“Mi piace lavorare - mobbing”. Un film del 2004 di Francesca Comencini,
dove la protagonista Anna, impiegata di terza categoria in un’azienda da
poco rilevata da una multinazionale straniera, incomincia ad avere vari
problemi sul lavoro. Le difficoltà iniziano all’indomani del passaggio di
proprietà. Infatti è l’unica impiegata a non essere salutata, più o meno
spontaneamente, dal nuovo capo del personale. Questo è il primo gradino del
suo “calvario”. I colleghi la evitano e non la invitano più a prendere il
caffè, nessuno più le parla durante le pause di lavoro, la sua scrivania
viene inavvertitamente “occupata” da altri. Il responsabile del personale
la ignora oppure tenta di squalificarla sul piano personale con battute
discutibili, per esempio, anche con riguardo al vestito che indossa[1].
Poi con la scusa di assegnarle “un importante incarico”, dapprima la relega
alla fotocopiatrice per ore ed ore senza fare niente, poi la sposta al
magazzino a sorvegliare il lavoro degli operai con evidente demansionamento
professionale. Da ultimo non viene più invitata alle riunioni aziendali
(anzi quando arriva trafelata ad un incontro, già iniziato, è allontana
dalla sala senza tanti complimenti) con un crescendo di angherie e soprusi
che, a poco a poco, le logorano la vita fino a portarla alla depressione,
accompagnata da una grave crisi di identità che distrugge completamente la
sua autostima. Il suo unico conforto il rapporto con la figlia Morgana che
riesce a farla uscire da un tunnel che sembrava senza ritorno. La bambina
con grande tenerezza sarà in grado di dare alla mamma la spinta e le
motivazioni per rimettersi in sesto. Un po' alla volta riesce anche a
raccontare a qualcuno la sua vicenda drammatica, arrivando a citare in
giudizio l’azienda e vincere il processo. Una storia quella di Anna,
drammatica, ma ahimè, una delle tante che ha come snodo finale
l’abbattimento psicosociale del mobbizzato.
Fino ad una decina di anni fa il fenomeno era principalmente di tipo
emozionale, cioè legato ad un rapporto conflittuale fra lavoratore e
superiore gerarchico che tentava di imporre il proprio potere e la propria
supremazia. Oggi invece tutto è cambiato, in peggio. In un precedente
numero di questo periodico è stata approfondita tale situazione, rendendo
evidente che oggi le cose si sono notevolmente complicate[2].
Le tipologie di mobbing messe in atto dall’attore sono sempre più spesso di tipo “combinato”: questo significa che gli interventi persecutori sono la sommatoria di più azioni mobbizzanti che possono essere di tipo verticale, orizzontale, ascendente, discendente e strategico. A queste deve aggiungersi il mobbing diretto ed indiretto. Nel primo caso i comportamenti persecutori sono indirizzati esclusivamente verso la vittima, nella seconda ipotesi invece le azioni vessatorie si riverberano anche su ambiente di lavoro, amici e famiglia. In particolare le conseguenze sul nucleo familiare possono arrivare ad essere molto gravi fino a determinare una reazione da parte della famiglia medesima che si trova ad essere minacciata dalle tensioni e frustrazioni che il mobbizzato scarica nel contesto familiare.
Ma anche la vita di relazione subisce gravi ripercussioni, dovute alla
forte situazione di disagio in cui si trova il mobbizzato, che diventa
totalizzante, determinando una progressiva caduta d’interesse per i
contatti sociali e le relazioni tradizionali.
La persona ne esce destabilizzata. Nel morale e nel fisico. Siffatte
vicende, come testimoniato da vari studi, possono condurre all’invalidità
psicologica, tanto che sempre più spesso si parla di malattie professionali
e/o di infortuni sul lavoro connesse con le azioni di mobbing[3] anche se
il mobbing di per sé non è una malattia. Questo cambio di prospettiva è
indispensabile per capire che invece il mobbing è causa di malattie
psicosociali anche gravi. Gli psichiatri ci dicono anche che la patologia
più frequentemente associata al mobbing è il disturbo dell’adattamento che
è la sommatoria di una variegata sintomatologia ansioso-depressiva come
reazione all’evento stressogeno.
Secondo la Suprema Corte di Cassazione le forme che il mobbing può assumere
sul posto di lavoro sono molteplici e riassumibili in 13 categorie[4].
