese.
Buone pratiche di contrasto al Caporalato - Caso Regione Basilicata
In Basilicata nello specifico nel territorio del Vulture Melfese con l’ausilio e lo spirito propulsivo del responsabile del “Coordinamento Politiche immigrati e rifugiati della Regione Lucania” si è potuto immaginare e poi concretamente realizzare, nel Comune di Palazzo San Gervasio (ai confini con il territorio Foggiano della Puglia) un apposito centro di accoglienza per garantire ai braccianti agricoli extracomunitari, i necessari posti letto, servizi igienici e docce serviti da acqua calda, punti cottura, spazi mensa, un apposito ambulatorio medico gestito da dottori e infermieri della locale Azienda Sanitaria, una sede temporanea di servizio quale diramazione del Centro per l’Impiego pubblico, un servizio tecnologico per l’uso gratuito del Wi-Fi, un servizio di trasporto navetta da e verso i campi di lavoro.
Tutto ciò in attesa del 2018 quando potrà, tale esperimento, consolidarsi anche con interventi di bonifica e ristrutturazione da realizzarsi sugli immobili dell’ex tabacchificio, di proprietà pubblica, ubicato proprio in questo Comune di Palazzo San Gervasio, che potrà ospitare quindi a regime fino a 400 braccianti a stagione.
Questo attivismo prende spunto dalle passate esperienze negative dove accampamenti abusivi “terra di nessuno” sorgevano fuori da ogni controllo e regole con gravi ricadute per l’ordine pubblico, la salute, l’incolumità, per le violenze che venivano perpetrate. Mi riferisco al sorgere nel 2016 del famoso, in quanto assurto alle cronache, campo di Boreano, che è stato più volte oggetto di attenzioni, da parte delle Autorità, tali da portare al suo sgombero e quindi successiva bonifica, proprio per la sua ubicazione strategica per le zone agricole di raccolta, tra i comuni di Venosa, Melfi, Lavello, Montemilone, Palazzo.
Il tutto evidentemente ruotava e ancora ruota sui guadagni illeciti che vengono a realizzarsi sulla pelle dei lavoratori, in particolare oggi extracomunitari, con la intermediazione illegale di manodopera e quindi sfruttamento di soggetti deboli delle masse immigrate; ma anche di gestione della prostituzione ivi presente, di spaccio di droghe e di quanto di illegale possa aggiungersi, corredato da violenze e vessazioni inumane e senza tralasciare le possibili ed gravi infiltrazioni della malavita organizzata.
È evidente quindi che il sistema per funzionare si deve basare su gruppi di caporali/lavoratori, ovvero che operano direttamente in squadra con gli altri braccianti, in una sorta di supervisione e controllo della produzione, come pure su caporali dediti esclusivamente al procacciamento e al trasporto dei lavoratori verso i campi dalla loro momentanea allocazione, siano esse baracche, accampamenti tendopoli, casali diroccati e pericolanti, piazze di raccordo, come pure sempre più frequentemente regolari centri di accoglienza. Queste figure dedite al solo trasporto, non di rado svolgono anche altre attività di natura spesso illegale.
Molti di questi caporali lavoratori, è bene dirlo, vivono insieme agli altri braccianti, nei casali fatiscenti, negli accampamenti provvisori, nei centri di accoglienza o di ospitalità, comunque a “contatto diretto” anche per il bisogno di un controllo costante sulle persone, pronti anche ad offrire altri “servizi” governando giri di prostituzione, di droga, spesso dialogando ed interfacciandosi con la criminalità locale, chiedendo e offendo per tutto questo dazioni di denaro.
In questo ambito anche i piccoli o piccolissimi imprenditori proprietari dei campi/terreni per un verso si rivolgono a questi caporali “superficialmente” o anche poco consapevolmente, nel dare incarico per trovare lavoratori, d’altro canto esprimono anche timori verso questi stessi personaggi ambigui, inclini a comportamenti delinquenziali, dediti anche a comportamenti violenti, tali da imporre regole proprio agli stessi imprenditori agricoli.
