Nella seduta del 7 agosto 2018 il Senato ha approvato la Legge n. 96 del 09 agosto 2018 di conversione del D.L. n. 87/2018 cd. Decreto Dignità, con l’obiettivo di tutelare la dignità dei lavoratori e delle imprese, in primis tutelando le nuove generazioni attraverso una vera e propria lotta al precariato e, successivamente, incentivando le assunzioni stabili e abbassando il costo del lavoro per gli imprenditori.
Nell’ottica del nuovo piano di governo, tale obiettivo è raggiunto “smontando” il Jobs Act con la modifica degli artt. 19, 21, 28 e 34 del d. lgs. 81/2015 e dell’art. 3 del d. lgs. 23/2015 e con l’introduzione di nuove norme restrittive per i contratti a termine e i contratti di somministrazione.
Quella che per il Governo appare una vera rottamazione del Jobs Act, alla luce delle novità introdotte può definirsi una parziale modifica, con la reviviscenza della vecchia disciplina della legge n. 230/1962 e del d. lgs. 368/2001. In sintesi, le novità sono le seguenti:
La principale modifica la troviamo nel nuovo art. 19 comma 1 del D.Lgs. 81/2015, il quale prevede che il nuovo contratto a termine “a-causale” potrà avere una durata non superiore ai 12 mesi; sarà possibile stipulare un contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi (e comunque mai oltre i 24 mesi) solo qualora sia apposta una causale, individuata nelle seguenti condizioni:
Restano escluse da tale limite le diverse disposizioni dei contratti collettivi e i contratti per le attività stagionali, che possono essere rinnovati e prorogati anche in assenza delle causali.
L’apposizione del termine, a pena di inefficacia, deve sempre avvenire per iscritto, con la sola eccezione dei contratti di lavoro di durata non superiore a 12 giorni. Una copia del contratto, inoltre, deve essere consegnata al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione.
Tali causali non sono assimilabili al cd. vecchio “causalone” del d.lgs. 368/2001, il quale, nato per dare attuazione alla direttiva 99/70/CE, con le sue “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” mirava a garantire ai datori di lavoro un margine di flessibilità e di autonomia nel potere di individuazione delle causali libero dall’intervento sindacale e dal modello regolativo della precedente l. n. 230/1962. Al fine di porre rimedio alla controversa eccessiva genericità della precedente formulazione della norma, il nuovo art. 19 assimila gli indirizzi giurisprudenziali consolidatisi sotto la sua vigenza. In particolare, la Corte di Cassazione[1] più volte è intervenuta in passato, non tanto sulla valutazione della natura in sé della ragione giustificativa del termine, quanto sulle modalità di obiettivazione della stessa nel contratto: per la Suprema Corte solo l’adeguata specificazione della ragione può soddisfare il limite richiesto dalla norma, preservando la coerenza con la direttiva 70/1999/CE. La trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine dovrà garantirsi «già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell’onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contesto che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale» [2].
Anche oggi con la nuova normativa, il problema, quindi, non sarà tanto di garantire la sufficiente trasparenza e riconoscibilità delle causali, ma comprenderne il merito della loro applicazione.
a) Le esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività
Nessun problema interpretativo si pone per le esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività (i cd. “picchi di attività”), dove sembra confermarsi ancora una volta l’orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte, per la quale l’onere di specificazione consente di «rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa» [3].
Per la Corte il richiamo alla temporaneità è riferito più cautamente alla durata della prestazione lavorativa (temporaneità dell’impiego) che non alla natura temporanea delle esigenze aziendali, essendo necessaria la stretta coerenza tra l’estensione temporale del contratto e le ragioni giustificatrici addotte.