Nel contempo, i giudici di Piazza Cavour hanno evidenziato in maniera inequivocabile che si può parlare di mobbing solo quando i comportamenti ostili, del datore o del superiore gerarchico, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, sono sistematici e reiterati tanto da comportare una mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità. La giurisprudenza poi ha ribadito che i comportamenti ostili, debbono essere unificati da un medesimo disegno, consistente nell’ostacolare o addirittura nell’eliminare le potenzialità di realizzazione della vittima nell’ambiente lavorativo.
Quindi il mobbing è un lento, ma inesorabile, stillicidio di persecuzioni, attacchi e umiliazioni che perdura nel tempo, e proprio da questo lungo periodo deriva la sua forza devastante.
Molto spesso però si continua a parlare di mobbing senza cognizione di
causa utilizzando anche il termine in modo improprio mescolando tra loro
mobbing, straining, stalking, burn out e stress psicosociale. Per cercare
di chiarire al meglio l’intera questione abbiamo incontrato il prof Harald
Ege, psicologo del lavoro e delle organizzazioni, considerato il maggior
esperto italiano della materia e fra i maggiori esperti del mondo[5].
L’incontro a Bologna nella sede di Prima, l’Associazione Italiana contro
Mobbing e Stress psicosociale, da lui fondata nel 1996 e composta da un
team di esperti (psicologi, medici, avvocati, psichiatri e medici legali),
che in 22 anni di attività ha aiutato migliaia di vittime di terrore
psicologico sul posto di lavoro ad uscire dalla loro situazione. Infatti il
mobbing è come il fuoco che cova sotto la cenere, come è ben rappresentato
in un quadro di un amico di Harald Ege appeso nello studio del professore.
“Quando in Italia si iniziò a parlare di mobbing – dice Ege – si pensò di
avere scoperto qualcosa di nuovo ed impensato. In realtà si era solo
sollevato il coperchio di un pentolone ben colmo di svariate problematiche
lavorative, alcune simili al mobbing e quindi facilmente confondibili con
esso, altre di natura totalmente diversa, ma tutte riconducibili ad un
unico disegno dove i normali conflitti di lavoro risultavano sostituiti da
atti quotidiani, intenzionali e persecutori, di emarginazione sociale,
violenza psicologica o sabotaggio professionale e tali da poter ledere
seriamente la salute psicofisica del lavoratore vittima. Quindi si può
parlare di mobbing se le condotte vessatorie poste in essere dal datore o
da un superiore gerarchico risultano continue, reiterate nel tempo ed
unificate da uno scopo ben preciso, fatto di azioni intenzionali e, molto
spesso, premeditate che causano danni alla salute. Inoltre è indispensabile
che venga dimostrato il nesso di causalità tra il danno alla salute e
l’azione persecutoria in ambito lavorativo”.
Se invece le azioni ostili hanno solo parzialmente le caratteristiche
appena descritte si deve parlare di straining[6]. Chi non lo conosce
potrebbe anche scambiarlo per mobbing. Infatti per entrambe le fattispecie
il denominatore comune è costituito da angherie, umiliazioni, vessazioni e
maldicenze in ambiente lavorativo.
“La conoscenza e lo studio di tali fenomeni – continua Ege – è di
fondamentale importanza sia dal punto di vista della prevenzione e sia da
quello della gestione delle conseguenze e delle possibili strategie
risolutive. Una diagnosi sbagliata può ripercuotersi pesantemente e
negativamente sul percorso di recupero del paziente. Quindi la prima cosa
da fare è individuare in modo corretto le situazioni che affliggono il
paziente, tenendo conto che in questi ultimi anni accanto al mobbing si
sono sviluppate varie problematiche solo in apparenza simili. Una di queste
è appunto lo straining, un fenomeno che ho definito ed elaborato qualche
anno fa, sulla base dell’esperienza accumulata in tanti anni di lavoro sul
campo ed oltre tremila situazioni di disagio lavorativo esaminate. Anzi lo
straining ha sopravanzato nettamente il mobbing”.
Infatti dopo avere studiato ognuna di tali posizioni con il metodo delle
sei fasi messo a punto dallo stesso Ege, solo per il 20% dei pazienti si
poteva parlare di mobbing. Il 13% erano situazioni ascrivibili a una
qualche forma di stress occupazionale. Un 6% comprendeva soggetti con
problemi personali di tipo psichico, soprattutto paranoia e depressione
organica, emerse chiaramente dalla valutazione diretta e dalle diagnosi
mediche presentate. Una parte piccola ma presente, pari circa all’1% del
totale, corrispondeva a casi di conflittualità molto elevata, nata in
ambito lavorativo e sconfinata poi nella vita privata della vittima,
denominata “stalking occupazionale”. La stragrande maggioranza di chi si
riteneva mobbizzato, circa il 60% dei pazienti, è risultato in realtà
vittima di straining.