Soprattutto salendo la scala gerarchica i caporali più potenti e influenti, molto spesso anche italiani, legati di sovente a boss della malavita, hanno la capacità di imporre, con potere di intimidazione, proprie squadre di braccianti, marginalizzando, di fatto, il ricorso legale alle istituzioni preposte.
Il tutto, è evidente, si lega alla criminalità organizzata che si foraggia del lavoro di italiani e stranieri spesso in collaborazione con organizzazioni delinquenziali estere, in una sorta di holding che unitamente al fenomeno delle Agromafie si stima produca tra i 15 e i 20 miliardi di euro di profitti in Italia (fonte della Commissione Parlamentare Antimafia e dell’Osservatorio Placido Rizzotto – Primo rapporto su Agromafie e Caporalato)
Conclusioni
Una ultima riflessione è meritevole di essere acclarata, ovverosia che il “Caporalato” può e deve essere arginato o meglio sconfitto, fornendo ai migranti lavoratori, come pure alle donne e uomini italiani, impegnati prevalentemente in agricoltura, la consapevolezza dei propri diritti, del giusto salario, della necessaria previdenza, contrastando in maniera ferrea l’illegalità lavorativa, con una azione sinergica tra le istituzioni direttamente coinvolte in questa battaglia di civiltà.
Mi riferisco alle Prefetture, alle Questure, agli Enti locali, alle Forze dell’ordine tutte, alla Protezione Civile, alle Aziende Sanitarie, ai Centri per l’Impiego Pubblici, all’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Non da meno determinante risulta anche essere, nell’azione di assistenza e supporto, l’agire delle Associazioni di Volontariato, della Croce Rossa, delle Caritas, dei Sindacati dei lavoratori e delle Associazioni di rappresentanza delle aziende. In definitiva agire unitariamente con l’intento di dare dignità assoluta al lavoro e aggiungo all’impresa, in una scelta etica di contrasto assoluto ad ogni forma di illegalità, che in primo luogo annienta l’uomo e mina le basi della nostra società e del vivere civile.
Infine desidero fare menzione e dedicare questo mio scritto sul “Caporalato” alla memoria di tre braccianti agricoli, due di nazionalità italiana e un terzo ignoto, probabilmente africano del Mali, di cui non si conosce il nome e che si ritiene anch’esso morto sul lavoro. Tutti e tre hanno perso la vita svolgendo il loro faticoso lavoro nei campi del nostro mezzogiorno, in un contesto di sfruttamento, non rispetto delle regole lavoristiche, contrattuali, come pure sugli aspetti legati alla scarsità di sicurezza e prevenzione, per i lavoratori tutti.
Mi riferisco esplicitamente alla tarantina Paola Clemente, madre e moglie, deceduta nelle campagne di Andria, in Puglia, nel luglio del 2015, stroncata da un infarto. A Giuseppina Spagnoletti, giovane donna e anch’essa mamma, della provincia di Matera, che lavorava per una ditta Lucana in un terreno al confine di Ginosa, che ha perso la vita lo scorso 31 agosto 2017. E appunto ad un giovane che si ritiene del Mali, deceduto nel Foggiano, nel ghetto di Rignano Garganico, nell’estate del 2016, probabilmente lavoratore clandestino impegnato nella raccolta di cassoni di pomodori, il cui corpo potrebbe essere stato occultato dai caporali senza scrupoli e la cui storia è stata raccontata dal sindacalista coordinatore del dipartimento immigrazione della Flai-Cgil Puglia, Yvan Sagnet.
“Le loro vite non vadano perdute invano…!” perseguendo lo scopo primario della lotta allo sfruttamento lavorativo e offesa alla dignità umana, senza distinzioni alcune.
[*] Professore a contratto c/o Università Tor Vergata di Roma, titolare della cattedra di “Sociologia dei processi economici e del lavoro” nonché della cattedra di “Diritto del Lavoro”. Il Prof. Stefano Olivieri Pennesi è anche Dirigente dell’Ispettorato Unico del Lavoro, Capo dell'Ispettorato Territoriale di Potenza-Matera. Ogni considerazione è frutto esclusivo del proprio libero pensiero e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
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