Manca, invece, nella nuova norma il riferimento alle esigenze tecniche e produttive, pur previste dal d.lgs. 368/2001 fino all’entrata in vigore del d.lgs. 81/2015, le quali consentivano alle imprese margini di flessibilità nella stipulazione di contratti a termine volti a consentire l’acquisizione di maggiore professionalità e specializzazione nell’ambito produttivo per periodi limitati di tempo.
b) Le esigenze sostitutive
Il novellato art. 19 precisa che “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta da atto scritto”, in controtendenza rispetto al vecchio art. 19 del d.lgs. 81/2015, per il quale l’apposizione del termine poteva risultare dall’atto scritto “direttamente o indirettamente”. Caduto il riferimento all’indicazione indiretta del termine, si pone il problema dell’esatta determinazione del termine finale ove, per esempio, questo venga fatto coincidere con il momento del rientro del lavoratore da sostituire. Tale indeterminatezza del termine finale non potrebbe che comportare la trasformazione del contratto nato a termine in contratto a tempo indeterminato.
c) Le esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria
L’ultima causale, richiedendo “esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria”, offre il fianco ad un nuovo cospicuo contenzioso, ove nella sua formulazione sembrerebbe imporre tali requisiti in maniera congiunta.
Inoltre, la valutazione della temporaneità, della non programmabilità e della significatività dell’attività potrebbe avvenire sulla base di parametri totalmente incerti; potrebbe, infatti, non riconoscersi il criterio della temporaneità con riferimento ad un contratto che ab initio abbia la durata di 24 mesi, oppure l’incremento dell’attività potrebbe essere valutato significativo o meno a seconda che lo si guardi con l’occhio del datore di lavoro o del giudice. Allo stesso modo la programmabilità potrà essere valutata solo in giudizio.
In sede di conversione del d.l. n. 87/2018 è stato inserito il comma 1 bis dell’art. 1, il quale prevede che “in caso di stipulazione di un contratto di durata superiore ai dodici mesi in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi”. Resta, invece, ancora in vigore la disposizione dell’art. 19 comma 2 del d.lgs. 81/2015 che consente alla contrattazione collettiva, anche aziendale, alla luce dell’art. 51 del d.lgs. 81/2015, di derogare al limite massimo dei ventiquattro mesi, nonché l’ipotesi di stipula di un ulteriore contratto a tempo determinato tra gli stessi soggetti della durata massima di dodici mesi, presso la ITL competente per territorio. In caso di mancato rispetto di tale procedura, lo stesso si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data della stipulazione.
In materia di rinnovi, l’art. 21 del d.lgs. 81/2015 prevede un nuovo comma 01, in virtù del quale il contratto a termine (a prescindere dalla sua durata inferiore o superiore ai 12 mesi) può essere rinnovato solo in presenza di una delle causali previste dal comma 1 art. 19. Resta fermo il periodo di “stop and go” (cd. periodi cuscinetto) introdotti dal Decreto Giovannini (d.l. n. 76/2013), ossia 10 giorni, in caso di contratti di durata inferiore ai sei mesi, e 20 giorni, in caso di contratti di durata superiore ai sei mesi.
In materia di proroghe, il numero massimo consentito è di 4 proroghe (non più 5) nell’arco dei 24 mesi; il superamento di tale limite comporterà che il contratto a termine si considererà a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga. La proroga potrà intervenire sia nell’ambito dei 12 mesi ed, in tal caso, non sarà necessaria alcuna causale, sia oltre tale soglia, richiedendo necessariamente l’indicazione di una esigenza specifica prevista dal comma 1 art. 19.
Indispensabile resta il consenso alla proroga del lavoratore (reso in forma orale[4] o per fatti concludenti[5] o fornito addirittura, in via preventiva, al momento della stipula iniziale[6]), nonché il divieto di adibire il lavoratore ad altre attività non correlate a quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato[7], anche se sarà possibile, fermo restando le mansioni, che si indichi nella proroga una causale diversa da quella originaria per la quale il contratto è stato stipulato.
Tali norme non trovano applicazione per le attività stagionali, per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale e per le altre casistiche previste dall’art. 29 del d.lgs. 81/2015 nonché per le start-up innovative dell’art. 25 della l. n. 221/2012 per il periodo di quattro anni dalla loro costituzione o per il “riproporzionamento” di tale periodo previsto dalla stessa norma per le società già costituite.
La flessibilità del mercato del lavoro si paga… ed in tal caso ha il costo del contributo addizionale pari all’1,4% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali, già previsto dall’art. 2 comma 28 della legge 28 giugno 2012 n. 92, aumentato dello 0,5% in occasione di ciascun rinnovo del contratto a termine. Tale contributo, che si applicherà per i rinnovi effettuati a partire dal 14 luglio 2018, sarà destinato a finanziare la Naspi, con la conseguenza che un contratto a termine prorogato o rinnovato per un massimo di 4 volte potrebbe portare fino ad un’aliquota contributiva pari al 3,4%.