Le sei fasi del mobbing
Il modello messo a punto dal prof. Harald Ege |
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Condizione “zero”
Non si tratta di una fase, ma di una pre-fase, di una situazione iniziale normalmente presente in Italia e del tutto sconosciuta nella cultura nordeuropea: il conflitto fisiologico, normale ed accettato. Una tipica azienda italiana è conflittuale. Un aspetto è fondamentale: nella “condizione zero” non c'è da nessuna parte la volontà di distruggere, ma solo quella di elevarsi sugli altri. |
Fase 1 • Il conflitto mirato
È la prima fase del mobbing in cui si individua una vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale. Il conflitto fisiologico di base dunque prende una svolta, non è più una situazione stagnante, ma si incanala in una determinata direzione. |
Fase 2 • L’inizio del mobbing
Gli attacchi da parte del mobber non causano ancora sintomi o malattie di tipo psicosomatico sulla vittima, ma tuttavia le suscitano un senso di disagio e fastidio. Essa percepisce un inasprimento delle relazioni con i colleghi ed è portata quindi ad interrogarsi su tale mutamento. |
Fase 3 • Primi sintomi psicosomatici
La vittima comincia a manifestare dei problemi di salute e questa situazione può protrarsi anche per lungo tempo. Questi primi sintomi riguardano in genere un senso di insicurezza, l’insorgere dell’insonnia e problemi digestivi. |
Fase 4 • Errori ed abusi dell’Amministrazione del personale
Il caso di mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito dagli errori di valutazione da parte dell'Ufficio del Personale dell’azienda. |
Fase 5 • Serio aggravamento della salute psicofisica della vittima
In questa fase il mobbizzato entra in una situazione di vera disperazione. Di solito soffre di forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie, che hanno solo un effetto palliativo, in quanto il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi. |
Fase 6 • Esclusione dal mondo dal lavoro
Implica l'esito ultimo del mobbing, ossia l'uscita della vittima dal posto di lavoro, tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al prepensionamento o anche esiti traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l’omicidio o la vendetta su chi gli ha causato così tanti problemi. |
“Non è semplice mettere in evidenza una situazione di mobbing. L’esperienza
mi ha insegnato – sono sempre parole di Ege – ad analizzare la persona che
ho davanti con il cuore, il cervello e lo stomaco.
Questo significa che per inquadrare in modo puntuale le problematiche che
il paziente pone, bisogna esaminarle emozionalmente (cioè con il cuore),
razionalmente (con il cervello) ed istintivamente (con lo stomaco, cioè di
pancia) ed i tasselli di questo puzzle complesso debbono incastrarsi
perfettamente; solo a quel punto si può formulare una diagnosi di mobbing o
di straining o di stalking in ambiente di lavoro o di stress psicosociale.
Ogni persona è un libro aperto e si capiscono già tante cose anche da come
parla, cammina, a testa alta o bassa, le posizioni che assume ed il
movimento degli occhi. Fondamentale è saper leggere ed interpretare questi
segni e procedere sempre con grande cautela. Infatti nella mia attività
oltre a pazienti con gravi problemi di mobbing ho incontrato anche dei
simulatori che dichiaravano fittiziamente di essere stati vittime di
mobbing ma poi da un esame accurato è emerso che fingevano, anche molto
bene, per poter avere un risarcimento economico o anche per andare in
pensione prima. Nelle poche volte che ho avuto a che fare con questi
personaggi mi sono accorto subito che qualcosa non quadrava, il loro
racconto non era fluido ed alcuni tasselli del puzzle, a cui ho accennato
poc’anzi, rimanevano fuori posto”.
Come si è detto all’inizio il mobbing non è un malattia ma è causa di
patologie, anche molto gravi, a livello psicosomatico. Gli studiosi sono
concordi nel ritenere che non ci sono formule magiche per estirpare il
fenomeno, anche perché ogni persona è diversa ed ogni danno è diverso.
Quello che invece è assolutamente certo è che per sconfiggerlo bisogna
conoscerlo.