Al fine di incentivare la stabilizzazione del lavoratore a termine, il Legislatore consente al datore di lavoro di richiedere la restituzione delle ultime sei mensilità di contributo addizionale, quando alla scadenza del contratto a termine, lo stesso venga trasformato a tempo indeterminato. Ciò è possibile anche nel caso in cui l’assunzione a tempo indeterminato avvenga entro il termine di sei mesi dalla cessazione del contratto a termine, anche se la restituzione degli ultimi sei mesi sarà parziale, detraendo dalle mensilità spettanti (sei) un numero di mensilità pari al periodo trascorso dalla cessazione del precedente rapporto di lavoro a termine.
L’art. 1 comma 1 lettera c) del d.l. n. 87/2018 introduce una modifica dei termini di impugnazione del contratto a termine, che da 120 giorni passano a 180 giorni decorrenti, a pena di decadenza, dalla cessazione del contratto. L’impugnazione dovrà avvenire secondo le modalità dell’art. 6 della legge n. 604/1966.
In ultimo, il Legislatore ha previsto un regime transitorio per quei contratti in corso che, alla data di pubblicazione del decreto legge, abbiano superato la soglia dei 24 mesi; l’art. 1 comma 2 del d.l. 87/2018 come convertito dalla legge n. 96/2018 prevede che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti a tempo determinato stipulati successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.
Se nessuna perplessità sorge per i contratti in scadenza al 13 luglio, per i quali continua ad applicarsi la normativa del d.lgs. 81/2015, scenari differenti, invece, si aprono per i contratti sottoscritti dopo tale data, ai quali la nuova normativa sarà pienamente applicabile, sia in ordine alla necessità della causale che al regime delle proroghe e dei rinnovi.
In sintesi, i regimi sono quattro:
Dopo il restyling operato dal Jobs Act, il contratto a termine ha costituito la tipologia contrattuale più flessibile e utilizzata nel nostro Paese. L’Istat evidenzia come i contratti a termine non sono mai stati così tanti[8]. Attualmente sono 3 milioni gli italiani occupati con contratto a termine su oltre 17 milioni di lavoratori dipendenti. E si tratta di un numero destinato a crescere.
In tale scenario interviene il Decreto Dignità, fortemente voluto dal Governo, in controtendenza rispetto al legislatore passato, che aveva consentito forme di “personalizzazione” del rapporto di lavoro a vantaggio dei datori di lavoro. Il ritorno alla causali e la diminuzione della durata massima del contratto a termine, sebbene a rischio di ritorno di notevoli contenziosi giudiziari, hanno il pregio di smascherare e porre fine a situazioni di vero e proprio precariato e sfruttamento lavorativo. Resta inteso che tale guerra alla precarietà dovrà, però, necessariamente prevedere l’abbassamento del costo del lavoro, da inserire nella legge di bilancio, per tutelare aziende e lavoratori. In mancanza, non si farà che far ricadere nel sommerso una parte di quei 900mila contratti a termine in scadenza ad agosto e 600mila in scadenza a fine anno.
[1] In RIDL, 2010, II, 742. Cass. n. 1576 n. 1577 del 26 gennaio 2010.
[2] Cass. 16.3.2010, n. 6328, FI, 2010, I, 1755; Cass. 1.2.2010, n. 2279, RIDL, 2010, II, 754; Cass. 27.1.2011, n. 1931, Rep FI, 2011, voce Lavoro (rapporto), 801.
[3] Cass. 27.4.2010, n. 10033, MGL, 2010, 824; Cass. 17.11.2011, n. 24145, leggiditalia.it; Cass. 25.11.2011, n. 24895, ivi; Cass. 21.11.2011, n. 24479, ivi.
[4] Cass. n. 6305/1988.
[5] Cass. n. 4939/1990.
[6] Cass. n. 6305/1988.
[7] Cass. n. 10140/2005; Cass. n. 9993/2008.
[*] Ispettore del Lavoro in servizio presso la Sede dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Caserta
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