“In tale contesto – dice Ege – la formazione acquista una importanza straordinaria al pari di una corretta informazione e, a seguire, l’elaborazione di strategie risolutive. La formazione deve essere mirata a rinsaldare i principi dell’autostima e ad impartire tecniche di autodifesa verbale. Queste tecniche hanno lo scopo di fare acquisire, in modo diretto e con simulazioni, le strategie fondamentali per difendersi dagli attacchi del datore di lavoro fatti di insulti, rimproveri e critiche ingiustificate, insegnando le regole per controbattere in maniera adeguata senza arrivare ad un fatale inasprimento del conflitto”.
Un’altra tecnica molto importante per arginare e circoscrivere il fenomeno è quella dell’egoismo sano. “Questa si basa sul concetto – continua il prof. Ege – che essere egoisti non vuol dire necessariamente recar danno agli altri, mentre non essere egoisti il più delle volte significa fare davvero del male a noi stessi”.
Risulta comunque assodato che il mobbing non fa discriminazioni fra uomini e donne, che hanno la stessa probabilità di essere vittime di mobbing. “Il mobbing però assume contorni diversi – evidenzia Ege – in base al sesso del mobber e del mobbizzato. Le lavoratrici vittime di mobbing sono più sensibili e soffrono in silenzio mentre gli uomini molto spesso si vergognano a raccontare le situazioni di cui sono stati vittima. Inoltre i mobber il più delle volte attaccano e mettono sotto pressione vittime del loro stesso sesso. Il molestatore di sesso maschile preferisce mettere in atto strategie di mobbing passivo fatto di azioni che si sostanziano in una serie di soprusi e prevaricazioni che hanno l’obiettivo di isolare e marginalizzare la vittima ma che non sfociano mai in un conflitto aperto. La mobber invece predilige il mobbing attivo, sommatoria di aggressioni verbali, urla e vessazioni, intenzionali, chiare e dirette. Comunque ciò che muove sia l’uno che l’altra sono le gelosie sempre presenti nei posti di lavoro”.
Però come detto in precedenza, prima di parlare di mobbing è necessario
fare un’analisi puntuale della situazione per fare in modo che la terapia
sia mirata ed efficace. “Da qui discende l’importanza - sono sempre parole
del prof Ege - di rivolgersi ad una struttura idonea, anche perché con
un’analisi sbagliata del fenomeno si rischia di peggiorare la situazione,
anziché risolverla. Alle persone che si rivolgono all’Associazione Prima di
cui sono presidente dico subito di ‘pensare positivo’ e di non
prendere decisioni non adeguatamente ponderate, che potrebbero causare
danni irreversibili. Dopo queste premesse, si comincia a lavorare
sull’autostima incoraggiando il paziente a riconquistare se stesso e la
padronanza dei propri pensieri e atteggiamenti, svincolandosi dalle
limitazioni e dalle influenze dell´ambiente circostante. Anche lo sport
aiuta a sconfiggere gli effetti perversi generati dal mobbing”.
È comunque fondamentale non isolarsi, coltivare le relazioni sociali,
frequentare gli amici, rinsaldare i rapporti familiari. Si può fare una
bella vacanza, o dedicarsi ad un hobby; insomma, tutto ciò che può
costituire una valvola di sfogo è utile allo scopo. Si deve anche spiegare
ai propri familiari quello che si sta subendo, non vergognandosi della
propria situazione[7].
In Italia, a differenza di buona parte dei Paesi europei, non esiste una
legge specifica che sanzioni comportamenti vessatori o di dequalificazione
morale e professionale nei confronti dei lavoratori: quindi il mobbing non
può configurarsi come specifico ed autonomo reato. In Parlamento giacciono
da anni numerose proposte atte a fornire ai lavoratori mobbizzati adeguate
tutele in sede penale.
“La via legale è l’ultima spiaggia – fa presente Ege – in quanto è lunga, costosa e dolorosa. Non bisogna illudere le persone che a tutti i costi vogliono accedere alla tutela giurisdizionale per chiedere un risarcimento per i danni da mobbing. È noto che il danno da mobbing deve essere provato dal lavoratore e quindi se il Tribunale gli dà torto corre il rischio di perdere il lavoro. La Cassazione al riguardo con una sentenza del 2000 ha sancito che l’ingiusta accusa del lavoratore nei confronti del datore è giusta causa di licenziamento. Io sono d’accordo che l’Italia si doti di una legge, ma deve essere sul tipo di quella del ‘danno biologico’. Il legislatore dell’epoca ha definito il danno biologico come la lesione all’integrità psicofisica della persona suscettibile di valutazione del medico legale. Analogamente la valutazione del mobbing deve essere demandata allo psicologo del lavoro e non al giudice. Una legge così impostata mi troverebbe d’accordo”.
Per la legge il mobbing non è reato ma è comunque un vero e proprio
tradimento. Infatti risulta tradita in modo grave la Costituzione che
all’art. 32 individua nella tutela della salute uno dei diritti fondamentali
dei cittadini. Risulta tradito anche l’art. 41 che subordina il diritto
alla proprietà privata al rispetto della dignità umana. Tradito anche
l’art. 2087 del cod. civ. che impone al datore di adottare nell'esercizio
dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e
la personalità morale dei prestatori di lavoro. Ma risultano traditi anche
i postulati della dottrina sociale della Chiesa che con varie encicliche -
in particolare Rerum Novarum di Leone XIII, Quadragesimo anno di Pio XI,
Dives in misericordia, Laborem exercens e Centesimus Annus di Giovanni
Paolo II - afferma che il lavoro umano ha un suo valore etico che rimane
legato al fatto che colui che lo compie è una persona. Già nel 1891 la
Rerum Novarum di Leone XIII ammoniva di non tenere “gli operai come
schiavi”. E aggiungeva “non è il lavoro che degrada l’uomo” quello che è
veramente indegno è abusare di un uomo come “di cosa a scopo di guadagno,
né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze”.
A conclusione dell’incontro il prof Harald Ege ci ha regalato un aforisma, un condensato di quanto esposto in circa un’ora di conversazione. “Bisogna prendere atto delle diversità e ciò che ci può salvare è sapersi differenziare. Solo così non si andrà oltre la condizione che ho chiamato zero”.
Una massima di vita, certamente da mettere in pratica. Un esempio di che
cosa possa significare rispetto delle diversità lo abbiamo vissuto in
diretta camminando quel giorno per le strade affollate di una Bologna in
festa per la ricorrenza del Patrono. Era in corso una manifestazione di
giovani, ragazze e ragazzi, provenienti da tanti Paesi lontani che
cantavano e ballavano con i loro abiti colorati. Poi si sono presi per mano
e continuando a cantare e ballare hanno iniziato a sfilare per le vie della
città testimoniando in tal modo la gioia e l’importanza di stare assieme.
Abbiamo forse capito. Non siamo delle isole. Ogni singolo individuo è
legato indissolubilmente a tutto ciò che lo circonda. Edgar Morin parla di
“relianza”[8]. Un neologismo che ha coniato legando due parole francesi:
relier (unione) e alliance (alleanza). Relianza indica tutto ciò che unisce
e rende solidali, contro la divisione. Dal momento che trascorriamo tanto
del nostro tempo sul luogo di lavoro è necessario creare legami forti,
relazioni positive ed interazioni costruttive in ogni momento ed in ogni
contesto. La questione mobbing è complessa, ma un corretto atteggiamento
nei confronti di se stessi e degli altri può aiutare a riportare armonia e
convivenza in ambito lavorativo.
[1] Il film, prodotto da Rai Cinema assieme a Bim e Bianca Film, è tratto da un storia vera ai limiti quasi del documentario; Presentato (e vincente) nella sezione "panorama" del Festival del Cinema di Berlino, Mi piace lavorare nasce come progetto povero ed essenziale.
[2] Lavoro@Confronto - Numero 22 - Luglio/Agosto 2017: Un male oscuro chiamato mobbing di Dorina Cocca e Tiziano Argazzi (pagg. 39-43).
[3] Mobbing sul lavoro: significato, cause, conseguenze e come risolvere il problema - articolo di Simone Micocci del 14.03.2017 - www.money.it.
[4] le tipologie di mobbing sul posto di lavoro sono molteplici ma si possono riassumere nelle seguenti 13 tipologie: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire, anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte a colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente od amministrazione; g) esclusione o immotivata marginalizzazione dall'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; l) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti l'ordinaria attività di lavoro; m) marginalizzazione immotivata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento professionale; n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni.
[5] L’importante curriculum vitae del prof. Ege è riportato nel sito dell’associazione Prima.
[6] Il termine Straining deriva dall’inglese “to strain”, e letteralmente significa “tendere”, “mettere sotto pressione”, “stringere”.
[7] Conoscere, comprendere e reagire al fenomeno del mobbing di Tiziana Bartalacci.
[8] Edgar Morin filosofo e sociologo francese, oggi 96enne, è stato definito dall’Unesco “uno dei più grandi pensatori viventi dell’epoca attuale”.
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